Fides è un valore di base della civiltà latina, un
valore politico, giuridico e pure etico. Cicerone nel De officiis [1] ne dà una definizione "Fundamentum
autem est iustitiae fides, id est dictorum conventorumque constantia et veritas"
(I, 23), orbene la fides è il fondamento della giustizia, cioè la
fermezza e la veridicità delle parole e dei patti convenuti. Fides è il rispetto del foedus.
"Foedus
e fides sono legati etimologicamente: foedus
è "l'accordo", il trattato stipulato secondo le sacre regole
della fides "[2].
La fides è per i Romani un valore forte e vincente:
Tito Livio[3] racconta che i Falisci, nel 394, in
guerra con i Romani guidati da Furio
Camillo si arresero al tribunus militum consulari potestate dopo che
questi si fu rifiutato di conquistare la città etrusca grazie al tradimento di
un maestro di scuola che voleva consegnargli i figli dei capi di Falerii a lui
affidati. "Fides Romana, iustitia
imperatoris in foro et curia celebrantur" (V, 27, 1), nel foro e
nel senato (di Falerii) vengono esaltati la lealtà romana e la giustizia del
comandante. Quindi vengono mandati ambasciatori a Camillo e da lui a Roma, in
senato, per offrire la resa. Questi dissero che pensavano di vivere meglio
sotto il governo romano che con le loro leggi, e che con l'esito di quella
guerra erano stati offerti due salutari eventi al genere umano: "vos fidem in bello quam praesentem victoriam
maluistis; nos fide provocati victoriam ultro detulimus" (V, 28,
13), voi avete preferito la lealtà in guerra a una vittoria immediata; noi,
sollecitati da questa lealtà, vi abbiamo offerto spontaneamente la vittoria.
Nel buon tempo antico dunque l'osservanza della fides pagava.
Non è sentito in maniera altrettanto forte e cavalleresca questo
valore della lealtà da parte dei Greci. Quale testimonianza di questa
affermazione sulla scarsa fides dei Greci (Danaumque…
insidiae[4])
riferisco un motto di Lisandro il comandante spartano che concluse la guerra
del Peloponneso sconfiggendo gli Ateniesi: egli se la rideva di quanti
stimavano che i discendenti di Eracle dovessero sdegnare di vincere con il
tradimento e raccomandava sempre: "o{pou
ga;r hJ leonth' mh; ejfiknei'tai prosraptevon ejkei' th;n ajlwpekhvn"
dove di fatto non giunge la pelle del leone, bisogna cucirle sopra quella della
volpe" (Plutarco, Vita di Lisandro, 7, 6).
Secondo Teognide[5] il dilagare della perfidia tra i Greci è
associato al decadere dell’aristocrazia dei proprietari terrieri.
Il poeta elegiaco denuncia la malafede come caratteristica
dei kakoiv, gli ignobili, i vili, i
quali: "ajllhvlou" d j ajpatw'sin
ejp j ajllhvloisi gelw'nte"-ou[te kakw'n gnwvma" eijdovte" ou[t
j ajgaqw'n" (vv.59-60), Si
ingannano a vicenda, deridendosi a vicenda, senza conoscere i segni distintivi
del bene e del male.
Questi kakoiv non conoscono un altro valore forte: quello
della gratitudine: "E' un favore del tutto vano fare del bene ai
vili:/è come seminare la superficie del mare canuto./Infatti seminando il mare,
non mieti folta messe,/né facendo del bene ai malvagi puoi riceverne bene in
cambio:/ché i malvagi hanno mente insaziabile: se tu sbagli,/l'affetto per
tutti i favori di prima si versa per terra. I buoni invece gustano al massimo
quanto ricevono("oiJ d j ajgaqoi; to; mevgiston ejpaurivskousi
paqovnte"", v. 111),/e serbano memoria dei beni e gratitudine
in seguito" (vv. 105-112) .
Nietzsche nel 1864 (a
vent'anni) scrisse una Dissertazione su Teognide di Megara simpatizzando con le teorie reazionarie del
poeta. Lo colpì fortemente il biasimo espresso per l'ingratitudine dell'animo
plebeo: "Teognide ritiene che non c'è niente di più vano e di più inutile
che fare bene ad un plebeo, dal momento che di solito non ringrazia mai"[6].
Poi, nel 1886: “Noi veritieri”- è questo l’appellativo che
si davano i nobili dell’antica Grecia”[7].
Don Giovanni per rassicurare Zerlina che teme di essere
ingannata (“Io so che raro / colle donne voi altri cavalieri / siete onesti e
sinceri”), le risponde: “E’ un’impostura / della gente plebea. La nobiltà/ha
dipinta negli occhi l’onestà”[8].
Al tempo della repubblica romana la slealtà veniva
attribuita agli schiavi. Nel mondo carnevalesco e rovesciato degli schiavi
plautini[9]
al posto del valore forte della fides troviamo quello della perfidia
, la santa protettrice dei servi:" Perfidiae
laudes gratiasque habemus merito magnas" (Asinaria, v. 545),
abbiamo ragione di elogiare e ringraziare assai la Malafede, dice lo schiavo
Libano allo schiavo Leonida.
La perfidia plus quam punica[10]
di Annibale e quella italica di Machiavelli avrebbero comunque avuto dei
maestri negli Elleni.
La slealtà di
Annibale sarebbe derivata da Sileno[11]
uno dei suoi maestri greci: “Il più odioso dei vitia rinfacciati ad
Annibale, la sua perfidia, la
slealtà maligna e senza scrupoli di cui il Cartaginese si era infinite volte
macchiato, era figlia, in effetti, dell’educazione greca e non dell’indole
punica[12]”.
I Greci conservano tale pessima reputazione negli esametri
di Giovenale . Il corrucciato poeta[13] nella terza satira mette in rilievo la
tendenza dei Greci a fare scena: “Natio comoeda est. Rides: maiore
cachinno/concutitur; flet , si lacrimas conspexit amici,/nec dolet… si dixeris
‘aestuo’, sudat (vv.100-102 e v. 103), è una razza di commedianti. Tu ridi:
quello è scosso da una risata più grossa; piange, se ha visto le lacrime
dell’amico…se avrai detto ‘ho caldo’, suda.
Qualche tempo prima Tacito
segnala la perversione della fides
tra i Germani i quali, dopo avere perso tutto ai dadi (alea), con un ultimo lancio mettono in gioco la libertà personale,
quindi, se perdono, mantengono la parola data e subiscono la schiavitù. Ebbene
in questo caso ciò che loro chiamano fides
è una forma di ostinazione in un vizio riprovevole: “ea est in re prava
pervicacia”(Germania, 24).
Veniamo a Machiavelli
discepolo dei Greci, in particolare di Plutarco, sia pure non letto
nell’originale. Del resto anche Shakespeare deve non poco a Plutarco che pure
leggeva tradotto.
Nel XVIII capitolo di Il
Principe, il Fiorentino ricorda "come Achille e molti altri di quelli
principi antichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua
disciplina li costudissi". E ne deduce:"Il che non vuol dire altro,
avere per precettore uno mezzo bestia et uno mezzo uomo, se non che bisogna a
uno principe sapere usare l'una e l'altra natura; e l'una sanza l'altra non è
durabile. Sendo dunque uno principe necessitato sapere usare la bestia, debbe
di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si difende da'
lacci, la golpe non si difende da' lupi. Bisogna adunque essere golpe a
conoscere e' lacci, e lione a sbigottire e' lupi. Coloro che stanno
semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può, per tanto, uno
signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanzia li torni
contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere".
“Di Plutarco nel
Medioevo si preferivano i Moralia e
fu solo l’arrivo dei dotti greci in Italia, dopo la caduta di Costantinopoli
nel 1453, a rilanciare la lettura delle Vite parallele, che divennero da allora in poi
il suo principale testo di riferimento. Si pensi soltanto a Machiavelli, che ne
acquistò una copia in traduzione latina a Bologna nel 1502 e ne trasse
ispirazione per la sua intera opera (per inciso le famosissime immagini della
“golpe” e del “lione” derivano, particolare, dalla vita di Lisandro di
Plutarco), oppure a Montaigne e a Shakespeare, che se ne servono
abbondantemente”[14].
Machiavelli poi ha avuto tanti altri discepoli
Riccardo III di
Shakespeare è “un principe che ha letto il principe”[15].
Sentiamo le sue parole sulla necessaria ipocrisia dell’uomo di potere: “But
then I sigh, and, with a piece of Scripture, / Tell them that God bids us do
good for evil: / And thus i clothe my naked villainy / With odd old ends stol’n
forth of Holy Writ, / And seem a saint, when most I play the devil” (Richard III, I, 3), ma allora io
sospiro,e, con una citazione della Scrittura, dico loro che Dio ci ordina di
rendere bene per male: e così io rivesto la mia nuda scelleratezza con
occasionali vecchi ritagli sottratti alla Sacra Scrittura, e sembro un santo
quanto più faccio il diavolo. Queste parole costituiscono il codice dell’uomo
di potere. Sentiamo ora un pensiero (141) tratto dai Ricordi
di Guicciardini, la corruttela
italiana codificata e innalzata a regola di vita[16]:
“spesso tra il palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso
che, non vi penetrando l'occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che
fa chi governa o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in
India".
Ora io credo che sapere
ingannare sia “odiosa sapienza”[17].
Sicché non voterò i
politici che abbiano dato prova di perfidia
plus quam punica, cioè italica. Il comportamento di alcuni di loro
nell’affare Cancellieri esemplarmente negativo, è stato emblematico,
negativamente emblematico.
[4] Cfr. Eneide,
2, vv. 309-310: “ Tum vero manifesta
fides Danaumque patescunt/insidiae”, allora davvero è evidente la lealtà e
si scoprono gli inganni dei Danai. E’ il
momento della scoperta dell’inganno del cavallo di Troia. Invano Laocoonte
aveva cercato di mettere in guardia i Troiani gridando: “equo ne credite, Teucri./Quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentis”
(Eneide, 2, vv. 49-50), non dovete
credere alla storia del cavallo, Teucri. Qualunque cosa sia questa, temo i
Danai anche quando portano doni.
[5] Sotto il nome di Teognide, vissuto nel VI , ci è
giunta la Silloge teognidea, un corpus di 1389 versi in distici elegiaci non tutti
dell'autore.
[6] Dissertazione su
Teognide di Megara, p. 167.
[7] Di là dal bene
e dal male (Che cosa è aristocratico), p. 186.
[8] Don Giovanni,
Mozart-Da Ponte, I, 8.
[10] Tito Livio, Storie, XXI, 4.
[11]
“Sileno di Kalé Akté. Sileno, che feci venire io stesso dalla Sicilia perché scrivesse le mie
imprese, era sottile e astuto, insinuante e indiretto… Da buon Siceliota, egli
era più pratico dello spartano, e soprattutto era di lui assai più portato
all’uso sistematico della metis, quel
misto di saggezza, di spregiudicatezza e di astuzia che dev’essere patrimonio
di statisti e uomini di guerra” (G. Brizzi, Annibale
Come un’autobiografia, p. 32).
[12] G. Brizzi, Scipione
e Annibale, p. 21. Laterza, Roma-Bari 2007.
[13] Margherite Yourcenar attribuisce questo pensiero
all’imperatore Adriano: “ne avevo abbastanza di quel poeta ampolloso e
corrucciato, non mi piaceva il suo grossolano disprezzo per l’Oriente e la
Grecia, le sue affettate simpatie per la cosiddetta austerità dei nostroi
padri, e quel miscuglio di descrizioni particolareggiate del vizio e
declamazioni inneggianti alla virtù che stuzzica i sensi del lettore e ne
rassicura l’ipocrisia” (Memorie di
Adriano, p. 217)
[14] Remo Bodei, Immaginare
altre vite, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 100.
[15] Jan Kott, Shakespeare
nostro contemporaneo, p. 42.
[16]F. De Sanctis, Storia
della letteratura italiana , 2, p.
107
[17]
Pindaro nell’ Olimpica IX afferma che
diffamare gli dei è odiosa sapienza (tov ge
loidorh'sai qeouv"-ejcqra;
sofiva, vv. 37-38), e che le montagne della sapienza, essendo scoscese (sofivai menv aijpeinaiv, 107-108),
comprendono la forza della natura e richiedono grandi energie per scalarle.
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