L'unico ritratto certo di Alcibiade pervenutoci (mosaico pavimentale del III-IV secolo |
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Diceopoli
dunque si traveste, espone il suo piano non senza fare un gesto sconcio, ed
Euripide che è il creatore della sottigliezza, oltre che della straccioneria lo
asseconda:
"te
lo darò: infatti macchini cose sottili con mente acuta"(445).
Diceopoli
prende tutta l'attrezzatura da mendicante, poi, prima di andarsene, infila una
battuta sulla umiltà del mestiere della madre di Euripide che avrebbe fatto
l'erbivendola:
"Euripiduccio
dolcissimo e carissimo,
possa
morire nella maniera peggiore, se ti chiederò ancora qualche cosa,
tranne
una soltanto, questa soltanto:
dammi
il cerfoglio che ti ha lasciato la mamma!" (475 - 479).
Euripide
si offende:
"Quest'uomo
mi oltraggia. Chiudi i serrami della casa"(479) e Diceopoli si allontana
con tragica disperazione dicendo:
"O
cuore, bisogna andarsene senza il cerfoglio!"(480).
Quindi
si appresta ad affrontare l'agone con il coro.
Diceopoli,
identificandosi ancora con Aristofane, premette che dirà"cose spiacevoli
ma giuste"(501). Aggiunge che Cleone non potrà calunniarlo e trascinarlo
un'altra volta in giudizio poiché
"siamo
soli per il concorso Leneo[1],
e
non ci sono ancora i forestieri"(504 - 505), presenti invece al concorso
primaverile delle grandi Dionisie quando vennero rappresentati i Babilonesi.
Diceopoli
dunque non ama i Lacedemoni; anzi li odia molto (509), ché anche a lui hanno
tagliato le vigne (512).
Eziologia
della guerra (cfr. Erodoto e Tucidide)
Tuttavia
la guerra non è scoppiata per causa loro.
Ci
fu un primo boicottaggio della merce di Megara da parte di
"omiciattoli miserabili di conio cattivo,
disonorati, contraffatti, mezzi
stranieri"(517 - 518)
poi il ratto di una prostituta megarese da
parte di giovani ateniesi ubriachi e la rappresaglia dei Megaresi che
"
rapirono alla loro volta due puttane di Aspasia
E
allora di qui scoppiò il principio della guerra
per
tutti i Greci: da tre prostitute.
E
allora Pericle l'olimpio, per l'ira,
lampeggiava
tuonava e metteva sottosopra la Grecia "(527 - 531) e, nel 432, decretò il blocco dei porti della lega delio
- attica nei confronti dei Megaresi. Questi, affamati, ricorsero alla
protezione degli Spartani i quali chiesero a Pericle la revoca dell'embargo ma
ricevettero un rifiuto.
Cfr. Tucidide
"E
allora ecco già il fracasso degli scudi"(539). L'eziologia della guerra
dunque trova cause futili e assurde. E dopo tutto gli Spartani non hanno avuto
torto nel difendere i loro alleati Megaresi. Il coro a questo punto (557 e sgg.
) si divide in due parti: una convinta da Diceopoli, e una che continua a
dargli torto e ad approvare la guerra, tanto che chiama in aiuto lo stratego:
"Lamaco
sguardo di folgore
tu
che sull'elmo hai la Gorgone, soccorrici
o
Lamaco, caro, compagno di tribù" (566 - 568).
Lamaco
interviene con atteggiamenti da miles
gloriosus cioé da spaccone e gradasso: apostrofa Diceopoli chiamandolo
pezzente e minacciandolo. Questo si difende ricordando di essere
"buon cittadino e non un intrigante,
e da quando c'è la guerra buon soldato
"(595 - 596), guerra dalla quale invece certi comandanti traggono profitto.
Tuttavia, ammette il protagonista, ho fatto la tregua separata:
"vedendo
uomini canuti nei ranghi
e
giovani come te che scappavano via " (600 - 601), magari a fare gli
ambasciatori prendendo l'indennità di tre dracme (602): è l'eterna critica
diretta ai profittatori delle guerre: quelli dell'"armiamoci e
partite" che abbiamo sentito di recente qui in Italia a proposito della
guerra del golfo.
Contro
la guerra cfr. la tragedia: l’Agamennone,
l’Edipo re, le Troiane, l’Elena.
Un
canto anarchico di moda nel '68 malediceva Gorizia e gli ufficiali che (al
tempo della prima guerra mondiale) restavano "con le mogli nei letti di
lana" mentre la truppa andava a versare il sangue.
Diceopoli
interpella un uomo per bene, lavoratore, già canuto e gli domanda se sia mai
andato a fare l'ambasciatore al pari di Lamaco o di altri personaggi della
nomenclatura aristo - democratica, privilegiati di regime. Diceopoli insomma si
tira fuori e invita a commerciare con lui i nemici "Peloponnesii, Megaresi
e Beoti"(623 - 624) contro i quali invece Lamaco vuole continuare la
guerra.
C'è
poi la prima Parabasi (626 - 718): il coro si toglie i mantelli e viene agli
anapesti (627).
Aristofane
parla di sé in terza persona:
"calunniato
dai nemici tra i volubili Ateniesi,
in
quanto motteggia la nostra città con le commedie e offende il popolo/
deve
rispondere davanti ai mutevoli Ateniesi"(630 - 632). La Parabasi è dunque
"il cantuccio" nel quale il poeta può esprimersi più personalmente. Aristofane
rivendica a sé il merito della schiettezza e della capacità educativa:
"egli
dice che vi insegnerà molte cose buone, in maniera che siate felici/
non
adulando né promettendo mercedi sotto banco, né ingannando/
né
facendo il farabutto né coprendovi di elogi, ma insegnandovi le cose
migliori"(656 - 658).
Il poeta sottolinea
questo suo compito pedagogico che verrà ribadito nelle Rane:
"ai bambini
infatti
è maestro colui che
insegna, per gli adulti ci sono i poeti
e noi dobbiamo dire
cose assolutamente oneste" (1053 - 1055) afferma Eschilo discutendo con
Euripide.
Sicuro di essere nel
giusto dunque, Aristofane afferma, passando alla prima persona, che continuerà
per la sua strada dove:
"il bene e il
giusto saranno
alleati con me, e
mai verrò preso
ad agire verso la città
come quel
vigliacco e
pederasta sfondato"( Acarnesi, 661
- 665). Si tratta del solito Cleone.
La parola torna al
corifeo che biasima la città la quale li trascura. I "vecchi antichi"
(676) vengono derisi da "oratori ragazzini"(680).
Si può pensare ai
rottamatori nostrani.
"il giovanotto
che si è dato da fare per sostenere l'accusa
colpisce veloce
avviluppando con parole serrate;
poi trascinato sul
banco l'anziano lo interroga collocando trappole di parole,
dilaniando e
tormentando e sconvolgendo un uomo vecchio come Titone.
E questo biascica
per la vecchiaia e se ne va condannato,
poi singhiozza e
lacrima e dice agli amici:
"vado a pagare
per una multa il denaro con il quale dovevo comprare la bara"(685 - 691).
La città con questo
comportamento pecca di ingratitudine: infatti, lamenta il corifèo che fu
maratonomaco:
"quando eravamo
a Maratona inseguivamo il nemico;
ora siamo perseguiti
da uomini malvagi assai
e siamo condannati
per giunta"(698 - 700).
C'è una forma di
oppressione giudiziaria dei giovani sui vecchi: per scongiurarla bisognerebbe
fare "cause separate"(714) e che il vecchio sdentato sia difensore
del vecchio, dei giovani invece:
"quel culo rotto e chiacchierone del
figlio di Clinia" (716).
Si tratta del grande
trasgressore Alcibiade, quello cui, secondo D'Annunzio, "parve più fiera
la gioia/ d'abbattere il limite alzato"(Maia, Laus vitae ").
Nella Vita di Plutarco troviamo, tra le altre,
notizie sulla sua dissolutezza che del resto non inficiava le grandi capacità
dell'uomo: "alle doti politiche e oratorie... si univano grandi difetti: menava
una vita dissoluta, era dedito al bere, amoreggiava senza ritegni, vestiva con
effeminatezza, strascicando, per esempio, la veste"(16). Ma nel Simposio di Platone il grande seduttore
dell'intera Atene deve riconoscere che la bellezza di cui andava fiero era solo
di bronzo in confronto a quella aurea di Socrate il quale "disprezzò e
derise e umiliò" tanta venustà non contraccambiando i desideri del
discepolo (219c).
Finita la prima parabasi,
seguono scene episodiche (719 - 1149).
Diceopoli segna i
confini del suo mercato personale dove possono comprare e vendere
"Peloponnesii, Megaresi e Beoti"(721 - 722), mentre non possono
mettervi piede i guerrafondai come Lamaco né i sicofanti, cioé i delatori, le
spie del regime.
Arriva un Megarese
appunto seguito da due bambine,
" povere figlie
di padre disgraziato"(731).
Il babbo fa una
domanda:
"volete essere
vendute o morire di fame?
"vendute, vendute!"
gridano le ragazzine (734 - 735).
Segue una delle
scene più tragiche del teatro greco. Il padre trasforma le fanciulle in
porcelline, poi va a chiamare Diceopoli per dirgli che vende "maialine
misteriche"(764), di quelle cioé che si sacrificavano ai misteri di
Demetra. La scena, pesante, siccome risente della comicità grossolana della
farsa megarese, gioca sul doppio senso della parola coi'ro" (choiros ) che, come il latino porcus indica tanto il maiale quanto l'organo sessuale femminile.
Il Megarese dunque
mostra le porcelline, ma Diceopoli si accorge del trucco. Una bambina prova
anche a fare il verso del porco (coì coì,
780) e Diceopoli commenta:
"ora sembra
davvero una maialina,
ma una volta
cresciuta sarà una fica"(781 - 782).
Dunque non si può
sacrificare, e l'altra nemmeno.
Anzi, ribatte il
padre,
" la carne di
queste porcelle diventa
dolcissima una volta
trafitta sullo spiedo"(795 - 796), un doppio senso ancora una volta
piuttosto grossolano che del resto anticipa un'immagine non troppo distante da
questa, una fine metafora sessual ittica invece che porcina, presente nel
romanzo L'uomo senza qualità di Musil:
"Egli vedeva la figura di lei sotto le vesti come un gran pesce bianco che
è vicino alla superficie dell'acqua. Gli sarebbe piaciuto fiocinarlo virilmente
e vederlo dibattersi, e v'era in quel desiderio tanta ripulsione quanta
attrazione"(p. 849).
Seguono altri doppi
sensi a base di ceci e fichi, finché il megarese vende le figlie - porcelle per
una treccia d'agli l'una e una misura di sale l'altra (813 - 814).
Arriva un sicofante, un delatore
professionista che vorrebbe fare la spia, ma Diceopoli lo caccia in malo modo
denunziando a sua volta questa genìa come la piaga della città:
"quale sciagura
è questa in Atene!"(829).
Diceopoli dunque
conclude l'affare e il corifèo lo proclama felice per questa sua estraneità a
sicofanti e demagoghi, veri malanni di Atene.
Quindi arriva un
tebano a offrire la sua mercanzia: il nostro eroe è attirato soprattutto dalle
anguille di Copaide, un lago della Beozia, oggi prosciugato:
"o tu che porti
la leccornìa più gradita agli uomini,
permetti che io
saluti le anguille, se davvero le porti"(881 - 882). Grande è la gioia del
pacifista ateniese nel vedere "l'ottima anguilla
giungere bramata dopo cinque anni
finalmente"(889 - 890).
Dicepoli è tanto felice che utilizza, in
travestimento derisorio, due mezzi versi pronunciati da Admeto nei riguardi
dell'adorata Alcesti (367 - 368),:
"che nemmeno
morto io
sia mai separato da
te… cotta in mezzo alle bietole"(892 - 893).
Il tebano in cambio
vorrebbe qualche cosa che da loro non si trova mentre abbonda ad Atene. La
proposta pronta di Diceopoli è: "allora portati via un sicofante
dopo averlo
imballato come un vaso"(903 - 904).
In effetti un rappresentante di questa genìa
aborrita da Aristofane entra in scena e minaccia denunzie a raffica, ma
Diceopoli gli tappa la bocca con dei trucioli, perché non si rompa se mandato
via, imballato appunto come un vaso (926 - 928). Sarà
"un recipiente
buono a tutti gli usi,
una coppa di mali, un
mortaio di liti,
una lanterna
responsabile di rivelazioni
e un calice da
rimescolarvi gli affari" (936 - 939).
Capace di tutto
dunque il sicofante: perciò il tebano se lo porta via.
La polemica contro i
sicofanti è presente nell'opera di Aristofane quasi quanto quella contro
Euripide, Socrate, Cleone e i demagoghi in genere. Facciamo un paio di esempi.
Negli Uccelli (414), l' alata e allegra utopia
costruita per fuggire dalla dura realtà politica sociale e militare, viene
fondata la nuova città dei cuculi tra le nuvole (Nefelokokkugiva), da Pistetero ed Evelpide, i due Ateniesi disgustati dei concittadini
e guidati dai volatili.
Nella nuova polis arriva,
con altri sgraditi ciarlatani, fanfaroni e assassini (tra cui uno spacciatore
di oracoli e un parricida, altrettante caricature
di esistenze moderne e deformi) anche un sicofante il quale reclama
delle ali (1420): gli servono per denunziare, sostenere l'accusa e tornare
indietro volando (1455). Naturalmente Pistetero lo caccia non senza averlo
prima picchiato perché impari quanto "amara è l'arte di stravolgere la
giustizia"(1468).
I sicofanti, come si vede, sono legati ai
processi: non potevano dunque non essere almeno menzionati nelle Vespe (del 422) che poi sono gli Eliasti,
i giudici del tribunale popolare chiamato Eliea. Costoro erano seimila e
secondo Aristofane avevano la mania dei processi con i quali perseguitavano le
persone invise a loro e a Cleone che li corteggiava: il demagogo aveva anche
alzato l' indennità eliastica da due a tre oboli al giorno. In compenso questi
giudici infliggevano pene e multe agli oppositori del regime; ma non avrebbero
potuto agire tanto efficacemente (c'è chi parla di una dittatura del
proletariato ante litteram esercitata
attraverso questo tribunale) se non ci fossero stati i delatori cui bastava
muovere l'accusa generica di aspirante tiranno. E chiunque provasse qualsiasi
antipatia per chiunque, poteva denunciarlo. In questa commedia che mette in
berlina giudici e processi, Aristofane racconta che al mercato
"se uno compra
scorfani e non vuole sardine,
subito quello che lì
vicino vende sardine dice:
"quest'uomo
evidentemente vuole fare provviste (di scorfani) per la tirannide!"(Vespe,
493 - 495).
continua
[1]
Di fine gennaio: un concorso comico cui gli alleati non potevano intervenire a
causa della stagione.
Sicuramente la letteratura contemporanea,al contrario della commedia antica, non sempre si pone come educativa,spesso cade nel volgare e nel gratuito per attirare lettori avidi di oscenità prive di gusto... Giovanna Tocco
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