martedì 19 novembre 2013

Cancellieri e la Giustizia



Dike (dea drella giustizia) colpisce Adikia con una mazza
anfora del VI sec. a.C.
Kunsthistorisches Museum, Vienna

 
Ancora sul caso Cancellieri: che cosa è la Giustizia secondo Eschilo, Euripide, Platone, Gogol. 
E anche secondo me.

Mi sono schierato e impegnato fin dal primo momento
sull’affare Cancellieri non per odio verso il guardasigilli, ma perché si tratta di un caso emblematico: se la Ministra non darà le dimissioni, o non sarà costretta a farlo, la pratica della raccomandazione con il clientelismo, contiguo alla mafia, verrà definitivamente istituzionalizzata e santificata.
Io, viceversa, scrivo in favore della legge uguale per tutti, delle pari opportunità, dell’annientamento o almeno della riduzione delle sperequazioni, insomma della Giustizia che contrasta le disuguaglianze stridenti. Sentiamo che cosa è la Giustizia secondo alcuni dei miei autori

L’uguaglianza è legge cosmica, dice Giocasta a Eteocle, il quale, nelle Supplici di Euripide, aspira al potere assoluto celebrandolo come bene supremo, per il quale si può violare la giustizia. Queste sono le parole del figlio dell’incesto: "ei[per ga;r ajdikei'n crhv, turannivdo" pevri kavlliston ajdikei'n, ta[lla d  jeujsebei'n crewvn", vv. 524-525, se davvero è necessario commettere ingiustizia, è bellissimo farlo per il potere assoluto, altrimenti bisogna essere pio.
Cicerone considera questo Eteocle, e addirittura Euripide, meritevoli di pena di morte, siccome il personaggio del dramma fece eccezione proprio per quell'unico caso che era il più scellerato di tutti.
 I versi delle Fenicie  citati sopra li aveva sempre in bocca l'ambizioso Cesare: "Nam si violandum est ius, regnandi gratia / violandum est; aliis rebus pietatem colas", (De Officiis , III, 82).   
Giocasta replica propugnando l'uguaglianza: "kei'no kavllion, tevknon, ijsovthta tima'n" (Fenicie, vv. 535-536), quello è più bello, figlio, onorare l'uguaglianza. Questa infatti è legge cosmica: "nukto;" t  j ajfegge;" blevfaron hJlivou te fw'" i[son badivzei to;n ejniauvson kuvklon" (vv. 543-544), l'oscura palpebra della notte e la luce del sole percorrono uguale il ciclo annuo.
Ora se il sole e la notte si assoggettano a queste misure[1], domanda la madre, tu non tollererai di avere una parte uguale del palazzo (su; d  j oujk ajnevxh/ dwmavtwn e[cwn i[son, v. 547) e di attribuire l'altra a tuo fratello Polinice? E dov'è la giustizia? Perché tu la tirannide, un' ingiustizia fortunata (tiv th;n turannivd  j, ajdikivan eujdaivmona, v. 549), la onori eccessivamente e pensi che sia un gran che?
Pensi che essere guardati sia segno di valore? E' cosa vuota (kenovn, v. 551) di fatto. O vuoi avere molte pene con molte cose nella casa?

Ma risaliamo a Eschilo che tra gli aurtori greci è uno dei più ispirati profeti della Giustizia: "Non c'è difesa per l'uomo che per sazietà di ricchezza ha preso a calci  il grande altare di Giustizia, con il proposito di annientarla", avverte il Coro dell’Agamennone nel primo stasimo (vv.381-384).

Lo stesso monito viene ripetuto dalle Erinni, sulla via di diventare Eumenidi nell’ultimo dramma della trilogia: "Rispetta l'altare di Giustizia, e non disprezzarlo calciandolo con piede ateo in vista del guadagno: infatti poi segue il castigo" (Eumenidi, vv.539-541).


Tornando all’Agamennone, il Coro di vecchi Argivi sentenzia: “Ogni rimedio è vano (a[ko~ de pa`n mavtaion, 388): non resta nascosta, anzi risplende di luce sinistra la colpa (sivno~).
Chi infligge danno alla vita non sfugge alla punizione: “diwvkei pai`~ potano;n o[rnin” (394), è come un fanciullo che insegue un uccello che vola.

Nelle Eumenidi, la religione delle Erinni a poco a poco si avvicina a quella degli dèi olimpici. “La Giustizia salva dall'infelicità colui che la segue eJkwvn d  j ajnavgka~ a[ter di sua volontà, non costretto” (v. 550), mentre "ride il demone sull'uomo violento, vedendo in sventure irrimediabili colui che non se le sarebbe mai aspettate, e non ce la fa nella sua debolezza a superare la vetta, quello che avendo scagliato il benessere di un tempo contro lo scoglio della Giustizia[2] va in malora per sempre, illacrimato, annientato"(vv. 560-565).

Sono le ultime parole del secondo stasimo.


Torniamo  a Euripide
Nelle Supplici, Teseo, il re di Atene, paradigma mitico di Pericle, propugna la democrazia e dice all’araldo tebano mandato da Creonte  che quando c’è un tiranno non esistono più leggi comuni (novmoi- koinoiv, vv. 430-431).
E procede: “gegrammevnwn de; tw'n novmwn o{ t’ ajsqenh;~-oJ plouvsiov~ te th;n divkhn i[shn ecei” (vv. 433-434), quando ci sono le leggi scritte il debole e il ricco hanno gli stessi diritti
Mentre nella città governata da un tiranno le norme sono  del tutto arbitrarie, in un regime democratico  le leggi sono scritte (gegrammevnwn tw'n novmwn), e la giustizia è uguale per il debole e per il ricco

Ora passiamo ai filosofi
Nel Menesseno, Platone chiarisce il disvalore della scienza separata dalla giustizia: "pa'sav te ejpisthvmh cwrizomevnh dikaiosuvnh" kai; th'" a[llh" ajreth'" panourgiva, ouj sofiva faivnetai" (247), tutta la scienza separata dalla giustizia e dalle altre virtù, si vede che è malizia, non sapienza. 

Ricordo anche come viene raccontato da Platone nel Protagora il mito di Prometeo  In questo dialogo il sofista narra che il Titano donò all’umanità il fuoco e ogni sapienza tecnica, ma non diede loro l’arte politica, il rispetto e la giustizia, sicché gli uomini si ammazzavano a vicenda.
I mortali si facevano del male poiché non possedevano ancora l'arte politica (politikh;n ga;r tevcnhn ou[pw  ei\con, 322b) senza la quale commettevano ingiustizie reciproche (hjdivkoun ajllhvlou"), e non potevano coesistere né sussistere. Allora Zeus, temendo l'estinzione della nostra specie, mandò Ermes dagli uomini a portare rispetto e giustizia ( JErmh'n pevmpei a[gonta eij" ajnqrwvpou" aijdw' te kai; divkhn, 322c) e gli ordinò di distribuirli a tutti poiché non esisterebbero città se pochi uomini partecipassero di rispetto e giustizia. Quindi impose per legge che colui il quale non avesse voluto accettare rispetto e giustizia venisse ucciso "wJ" novson povlew"", (322d) come malattia della città.
L’ingiustizia può essere voluta ma può anche derivare da un errore (aJmartiva).
“Nella Retorica Aristotele colloca l’aJmartiva a metà strada tra sfortuna (ajtuvchma) e ingiustizia (ajdivkhma): l’aJmavrthma presuppone un atto volontario ma senza malvagità (mh; ajpo; ponhriva~), Rhet. 1374b”[3].

Ma sentiamo anche un moderno e chiudiamo siccome è già tempo.
Nelle Anime morte di Gogol’ (1842) un farabutto suggerisce di confondere le idee per rendere impossibile il compito di fare giustizia: “Confondere, confondere: e nient’altro… Introdurre nel caso nuovi elementi estranei, che coinvolgano altri, complicare e nient’altro. E che si raccapezzi pure il funzionario pietroburghese incaricato. Che si raccapezzi… Mi creda, appena la situazione diventa critica, la prima cosa è confondere. Si può confondere, aggrovigliare tutto così bene che nessuno ci capirà nulla”[4].

Faccio, facciamo di tutto per non lasciarci confondere dunque.

giovanni ghiselli

PS
Vi ricordo la mia conferenza di Venerdì 22 novembre ore 20.30
Mediateca di San Lazzaro - spazio reading - via Caselle, 22
Le figure femminili nell’epica e nella tragedia greca
Ovviamente è tutto gratuito.
Il blog http://giovannighiselli.blogspot.it/ nel frattempo è arrivato a 117646


[1] Il consiglio di seguire la natura, in particolare osservando l'alternarsi del dì e della notte, per prendere decisioni equilibrate lo dà anche Seneca a Lucilio "cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse et noctem" (Ep. 3, 6), prendi decisioni osservando la natura: quella ti dirà che ha fatto il giorno e la notte. I mortali non possiedono le ricchezze come cose proprie, esse sono degli dèi e noi le amministriamo (v. 555-556). Seneca echeggia questo topos in Ad Marciam de consolatione (del 37d.C.) :"mutua accepimus. Usus fructusque noster est" (10, 2), abbiamo ricevuto le cose in prestito. Nostro è l'usufrutto.
[2] L'immagine della collisione con Diche  è ricorrente nella tragedia: Sofocle nell'Antigone  fa dire al Coro queste parole:"Avanzando verso l'estremità dell'audacia, hai urtato , contro l'eccelso trono della Giustizia, creatura, con grave caduta."(vv.853-855).
[3] Avezzù-Guidorizzi, Edipo a Colono, p. 325.
[4] Trad, it, Garzanti, Milano, 1993 (XI), p. 375.

2 commenti:

  1. Bellissimo, veramente!
    alessandro

    RispondiElimina
  2. mah... che vergogna... se leggessero i greci in parlamento forse qualcosa imparerebbero!!
    MADDALENA

    RispondiElimina

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