Tornai nell’albergo un poco riconfortato. Prima di mettermi a letto rilessi e e ritoccai un paio di volte il mio riassunto dei Fratelli Karamazov che quattro giorni più tardi avrei dovuto recitare ai miei alunni leggendo il meno possibile. Mi posi davanti a uno specchio e provai pure l’actio: il tono e l’espressività della esposizione. Quel grande romanzo mi appassionava perché potevo identificare me stesso in un paio dei fratelli figlioli di Fëdor, e Ifigenia nella Gruscenka.
Dostoevskij mi influenzava con i suoi personaggi estremi. Mi giustificava anche. Mi sentivo moralmente ubriaco come il sensuale, assatanato Dimitri e Ifigenia nella mia testa diventava la donna il cui corpo flessuoso e infernale faceva impazzire l’amante prima che riuscisse a scovarne l’anima e a trasfonderla nella sua.
Il desiderio carnale lo torturava finché all’amare non si aggiunse il bene velle.
Anche il santo Alioscia però potevo trovare in me stesso. Come ho raccontato nel primo romanzo, Elena l’amante amata più e meglio di tutte, prima di partire dalla stazione orientale di Budapest disse che non mi avrebbe mai dimenticato né scordato perché ero stato buono con lei dopo che si era affidata a me senza conoscermi bene. Aveva comunque capito subito che non ero cattivo e non si era sbagliata. La sua congettura del primo approccio fu confermata del tutto una sera di agosto quando, spinto dall’egoismo e dalla vanità, volevo accrescere il mio piacere e il numero delle conquiste senza pensare che avrei fatto del male all’amante che amavo e mi amava: a una festa sulla terrazza del casinetto del tennis c’era una ragazza francese che mi piaceva e manifestava per lo meno simpatia nei miei confronti, perciò avrei potuto corteggiarla e ne fui tentato, ma come mi accorsi che il mio vezzeggiamento di quella giovanissima infliggeva dolore alla donna conquistata con tante parole e dichiarazioni di amore, avevo lasciato perdere la luccicante, liscia fanciulla e avevo chiesto scusa alla donna matura che si era fidata di me.
“Ti sei vietato un piacere per non danneggiarmi”, disse.
“Non ne sono pentito, anzi ne sono fiero”, risposi. “ E aggiunsi: non dimenticherò mai il nostro amore”.
Ho fatto di più: ne ho creato un mito[1].
L’amante amata dell’anno seguente, la studiosa Kaisa, aveva detto di avermi amato perché non le avevo fatto paura come gli altri uomini incontrati prima di me.
Due anni più tardi Päivi rimase incinta di me, poi abortì, ma prima di partire mi disse che ero un eterno cercatore e che avevo bisogno di tempo ma avrei trovato quanto cercavo. Infatti quando venni lasciato da questa finnica estrema trovai il ruolo mio: quello dell’educatore. Oltre altre compagne non tutte indegne di me.
Quattro anni dopo Elena, una Ciuvassa russificata, Faina, che faceva l’interprete a Budapest, mi disse: “tu non sei debole come talvolta vuoi apparire. Sei forte come Alioscia dei Karamazov e sei buono come il principe idiota e geniale dell’altro grande romanzo dell’autore che amiamo”.
“Infatti non sono cattivo” mi ripetevo la notte della resurrezione di Cristo crocifisso o di Adone ucciso dal dente letale di un cinghiale feroce.
“Non sono cattivo, però dopo le tre finlandesi non sono più stato capace di amare. Ora non riesco a fidarmi di questa giovane che pure mi piace e mi dona tanto piacere da rendermi così trasognato dalla mattina alla sera”.
Il giorno di Pasqua mentre suonavano le campane della Chiesa di Moena posta davanti al cimitero dove già riposavano alcuni vecchi osservati quando ero bambino, Ifigenia telefonò e mi pregò di tornare subito a Bologna perché lei non poteva più stare senza di me.
Ci incontrammo verso le sei davanti alla libreria Feltrinelli. C’era ancora il sole nel cielo. In aprile il dio tramonta già nella grande pianura e non c’è colle né monte che ne invìdia la vista come fa il Sass da Ciamp a Moena tutto l’anno tranne il mese di giugno quando viene scavalcato nei dì più lunghi e luminosi.
Ifigenia si era fatta tagliare i capelli e sembrava ancora più giovane della sua età. Era luminosa quanto la neve che luccica e potenzia la forza del sole nel mese di aprile, più ridente dell’erba rinascente sui prati nel tempo della resurrezione di tutta la vita, più lieta dei fiori sbocciati sui rami degli alberi della pianura e dei colli. La vidi con piacere nonostante mi fosse costato parecchio disturbo tornare con un giorno di anticipo cambiando il mio programma. Come l’ebbi osservata e studiata bene, recuperai la ragione e pensai che una ragazza così appetibile poteva trovare tanti maschi quanti ne voleva, di ogni età e condizione; che io d’altra parte non ero un affare dal punto di vista socioeconomico ed ero assai meno giovane e alquanto bello di lei, sicché dovevo essere tutto contento del suo amore che non era una negotiatio ma un dono gratuito di lei e del signore Iddio, chiunque egli fosse. Un regalo del Sole: la santa faccia di luce che nutre e rallegra la vita.
Così la peste contratta dalla pessima educazione che colpevolizza la gioia amorosa era sconfitta.
Sicché celebrammo il trionfo nel modo più santo. Perfino le caste monache di clausura avrebbero benedetto la nostra lussuria se ci avessero visto.
Bologna 9 dicembre 2025 ore 10, 26 giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Questa storia si trova nel romanzo Tre amori a Debrecen che si trova in prestito nella biblioteca Ginzburg di Bologna. Non dovete comprarlo.
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