Il 14 giugno andai a Pesaro dove volevo passare due o tre giorni leggendo libri buoni, abbronzandomi, nuotando, correndo. Avevo lasciato a Bologna la bicicletta da corsa perché dovevo tornarci dopo un intervallo breve come avevo promesso ai miei allievi dei due anni precedenti, ragazze e ragazzi studiosi che mi avevano chiesto di aiutarli in vista dell’esame di maturità. Non avevano avuto approfondimenti sugli autori della letteratura ellenistica, e lo studio solo manualistico li disgustava. Giustamente.
Ero contento di questa richiesta poiché credo che fino a quando sentiamo la voglia e abbiamo la capacità di aiutare il prossimo gratis e con affetto, non possiamo sentirci infelici.
Alcune lezioni sull’ellenismo del resto potevo quasi improvvisarle.
Conoscevo e ricordavo tanto i testi quanto la critica.
Avevo preso un impegno anche con Ifigenia. La collega ragazza mi aveva pregato di parlarle di Proust che voleva conoscere. Io non lo avevo ancora studiato abbastanza, sicché mi ero portato dietro i primi due volumi della Ricerca. Molto opportunamente anche perché sulla cittadina e sul mare pioveva da un povero cielo privato del sole e ottenebrato da nuvole nere, come se l’estate fosse finita.
Il 21 del mese per giunta sarebbe iniziato il declino, il ritirarsi della luce con l’avanzata del buio per sei lunghi mesi. Il semianno della decadenza del sole. Un declino ogni dì più doloroso per me.
La terra chinandosi per sei mesi dalla parte opposta rispetto al primo fra tutti gli dèi avrebbe ombreggiato se stessa nel nostro emisfero. Questo mi ha sempre causato tristezza.
La ragazza mi aveva regalato il secondo volume, All’ombra delle fanciulle in fiore, con queste parole di dedica scritte sulla prima pagina dopo la copertina:
“Io sono Alberatine e tu Marcel perché lei è una ragazza e lui un uomo, ma il nostro amore non è come il loro angosciato, bensì più libero, meno inquieto, davvero sentito, sincero e profondo; perciò alla fine io non morirò e nemmeno tu, siccome noi diversi e strani non ci lasceremo uccidere.
La tua Ifigenia in fiore”.
Ora trovo che queste parole sono scritte in vento et rapida aqua, ma allora mi commossi, perché tra noi due il fanciullo ero io, e mi impegnai a leggere e commentare tutti interi i sette sette volumi dell’opera monumentale. Comunque non ci scapitai, anzi ne trassi vantaggio per le mie conoscenze, per il mio parlare e il mio scrivere. Il bene che si fa per altri ridonda sempre su chi lo ha fatto. Pure il male d’altronde torna indietro sull’autore.
Al primo approccio Proust non mi garbò del tutto: trovavo troppo minute le sue descrizioni, carenti di un’occhiata potente e capace di una visione d’insieme, tipo quelle panoramiche e pure sintetiche della tragedia greca: tw`/ pavqei mavqo~ dell’Agamennone di Eschilo, per esempio. Difficilmente nelle descrizioni della Ricerca le cose e le idee mi apparivano intere: sembrava che un cervello troppo analitico le spezzettasse e sbriciolasse o le coprisse con un belletto pure troppo artefatto da una sensibilità abnorme.
Non mi piaceva l’indugiare talora eccessivo e ozioso dell’autore su oggetti, persone, paesaggi variamente deformati, mi turbavano le sistematiche intermittenze affettive non prive di perversione. Forse ci trovavo la parte peggiore di me, quella che la forza del realismo greco mi aiutava a contrastare.
Poi invece, procedendo nella lettura di questo monumento letterario e assuefacendomi a tanta meticolosità, ho incontrato pagine che mi hanno aiutato potenziando e pure raffinando la mia sensibilità nervosa e ancora piuttosto grezza all’epoca.
In seguito ho apprezzato l’intelligenza acuta dello scrittore capace di scandagliare l’anima umana, la sua conoscenza delle arti figurative che altri autori non mi avevano indicato con altrettanta competenza, la moralità a tratti incisiva e risolutiva delle tante angosce di una mente inquieta.
Faccio un esempio poiché senza esempi le parole non diventano immagini, non producono idèe: “Si diventa morali appena si è infelici (…) I castighi si crede di evitarli perché stiamo attenti alle carrozze quando si attraversa la via, perché evitiamo i pericoli. Ma ve ne sono di interni. L’incidente viene dalla parte cui non si pensava, dal di dentro, dal cuore”(All’ombra delle fanciulle in fiore, p. 219).
Eschilo afferma la medesima idèa con le tre parole citate sopra: “tw`/ pavqei mavqo~” (Agamennone, 177), attraverso la sofferenza la comprensione. Proust ha voluto evidenziare i pericoli interni mentre Eschilo dà maggior rilievo agli esterni attraverso il contrappasso. Talora le sofferenze inflitte ci vengono fatte pagare perfino dalla persona che dice di amarci, mentendo:
“Dicit ; sed mulier cupido quod dicit amanti/in vento et rapida scribere oportet aqua " (Catullo, 70, 3-4 )
Bologna 12 dicembre 2025 ore 9, 20 giovanni ghiselli
p. s.
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