lunedì 8 maggio 2023

Medea e Giasone fra mito e Letteratura, squilli di mitopoiesi. Di Giuseppe Moscatt

Giuseppe Moscatt
Medea e Giasone fra mito e Letteratura, squilli di mitopoiesi
 

La prossima rappresentazione al Teatro Greco di Siracusa della tragedia di Euripide Medea, prevista nel maggio prossimo; offre il destro a una rilettura di quel mito e a una breve sua esposizione della sua recezione nella letteratura antica, moderna e contemporanea, operazione non disgiunta da influenze legate alle circostanze storiche. All'origine sta la quarta Pitica di Pindaro, poeta greco, nato vicino a Tebe nel 6° secolo a.C.,  dove il mito di Medea - ripreso da Euripide (431 a.C.) - si intreccia al già collaudato mito di Giasone e degli Argonauti.
Nata in Tessaglia, l'antica leggenda la vede sposa di Giasone, capo di una ciurma di Eroi alla conquista del Vello d'oro, un manto dorato che Ermes, il messaggero degli Dei, donò all'amata mortale Nefele. Mantello miracoloso perché appena indossato curava ogni ferita e malattia. Certamente, già la natura dorata e l'origine vellutata del mantello, indica un naturale collegamento erotico con la figura femminile. Nondimeno la poesia classica collegava nella sua ricerca da parte dei mortali il desiderio di conoscenza e di avventura dei naviganti. Giunto dal Re Eeta della Colchide (ora fra il Caucaso e l'Armenia), trovò il vello che era custodito da un drago, che lo custodiva finché non se ne appropriò con uno stratagemma, con l'aiuto di Medea, figlia del re e maga già nipote di Circe, sorella del padre Eeta (qui, non solo fa capolino una delle tante maghe amate da Odisseo, ma anche un chiaro riferimento a Teseo e alla analoga leggenda del Minotauro). Tuttavia nella fuga amorosa con Giasone e il Vello, Medea già non si fa scrupolo di uccidere il fratello Apsirto, squartandolo a pezzi per rallentare l'inseguimento del padre che inorridito pianse le spoglie sparse del ragazzino: una prima anticipazione dell'orrendo delitto di Medea.
 
Durante il periglioso viaggio di ritorno non mancano avventure incredibili degne del viaggio di Odisseo: per esempio, la Nave di Giasone fu attaccata dai Ciclopi che cercheranno di bloccare la partenza dall'isola di Cizico, scagliando un diluvio di massi. Solo l'abilità del giovane Ercole nell'uso delle frecce - ci stava anche lui in quella combriccola di eroi!- li salva dal naufragio. Tornati in Tessaglia a Iolco, Giasone, erede al trono, trova lo zio Pelia ad usurparlo. Malgrado il patto di scambio fra trono e il Vello d'oro, Pelia non ottempera. Ad aiutare Giasone, ancora una volta viene in soccorso la dolce e diabolica Medea, che in greco deriva dal verbo Menomai, cioè ordire piani malvagi, proprio perché è una maga cattiva ma altrettanto desiderosa di comandare. Anzi, Medea suborna le figlie del Re a tagliarne il corpo a pezzi, pratica stregonesca che aveva adottato col fratellino. Le ragazze, un po' acerbe, cadono nel tranello, credendo che Medea, dopo quel colpo di Stato, lo avrebbe resuscitato ed esiliato. Portate le membra del vecchio nella caverna della maga, sparita nel nulla, le ragazze per fame ne mangiano i poveri resti e muoiono disperate quando lo comprendono (non c'è chi non vede un altro legame con la figura dantesca del Conte Ugolino). Giasone ora regna: ha Medea e l'amore, la famiglia - con la donna ha due figli - e il Potere, ma anche la prosperità e la pace, governa in quella regione del Nord - che dal IV secolo a. c. farà parte della Macedonia e di Re Filippo padre di Alessandro Magno, finché il Regno verrà riconquistato da un Pelide che lo caccerà a Corinto.
 
Qui, inizia la tragedia di Euripide. Nei primi versi Giasone abbandona Medea per sposare la giovane e bella figlia di quel Re. Questi allora ordina a Medea di allontanarsi, rompendo quella pace domestica e d'amore che aveva mantenuto il potere nella vecchia Patria. In un tremendo colloquio - non lontano dal terribile dialogo fra lady Macbeth e lo stesso principe scozzese sceneggiato da Shakespeare - monta la vendetta della donna, abituata al rancore che le cova da tempo forse per le tante scappatelle del marito.
La decisione è raccapricciante: non solo medita la morte della rivale, ma addirittura maleficamente progetta lo sterminio dei due figlioletti. Il piano ha successo: la povera principessa muore fra gli spasmi, con un mantello che la divora - quasi il contrappasso dantesco del vello d'oro – poi Medea sgozza i due malcapitati bambini. Giasone chiude in ginocchio la scena, di fronte a Medea che su un carro dorato e alato - il carro del Sole come quello di Elia profeta biblico? - vola al santuario di Hera coi cadaveri dei due bambini (si segnala che anche Hera moglie di Zeus era stata molte volte tradita!) che seppellirà lontano dal marito fedifrago. Il dolore di Giasone è immenso e già nelle Argonautiche di Apollodoro. il carro volante di Medea sembra adombrare un folle volo verso la libertà della famiglia falsa e bugiarda che Giasone aveva ipocritamente creato, tanto da viver povero e pazzo suicida in una Corinto che gli ha girato le spalle.
 
Euripide però sfugge a questa consueta lettura mefistofelica. Non soltanto è una maga; non è un semplice moglie tradita, è una donna aspra e violenta, che intende annullare il marito, anzi il maschio prepotente e borghese, quasi un anticipo dell'uomo biedermeier dell'800 postromantico  dell'uomo usa e getta, un comune profittatore della situazione, all'epoca della Prussia moderna, il burocrate capitalista immortalato da Mann e da Musil nel tramonto dell'Impero Asburgico. Tuttavia quest'ultimo profilo di lettura dovrà attendere ancora 12 secoli: Apollonio Rodio, nelle Argonautiche  del terzo secolo a.C., le dà una passionale carica erotica che farà da modello alla Salomè di Wilde.  Invece Seneca nel primo secolo dopo Cristo ne ribadisce la gelosia e anzi la pone già sulla scena intenta all'atto finale cruento e delittuoso, contravvenendo alla pietas rappresentativa che Ovidio aveva inaugurato nel descrivere il suo delitto (vd. l'Ars Poetica, quando ai versi 185 e ss. impone nec pueros coram populo Medea trucidet).
Molti critici medievali poi guardano ora al marito, la cui figura è cristianamente maledetta, come l'Ulisse dantesco, perché ha violato la Natura, solcando per primo il mare per cercare quel Vello d'oro, simile  al fuoco di Prometeo, un eroe ateo perché cerca di essere un Dio, un Uomo-Dio. Ecco perché anche Medea appare della stessa genia come complice dell'Eroe, ambedue coinvolti in un destino atroce, un Adamo ed Eva redivivi, l'uomo suicida e l'altra assassina dei suoi figli. Dante, al XVIII canto dell'Inferno, in merito ci dice: guarda quel grande che vene, e per dolor non par lagrime spanda: quanto aspetto reale ancor ritene! Quelli è Iasón. con segni e con parole ornate Isifile ingannò ... Lasciolla ... gravida, soletta; tal colpa a tal martiro lui condanna; e anche di Medea si fa vendetta. Con lui sen va chi da tal parte inganna ... Qui c'è un passo in avanti critico della vicenda: lo sguardo critico di Dante appare giudicare severamente il mitico personaggio che Virgilio gli propone seguendo il modello un po' soffuso di Ovidio, che lo aveva interpretato come un eroe seduttore nello stile di Giove, padre naturale di Ercole e corruttore dell'ingenua Alcmena. Per Dante non si può essere a un tempo eroe e ingannatore, un prode e un conquistatore femminile. Quindi si merita la punizione del destino divino. Ben diversamente dall'eroe Don Giovanni mozartiano che quasi con piacere accetta il rischio di morire pur di soddisfare il piacere della conquista. Un burlador che rimette in gioco la figura di Giasone novello Prometeo, vincitore di un Dio falso e bugiardo, eco di un Prometeo goethiano nel solco del razionalismo libertario, lo Sturm und Drang di fine '700.
 
Solo che in questa notevole ascesa  della figura letteraria maschilista a farne le spese è la figura di Medea, sempre più un ostacolo, un inutile peso da eliminare per la vittoria dell'uomo sull'eterna avversaria, la donna della Genesi. Saranno due autori italiani romantici a variare il tema in direzione di Medea, Se Corneille (1635) indulge ancora sulla potenza magica  di Medea, strega più che madre, un mostro più che una donna; Giovanni Battista Niccolini (1825) e La Medea di Portamedina (1881) di Francesco Mastriani prospettano il dramma di una donna in ottica femminista, un'eroina cosciente di sé e della primitiva forza delle sue passioni; come se però fosse  vittima, quasi autrice di una legittima difesa e una timorosa di un sé scatenato fuori da ogni limite, sprezzante per ogni convenzione sociale che ancora la vorrebbe legata, o meglio relegata a custodire il focolare. Sicuramente, la Madame Bovary di Flaubert, l’Anna Karenina di Tolstoj e la Nora Helmer di Ibsen, che risentono  di una rivolta femminile che il realismo postromantico invoca fin dalla Effi Briest di Fontane e dopo la reazione liberale di Madame de Staël e Mary Shelley, nell'Europa Occidentale di primo ottocento. Proprio la citata Medea di Portamedina è commentata da un'entusiasta Matilde Serao che trova nell'opera del Mastriani la conferma letteraria di quanto andava predicando un allora oscuro medico di Vienna, tal Sigmund Freud, che ricostruiva il mito di Medea alla luce di un'analisi dell'Io cosciente scisso fra storia e mito.
In particolare, lo studioso austriaco evidenziava la separazione contraddittoria fra le due strutture di comprensione del mondo, l'una fondata sulla logica razionale, l'altra sul sentimento soggettivo. Quest'ultimo renderebbe il mito un mero consolatore  della dura realtà. Qui siamo già al pensiero di Jung col suo concetto di archetipo: il tipo orrendo ed esecrabile, viene trasfigurato in una innocenza che l'artista moderno riscopre fra le pieghe del mito stesso. Epperò - proseguirà Jung e poi Lacan - se il mito in origine si trasmette e perfino si assume come positivo; allora la storia diventa colpa e non perfidia, che potrà diventare poi ancora morte o magia realistica di impronta surrealistica. Infatti la trasformazione dello spazio storico a spazio intimo di morte muta radicalmente la relazione col mito di buona parte della cultura moderna e non mancherà di integrare la cultura borghese nel reinventare valori spirituali, che tendano a ricongiungere il mito alla storia, dando una giustificazione alla condotta realista sempre meno orrida e sempre più consona al senso si smarrimento dell'uomo moderno. Due esempi letterari sembrano aderire a questa rilettura. Se lo storico è un luogo di morte - come la esistenza di Dio è la morte per Nietzsche, Heidegger e Sartre - allora lo spaesamento kafkiano non è soltanto un fattore di un singolo soggetto, quanto e piuttosto un sentimento assoluto, perché quando si sente e quando si ama, quando epicamente si deve essere Eroe per gli altri si getta la maschera degli affetti - qui per Medea sono gli amori familiari - perciò si giunge al di sopra del Destino e  si dà sfogo alla sua completa autenticità. E tale è appunto la ricostruzione di Rainer Maria Rilke nella terza Elegia Duinese (1923). Invero, dice il poeta espressionista, quando anche l'esperienza d'amore diventa morte dell'altro, allora è una morte che allontana la propria morte, come direbbe Canetti. E' il caso delle donne abbandonate, il cui amore viene interrotto, che non possano che aspirare alla morte del partner e che si estende ai figli loro naturale propensione e retaggio. Medea all'origine - ma anche Fedra e Arianna - è la classica vergine sposa di un Dio e perfino la citata Alcmena lo era - che ha pagato il proprio amore in moneta d'abbandono e dunque una Kore strega messaggera di morte, una Dea dell'Aldilà. Solo che per Rilke la radice mitica della lasciata si ricompone al contrario nella figura della buona guaritrice di fronte alla morte dei suoi cari. In altre parole, la tradizionale datrice di morte è ora traditrice di vita, per la notoria apocatastasi dei valori privilegiata dal nichilismo contemporaneo e nondimeno risorta nel millenarismo di inizio secolo, quando lo spiritualismo ideologico giustificò la voragine della Grande Guerra.
 
Del pari, Corrado Alvaro, nella tragedia La lunga notte di Medea rivaluta la figura maritale di Giasone, in armonia all'ideologia  fascista di cui ormai è diventato un oppositore sfumato, visto che fin dal 1938, dopo anni di indifferenza, ne ottiene un certo favore dopo aver narrato da corrispondente da Mosca la nuova società Sovietica (1938). L'autore del significativo Gente in Aspromonte (1930) - voce  evidente dell'abbandono delle terre meridionali da parte del Regime fascista - anche per reagire alle critiche del secondo dopoguerra sulla sua connivenza intellettuale agli ultimi anni del Regime, pubblica la predetta tragedia in chiave simbolista sul rapporto fra Giasone e Medea (1947). Costei rappresenterà la coscienza critica dell'eroe stanco, il piccolo borghese intenzionato a chiudersi nel privato dopo una guerra non voluta e malamente perduta. Figura che configura l'Italia della ripresa, decisa a dimenticare la parentesi autoritaria e a chiudere ormai l'epica della Resistenza. Medea invece non solo si prodiga a rivaleggiare con Creusa, la giovinetta esempio della imminente ricchezza del Paese ormai pronto a ricevere e ad investire i fondi americani e a prosperare come se nulla fosse avvenuto. Medea vuole che Giasone non dimentichi, che Giasone ritorni ad essere l'eroe della Resistenza ormai dimenticata. Ecco perché Medea ucciderà Creusa, esempio della pace dei sensi borghese. E la conseguente strage dei figli altro non è che il riscatto finale contro chi si è fermato e ha tradito gli ideali dell'antifascismo. L'ultima notte di Medea, malgrado avesse avuto a Roma nelle poche serate di recita un accompagnamento d'eccezione - scenografia di De Chirico e musiche di Pizzetti, senza contare il pathos recitativo di Tatiana Pavlova - non ebbe successo perché il delitto esecrabile di Medea non poteva esser giustificato da un pubblico ancora lontano dalle teorie psicanalitiche nordeuropee. Ripubblicata nel 1966, ancora con lo scopo di Alvaro rivolto a rivalutare la figura di Giasone non più un dongiovanni ma un politico senza scrupoli.
 
Sarà compito di Pier Paolo Pasolini riaprire la causa di Medea. Lo scrittore friulano - al pari della coeva revisione letteraria del premio Nobel Christa Wolf (ed. 1996) - ne ribalta la figura di donna. Significativa anche per la Wolf l'aggiunta voci nel titolo del suo romanzo. Benché permanga lo stigma classico di donna passionale e il fatto che la Colchide e Corinto siano paesi violenti e lontani da ogni clemenza per quella coppia sicuramente omicida e avida di poteri, tuttavia tende a rimarcarne lo spirito generoso, la madre della terra, una donna sanguigna come La lupa di Verga, però costretta alla strage per la malevolenza e l'ipocrisia sociale  che le ha voltato le spalle di fronte alle ambiguità del coniuge. Le voci sono quelle dei testimoni, quasi un coro pluriforme di narrazioni spesso ambivalenti, come quelle di un processo penale indiziario, dove le contraddizioni delle parti ci presentano una vicenda multiforme. Se il cinema già ci ha mostrato come essere donna, straniera, maga e libera sia stato nel tempo causa di isolamento (se pensiamo al film di Dreyer su Giovanna D'Arco, a quello di Kurosawa per Rashomon e quello di Dino Risi Una vita difficile, per la necessità di un eroe ad integrarsi in una società filistea con una compagna che non comprende le sue difficoltà), allora la definizione di classico come opera spirituale  e culturale, degna di studio  ed elevata a modello esemplare e assoluto (secondo il Devoto-Oli, Ed. 2000/2001) non viene scalfita della considerazione di massimi esponenti della scuola rivalutativa del Mito in chiave contemporanea. Se è vero che nel '900 il concetto di Mito è apparso a volte il veleno della storia, altre volte come la sua Medicina, capace a riaprire il discorso dell'umanesimo integrale (Maritain in chiave cristiana) e a caratterizzare il regresso della società per interpretarlo come mezzo di barbarie, se non ideologia giustificativa di tirannia e di crimine assoluto (Adorno per il Nazismo); è anche vero che la corruzione delle radici mitiche va distinta in mito genuino e mito meccanizzato, o meglio mito manipolato da interprete che ne vorrebbero usare per fini concreti di parte, come ben distingue Karl Kerenyi. E dunque la domanda finale sarà quella di giudicare opera per opera se il mito originale sia stato proposto come salvaguardia dell'Uomo; oppure come mito adottato per iniettare un morbo infettivo nella società stessa affinché lo coltivi inconsciamente, al punto da essere ineluttabilmente contaminata.


Giuseppe Moscatt

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