Devo comunque essere grato alla mamma e alle zie: da quando non abito più a Pesaro, dove venivo limitato in tutto da loro, queste donne mi hanno fornito i mezzi per vivere una vita da studente poi da studioso dedito allo studio appunto, all’amore, al sole e alla bicicletta. Un poco mi hanno beneficato per espiare i maltrattamenti inflitti al padre loro cui fisicamente assomiglio, e ancora di più per consentirmi di prendere la laurea con lode e fare un poco di carriera.
Non ne ho fatta tanta nell’istituzione, ma a loro è bastato e anche a me.
Come educatore comunque sono stato bravo a quanto dicono i tanti allievi che ho avuto e ho ancora. Con questo blog mi avvicino a due milioni. Spero di raggiungerli entro l’estate prossima.
Dunque per Natale andavo a trovarle. Mia madre diceva che Rina e Giulia- da lei soprannominate “ le sorelle Materassi” per il loro nepotismo-quando vedevano me era come se vedessero il sole.
Il Natale, come sapete, era il dies Natalis solis invicti, sicché il 24 dicembre apparivo alle zie e il 25 le illuminavo. La zia Giulia dopo la pensione e la morte del marito era tornata a Pesaro.
Conquistata la mia emancipazione dalla lunga servitù domestica pesarese, non solo ero grato ma volevo molto bene ai miei consanguinei. L’ambiente conflittuale nel quale avevo passato l’infanzia e l’adolescenza non mi ha consentito il mollescere, diventare mollis-malakov~, ossia il rammollirmi nel torpore, il veternus, dove tanti ragazzi si ottundono in situazioni dai problemi occultati e irrisolti. La durezza delle virago di casa mi ha preparato alle battaglie che avrei dovuto affrontare per diventare e rimanere me stesso. Il dolore mi ha reso buono, la deformità e lo squallore dove ero precipitato a ventanni mi ha spinto alla ricerca della bellezza. Ero stato messo in croce, come il figlio di Dio da suo padre, perché risuscitassi migliore di prima: più generoso, più bravo e più bello.
Come anche Giobbe: dio crocifigge quelli che ama di più.
L’unico che sorrideva in casa era il nonno Carlo Martelli che ho recuperato del tutto al mio affetto. In casa era criticato siccome aveva venduto il palazzo quattrocentesco della sua famiglia a Gherardo Buitoni per 200 mila lire che non investì nel 1944 e gli servirono per pagarsi il funerale una cinquantina di anni più tardi.
Questo palazzo conserva comunque il cognome del nonno nella piantina che si trova nella pinacoteca pierfrancescana di Borgo Sansepolcro nel cui cimitero ora riposano in pace i resti mortali dei nonni, della mamma delle zie, e dei Martelli più antichi.
Sono stato più volte a trovarli, pregare e a prendere auspici su questa tomba che per me è un’ara. Ogni volta scavalcando l’Appennino con la bicicletta. Anche questo devo ai miei cari. Credo che l’ultimo viaggio mi riporterà tra loro. Questo però non potrò farlo in bicicletta.
A Pesaro c’è un altro palazzo non più nostro ma con un cognome nostro: il palazzo Scattolari di via Petrucci dove nacque nel 1882 la nonna Margherita che invece seppe conservare i poderi ereditati. Da lei ho preso l’amore per la terra e il mio essere parco.
Nella tragedia Eracle di Euripide, Megara rivendica la magione di famiglia: “ figli, seguite il piede disgraziato della madre al palazzo paterno: ou| th'" oujsiva"-a[lloi kratou'si, to; d j o[nom j e[sq j hJmw'n e[ti ( 337-338), del quale altri hanno la proprietà, ma il nome è ancora nostro”.
Le zie, maestre fasciste e clericali non si sono mai curate di questo, mentre io, comunista, ne sono sempre stato contento. Ancora più che della parentela della mamma di mia nonna Margherita, una Carancini di Recanati che sposò Rodolfo Antici un nipote di Adelaide, la mamma di Leopardi.
Il “Palazzo bello”, le prime parole dello Zibaldone di Leopardi, è stato dei Carancini mi ha detto mia sorella Margherita che ha fatto una ricerca nei documenti anagrafici del comune di Recanati.
Il nonno Carlo, del tutto improvvido rispetto al denaro e alla roba, è morto povero, tuttavia era un uomo che sorrideva alla vita e ha svolto la funzione della madre del puer alla fine della IV Bucolica di Virgilio: “incipe, parve puer, risu conoscere matrem (60)
(…)
Incipe, parve puer: cui non risere parentes,
nec Deus hunc mensa, Dea nec degnata cubili est” (62-63), comincia bambino fin da piccolo, a conoscere la madre dal sorriso, comincia fin da piccolo: quelli cui non sorrisero i genitori, né un dio ha giudicato degno della sua mensa, né una dea del suo letto.
Sono molto grato a Carlino.
Sono molto riconoscente anche alle signorine e alle signore che mi hanno considerato degno del loro letto. Ho cominciato tardi, nel 1968, anno di mia salvazione, ma ho seguitato a lungo e se mi riuscirà continuerò. Ricordo in particolare le due Elene. Già il loro nome è sacro. Baciare le loro arterie femorali era un rito dei più sacri. Sentivo la benedizione di tutti gli dèi, i santi e gli eroi mentre lo facevo.
Il nonno mi ha lasciato molto più del denaro che non aveva: oltre il ricordo dei suoi sorrisi da vecchio povero, ho ereditato da lui l’amore mai esausto, seppure spesso contraccambiato, per le donne, per il sole e per la bicicletta.
Terminato questo capitolo voglio pregare il nonno che nei cieli sta e interceda perché mi tornino le forze che avevo prima della frattura femorale.
Bologna 3 dicembre 2025 ore 11, 45.
giovanni ghiselli
p. s.
Il giorno pù breve è vicino sicché la primavera non è lontana
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