Aristotele nella Politica
sostiene che le persone al comando devono avere la virtù etica in forma
perfetta: “to;n me;n a[rconta televan
e[cein dei` th;n hjqikh;n ajrethvn" (1260a).
E’ vero, poiché il
comportamento di chi ha il potere diventa esemplare per i cittadini.
Un governante immorale autorizza l’immoralità dei governati.
Sua Eccellenza la Signora Anna Maria Cancellieri con il suo favoritismo ha ribadito che la nostra è una
Repubblica fondata sulle raccomandazioni e che il sistema clientelare non è per
niente cambiato dai tempi della res
publica romana e dalle successive Roma dei Cesari e Roma dei Papi.
Insisto con la mia richiesta di dimissioni di un ministro
del genere che sarebbe stato indotto a dire parole imprudenti, e impudenti, dalla
spinta emotiva dell’ amicizia, oltre tutto per persone condannate siccome “aduse alla corruzione e
all’intrallazzo”.
Viene in mente la Medea di Euripide che poco prima di
ammazzare i propri bambini dice: "Kai; manqavnw me;n oi\\\a dra'n mevllw kakav,
qumo;" de; kreivsswn tw'n ejmw'n
bouleumavtwn, o{sper megivstwn ai[tio" kakw'n brotoi'"" (vv.
1078-1080), capisco quale abominio sto per compiere, ma più forte dei miei
ragionamenti è la passione, che è causa dei mali più grandi per i
mortali",
Del resto io non credo per niente all’onda emotiva, e penso
piuttosto che Sua Eccellenza abbia agito in base al calcolo del proprio
interesse.
Auspico che il parlamento
vanifichi tali conati di addizione. Se il potere di quella donna aumenterà in
seguito a questo calcio nello stomaco dato alla Giustizia, la gente crederà che
l’iniquità conviene.
Il capo malato infatti rende malata la terra sulla quale
comanda.
Infatti esiste una connessione organica tra chi detiene il
potere, i sudditi e il territorio nel quale vivono.
Faccio qualche esempio tratto dai miei autori.
Nel prologo dell'Edipo
re di Sofocle viene descritta la sterilità della terra tebana sconciata e
resa malata dai delitti di Edipo, vero mivasma
della sua povli" (v. 353).
Nell' Antigone Tiresia accusa Creonte
di essere la sorgente inquinata del male della città: "kai; tau'ta th'" sh'" ejk freno;"
nosei' poli"" (v. 1015) e la città è ammalata di questo per la
tua disposizione mentale.
Creonte infatti ha ereditato da Edipo non solo il ruolo
regale ma anche la funzione di mivasma,
homo piacularis che contamina la città.
Sappiamo anche da Omero[1]
e da Esiodo[2],
che i costumi, le virtù, i vizi, e perfino le malattie del capo si riverberano
sulla sua terra per una sorta di responsabilità collettiva.
Sofocle nel Filottete rappresenta
Neottolemo adirato con Odisseo che si è impadronito delle armi di Achille,
spettanti a lui, figlio di Deidamia e del Pelide. Il ragazzo lamenta di essere
stato espropriato dei suoi beni “pro;~ tou' kakivstou kajk kakw'n jOdusseuv~” (384), dal peggiore di
tutti, nato da malvagi, Odisseo. Eppure il giovane biasima ancora più tou;~ ejn tevlei (v. 385), quelli che sono
al potere, civile e militare: “povli~ ga;r
e[sti pa'sa tw'n hJgoumevnwn stratov~ te suvmpa~, oiJ d j ajkosmou'nte~ brotw'n
didaskavlwn lovgoisi givgnontai kakoiv” (386-388), la città infatti è
tutta di coloro che la governano e l’esercito pure, e quelli tra i mortali che
si comportano male, diventano malvagi per le parole di chi li ammaestra.
Una concezione pedagogica del potere.
Isocrate nell' Encomio
di Elena[3] chiama i despoti che cercano di dominare i
concittadini con la forza, non capi ma pesti delle città (oujk a[rconta" ajlla; noshvmata tw'n povlewn, 34).
Analogamente Cicerone nella prima Catilinaria intima al suo
nemico mortale di uscire da Roma portando via la contaminazione da lui stesso
costituita (purga urbem, 1, 10). Questo purga
urbem va ripetuto ogni volta che un personaggio insediato nei posti di
comando si comporta scelleratamente.
Anche Polibio[4]
fa dipendere il carattere della città da quello dei suoi capi: ai tempi di Aristide e Pericle, Atene era
generosa e meritava lode; sotto il governo di Cleone[5]
e Carete[6]
era crudele e degna di biasimo: ne
deriva che i costumi della povli"
cambiano con il variare di quelli dei governanti ("w{ste kai; tw'n povlewn e[qh tai'" tw'n proestwvtwn
diaforai'" summetapivptein", Storie, IX, 23, 8).
Ricordo pure l'Oedipus senecano dove il protagonista
si accusa dicendo "fecimus coelum nocens” (v.36), abbiamo reso colpevole
il cielo.
Questo topos non è limitato ai Greci e ai Latini: nel Macbeth[7],
un nobile scozzese, Lennox riferisce quanto si dice sia avvenuto nella notte
dell’assassinio del re: "some say
the earth was feverous, and did shake" (II, 3), la terra era
febbricitante e ha tremato.
Quindi un altro
nobile, Ross, fuori dal castello del delitto fa notare a un vecchio che il
cielo, quasi sconvolto dal misfatto umano (as troubled with man's act),
minaccia la sua scena sanguinosa, e il giorno è buio come la notte. Infatti,
risponde l'old man: "Tis
unnatural, Even like the deed that ' s done" (II, 4), è innaturale,
come l'azione che è stata perpetrata.
In questi ultimi due esempi la contaminazione “oltrepassa la
luna”[8]
e fa impallidire il sole, come nell’Oedipus
di Seneca dove un sole incerto (Titan
dubius, v. 1) nega il suo splendore e diffonde sull’empia Tebe un maestum iubar (v. 2), uno splendore
cupo, e un lumen triste, una luce
afflitta, con una flamma luctifica
(v. 3) , una fiamma luttuosa. Il re ha
impestato la sua città.
La luce che vivifica e rallegra si è capovolta a fiaccola
mortuaria.
Con l'uscita di Edipo da Tebe la vita languente si
raddrizza, i colli si rialzano: "relevate
colla!" (v.
1054), grida lo stesso cieco in procinto di allontanarsi. Il raddrizzamento
della vita è il compito del rex, un
ufficio per il quale non è adatto chi
si comporta non rettamente.
Nel De clementia[10]
Seneca ricorda a Nerone che è il principe a stabilire i buoni costumi per il
suo Sato: “constituit bonos mores civitati princeps” (III, 20, 3).
La premessa è che la immensa
multitudo dei cittadini illius
spiritu regitur, illius ratione flectitur,
è retta dal suo spirito, viene piegata dalla ragione di lui, mentre si
spezzerebbe per i propri sforzi se non venisse sostenuta dalla saggezza del
reggitore (III, 1, 5). Nella cooperazione tra il principe e lo Stato, questo
costituisce la forza del corpo del quale il princeps
è il caput (III, 2, 3).
Dante ripropone
questa idea che il benessere di un popolo dipenda dalla giustizia e pietà
religiosa di chi lo guida, e fa derivare
la malvagità del mondo dal malgoverno: "Ben puoi veder che la mala condotta/è la
cagion che il mondo ha fatto reo/e non natura che in voi sia corrotta"[11].
Erasmo da Rotterdam utilizza questo topos nell'Elogio
della follia[12]:
"aliorum vitia neque perinde
sentiri neque tam late manare; principem
eo loco esse, ut si quid vel leviter ab honesto deflexerit, gravis protĭnus ad
quam plurimos homines vitae pestis serpat" (55), i vizi degli altri
né si sentono allo stesso modo né si diffondono così ampiamente; il principe si
trova in posizione tale che se in qualche maniera, perfino di poco, egli si
scosta dalla rettitudine, subito una grave peste della vita si espande su un
numero enorme di persone.
“Non vi è, nel destino tutto dell’uomo, sventura più dura di
quando i potenti della terra non sono anche i primi uomini. Tutto diventa falso
obliquo mostruoso, quando ciò avviene”[13].
Questo topos vale anche per il costume
femminile: il
cattivo esempio che le donne importanti danno a tutte le altre viene biasimato
da queste parole di Fedra nell'Ippolito
di Euripide: "wJ~ o[loito pagkavkw~ h{ti~ pro;~ a[ndra~ h[rxat j aijscuvnein levch
prwvth quraivou~ (vv. 407-409),
fosse morta malamente colei che per prima disonorò i letti di casa con uomini
esterni. Infatti, continua la moglie di
Teseo, questo male ha cominciato a propagarsi dalle case nobili: "ejk de; gennaivwn
dovmwn" (v. 409). Quando le
turpitudini (aijscrav) sono reputate belle dalle persone di alta
condizione, certo sembreranno belle anche al volgo (vv. 411-412).
Quest'ultima storia dei letti disonorati
dalle donne adultere non riguarda la nostra ministra, ne sono sicuro, tuttavia
ritengo che il suo accertato favoritismo, se non sarà punito, contribuirà ad
aggravare l'inquinamento morale della vita di tutti noi che viviamo in Italia.
giovanni ghiselli
g.ghiselli@tin.it
[1]
Un re buono, afferma lo stesso Ulisse nel XIX canto dell'Odissea.
parlando con Penelope, porta il popolo alla prosperità: "Raggiunge l'ampio
cielo la tua fama,/ come quella di un re irreprensibile che pio,/ regnando su
molti uomini forti,/tenga alta la giustizia; allora la nera terra produce/
grano e orzo, gli alberi si appesantiscono di frutti,/figliano continuamente le
greggi e il mare offre i pesci,/per il suo buon governo, insomma prosperano le
genti sotto di lui" (vv. 108-114).
Il ribaltamento di questa situazione è il re negativo,
cattivo e malato, che contamina la sua terra, rendendola sterile e sconciandola
quale mivasma. Come si scopre essere
il protagonista dell'Edipo re che perciò si allontana da Tebe.
[2] L'altro lato
della stessa concezione secondo la quale il bene e il male di un solo uomo
ridondano in favore e in danno di una città intero lo troviamo nel secondo
archetipo della poesia greca, cioé in Esiodo (Opere e giorni, vv.240-244: "Pollavki kai; xuvmpasa povli" kakou'
ajndro;" ajphuvra oJv" ti" ajlitraivnh/ kai; ajtavsqala
mhcanavatai. Toi'sin d j oujranovqen meg j ejpevgage ph'ma Kronivwn limo;n oJmou' kai;
loimovn ajpofqinuvqousi de;
laoiv. Oujde; gunai'ke" tivktousin, minuvqousi de; oi\koi", spesso
anche un'intera città soffre per un uomo malvagio,/uno che si rende colpevole e
architetta scelleratezze./Su di loro dal cielo il Cronide fa piombare grandi
malanni,/fame e peste insieme,e le genti vanno in rovina,/le donne non fanno
figli e le case diminuiscono".
Infatti quando sbaglia solo Prometeo
tutti gli uomini pagano.
[3] Del 390 a. C.
[4] 200 ca-118 ca
a. C.
[5] Il famigerato demagogo bersagliato da Aristofane ed
esecrato, probabilmente calunniato, da Tucidide. Fu il beniamino del popolo
dopo la morte di Pericle, fino al 422 quando morì combattendo ad Anfipoli.
[6] Comandante della flotta ateniese ai tempi di
Demostene
[7] 1605-1606.
[8] Cfr. Shakespeare, Coriolano,
V, 1.
[9] Orazio, Epistulae I, 1, 59-60.
[10] In tre libri, scritti nel 55 d. C. per Nerone diciottenne, con l’intento, forse, di
distoglierlo dall’ammazzare Britannico.
[12] Del 1510.
[13] F. Nietzsche, Così
parlò Zarathustra, p. 298.
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