Thomas Couture, Les romains de la decadence |
Il fatto che Giulia Ligresti sarebbe stata scarcerata anche
senza la segnalazione della Cancellieri, non toglie niente alla gravità del
fatto, anzi lo aggrava.
Significa che la Ministra ha fatto la raccomandazione
superflua per raccomandare se stessa, ossia per dare ai Ligresti questo
messaggio: “ io, con tutto che ho fatto una bella scalata sociale, sono sempre
una vostra cliente”.
Basta leggere alcune parole dette dalla Guardasigilli a
Gabriella Fragni, la compagna di Salvatore Ligresti, in una telefonata
intercettata dalla procura di Torino il 17 luglio 2013: “Senti, non è giusto,
non è giusto… Comunque guarda, qualunque cosa io possa fare, conta su di me…”.
Sono parole tipiche e rivelatrici di un rapporto
clientelare.
Vediamone le origini risalendo all’antica Roma.
“Il rapporto clientelare si configura come un’organizzazione
mafiosa che garantisce l’omertà, e il successo dei disonesti” ha scritto il latinista Luciano Perelli in un libro
intitolato La corruzione politica
nell’antica Roma.
Credo che raccomandazioni e mafia siano presenti nella
nostra cultura italica fin da tempi molto remoti e che attribuire questa
attitudine in esclusiva ai nostri meridionali sia una forma di razzismo. La
mafia nasce come scambio di favori e di servizi. Ora la mafia sembra lambire
ogni forma di relazione nella nostra penisola,
ma non è certo una novità.
Il rapporto utilitaristico, di aiuto reciproco, tra patroni
e clienti era già istituzionalizzato nelle leggi delle XII tavole redatte nel
451 a. C.: “Patronus si clienti fraudem fecerit, sacer esto”, il patrono, se ha
ordito una frode al cliente, sia maledetto, prescrivevano. La memoria, e la
pratica di questa antica norma si conserva in età classica: Virgilio, cui T. S.
Eliot attribuisce la posizione
centrale "del classico supremo
della civiltà europea”, mette tra i grandi criminali sprofondati nell’ombra del Tartaro “quelli che hanno odiato i
fratelli, mentre erano in vita, e maltrattato i genitori e hanno tramato una frode a un cliente”[1].
Si tratta di un elemento caratteristico della civiltà
romana: nelle Rane dell’ateniese
Aristofane infatti sono menzionati i
grandi peccatori immersi in fiumi di sterco, e tra questi non manca chi ha
maltrattato i genitori, ma non c’è il frodatore del cliente; al suo posto si
trova chi ha offeso un ospite (v. 147).
Un’ottima regola ancora presente e viva,
questa sì, quasi esclusivamente tra i nostri meridionali.
Ora però torniamo al rapporto patrono/cliente che sopravvive
in tutta l’Italia dove senza una raccomandazione è quasi impossibile trovare un
lavoro che richieda delle competenze. Chi le possiede è sistematicamente
penalizzato rispetto a chi conoscenti che lo raccomandino. Fin dai tempi della cosiddetta Res publica il patrono proteggeva e
aiutava il cliente; questo doveva contraccambiarlo omaggiandolo, dicendo bene
di lui, votandolo, incensandolo. Chi sgarrava, se la vedeva brutta. La I Bucolica di Virgilio illustra con
chiarezza siffatta relazione. In questo carme vengono rappresentati due
pastori: Melibeo e Titiro. Il primo ha perduto i suoi campi confiscati dai
triumviri Ottaviano, Antonio e Lepido che li hanno distribuiti ai loro
veterani; invece Titiro, alter ego
del poeta, è riuscito a conservarli, e spiega perché: è andato a Roma dove ha
incontrato un giovane, anzi un dio[2] che gli ha detto : “pascola, come prima, i
tuoi buoi, coltiva pure i tuoi campi” (v. 45). Il beneficato, tornato alla sua
campagna, compie riti di ringraziamento, con tanto di incenso, in onore del
divino benefattore, una volta al mese. Dietro la veste pastorale c’è Virgilio
che omaggia Ottaviano grazie al quale
aveva ottenuto la restituzione del podere nel mantovano. Il poeta aveva
acquisito questo privilegio grazie all’intercessione, cioè alla
raccomandazione, di Asinio Pollione, il console del 40, cui vengono dedicate la
IV e l’VIII Bucolica. All’altro amico
e patrono, Cornelio Gallo, Virgilio dedicò la X Bucolica e ne scrisse un elogio nella parte finale della IV Georgica, al tempo in cui questo suo
protettore era diventato il potente
governatore dell’Egitto.
Ma quando Gallo cadde
in disgrazia per la sua volontà di indipendenza dall’autocrate, il poeta
sostituì la chiusa del poema agricolo con la favola triste di Orfeo, condannato
a perdere Euridice dalla subita dementia,
(v. 488) l’improvvisa follia di rompere i patti stabiliti con il crudele
tiranno (immitis rupta tyranni/foedera,
vv. 492-493). La stessa pazzia portò Ovidio a polemizzare giocosamente, da
libertino, con le direttive moralizzatrici di Augusto, e la pagò cara, morendo
di crepacuore in esilio nella remota barbarie di Tomi, sul Mar Nero.
Ovidio non venne
ammazzato ma chiuse la vita nella desolazione, Cornelio Gallo si suicidò, e
molte altre furono le vittime tra quanti, intellettuali e no, si sottrassero al
rapporto di subordinazione con il patrono o con il tiranno. Tito Labieno,
soprannominato Rabienus per la sua rabbia, si uccise per non
sopravvivere alla sua opera, che Augusto
fece bruciare, siccome lo storiografo esaltava la libertà,
Ora diamo un’occhiata al secondo secolo dopo Cristo,
all’epoca di Traiano (98-117) sotto il quale l’impero romano raggiunse la
massima espansione. Plinio il Giovane arrivò a coprire altissime cariche, e ci
ha lasciato un epistolario che comprende un carteggio con l’imperatore il quale
ne aveva favorito la carriera e viene definito, non per niente, optimus princeps. Ebbene molte di queste
lettere sono raccomandazioni inviate al principe con l’intento di favorire
amici e parenti. Di questo autore abbiamo anche il Panegirico a Traiano, pieno di elogi rivolti al capo del grande
impero. Tra i tanti motivi di encomio c’è il riconoscimento e l’enfatizzazione
del fatto che questo imperatore giurò obbedienza alle norme giuridiche dicendo
che il principe non deve stare sopra le leggi, ma le leggi sopra il principe: Leges super principem (65). Ci
aspettiamo che i vari parlamentari e
opinionisti del nostro tempo non siano
più servili dell’antico panegirista e ricordino a ogni ministro il suo dovere
di sottostare alle leggi, se non altro per non passare alla storia come
Domiziano (81-96), ricordato da Plinio quale pessimus princeps.
giovanni ghiselli
g.ghiselli@tin.it Il blog http://giovannighiselli.blogspot.it/ è arrivato a 114134 lettori in 278 giorni
Mi sto convincendo sempre di più che gli esseri umani non siano capaci di imparare dalla storia un po' di morale.
RispondiEliminaIo invece imparo molto da quello che scrivi.
alessandro