Io in Grecia, verso il tempio di Apollo Epikourios |
E’ appena uscito un volume di cui si sentiva la mancanza: Le Olimpiche di Pindaro, introdotte e
tradotte da uno specialista della levatura di Bruno Gentili che ha curato anche
il testo critico.
Il commento è a cura di Carmine
Catenacci, Pietro Giannini e Liana Lomiento. Questo volume è il più recente
dell’ottima, preziosa collana “Scrittori greci e latini” della Fondazione
Lorenzo Valla (editore Mondatori).
Il sette novembre si è tenuta l’assemblea ordinaria dei soci della Fondazione nel Palazzo Massimo del Museo Nazionale Romano.
Piero Boitani ha presentato magistralmente questo libro mettendo un rilievo la potenza espressiva del
lirico tebano. Ha iniziato citando i
primi dieci versi dell’Olimpica I ,
un incipit che può costituire la carta d’identità delle quattordici odi e delle
stesse gare olimpiche, gli agoni supremi, paragonati all’acqua, “ottima”,
all’oro “che avvampa nella notte più di ogni superba ricchezza” e al sole , il
più fulgido e ardente degli astri.
Quale socio della fondazione voglio contribuire con una presentazione
della poesia di Pindaro, in particolare dell’Olimpica I . Darò la mia
traduzione dell’intero carme. Poi lo commenterò con l’aiuto di Leopardi e di
Nietzsche. Concluderò tornando alla relazione di Boitani.
Voglio partire dall’elogio che
il maggior lirico italiano ha fatto del più grande creatore di lirica corale:
“Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare
il vero poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo
la cui anima è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato di vigor
febbrile, e straordinario (principalmente, anzi quasi indispensabilm.
Corporale), e quasi di ubbriachezza? Pindaro ne può essere un esempio: ed anche
alcuni lirici tedeschi ed inglesi abbandonati veram. Che di rado avviene,
all’impeto di una viva fantasia e sentimento” (Leopardi, Zibaldone, 1856).
Con l'attività di Pindaro siamo arrivati all'età classica, dal tempo
delle guerre persiane (500 insurrezione
ionica, 490 battaglia di Maratona, 480 Salamina), fin oltre la metà del quinto
secolo. Il poeta nacque, intorno al 520, in Beozia, vicino a Tebe, la città di Cadmo e di Edipo,
la più ricca di miti nella Grecia, e morì ad Argo dopo il 446.
Tebe, la città esecrata dai tragici greci, l’anticittà delle Baccanti e dell’Edipo a Colono, è invece amata e celebrata da Pindaro.
Vediamo l’incipit dell’Istmica I :
“Madre mia, Tebe dall’aureo scudo, porrò il lavoro per te persino al di sopra
della mancanza di tempo (pra'gma kai; ajscoliva~ uJpevrteron-qhvsomai)” (vv. 1-3).
Pindaro cominciò a comporre appunto durante la grande guerra quasi
panellenica, ma non prese partito contro i Persiani poiché Tebe non era
contraria agli invasori; tuttavia in seguito celebrò le vittorie e l'eroismo
dei Greci, al pari del più anziano Simonide dal quale del resto lo divise una
forte rivalità come dal nipote di lui, il poeta Bacchilide che era suo
coetaneo. Tutti e tre i lirici infatti furono in Sicilia, ospiti dei tiranni di
Siracusa e di Agrigento, gareggiando per averne il favore. Pindaro scrisse, in
dialetto dorico, liriche corali edite dagli Alessandrini in diciassette libri
dei quali ci sono arrivati interi i quattro degli Epinici, composizioni per
celebrare gli atleti vittoriosi nei giochi panellenici: gli olimpici, i pitici,
gli istmici, i nemei.
Il primo libro contiene 14 odi (le Olimpiche),
il secondo 12 (le Pitiche), il terzo
11 (le Nemee), il quarto 8 (le Istmiche). Del resto dell'opera
rimangono circa 150 frammenti.
Sebbene vissuto nel tempo in cui si andava affermando la filosofia e la storiografia con la critica ai miti tràditi, Pindaro fu uno dei campioni della reazione al pensiero illuministico, come Teognide prima e come Sofocle dopo di lui. Infatti il poeta tebano, al pari di Omero, ci fa vedere la dimensione eroica della vita, presentando quali modelli da imitare anzitutto gli dèi, purificati però da quei vizi debolezze e difetti che l'epica, soprattutto l'Iliade, già attribuiva loro ("è naturale per l'uomo dire degli dèi cose belle, minore è la colpa" meivwn ga;r aijtiva, leggiamo nell'Olimpica I , vv. 35-36).
Ma soprattutto Pindaro ha celebrato, sempre con la "dorica lira" (v.18), le gesta e i
caratteri degli eroi che devono essere imitati da chi voglia mettere in opera
la propria virtù innata, e raggiungere, con il successo nelle imprese, la
gloria che tocca ai vincitori negli agoni dei quali era costellata la vita dei
Greci. Indegna di essere vissuta è invece l'esistenza ingloriosa e
insignificante dei deboli e vili ignari di aretà
(virtù, valore) : "Il pericolo
grande non prende l'uomo imbelle (oJ mevga~ de; kin-duno~ a[nalkin ouj fw'ta lambavnei). Per coloro ai quali è necessario morire,
come uno potrebbe smaltire una vecchiaia anonima seduto nell'ombra
invano?"(I Olimpica vv.81-84).
Nel numero ristretto degli eroi rientrano i vincitori delle gare
panelleniche e il poeta che li celebra.
L'eroe è prodotto del sangue divino che genera ogni grandezza: negli
epinici il vincitore appare come ultimo anello di una catena di dèi e semidèi.
Così, nell'Olimpica II, Terone di
Agrigento vincitore nella corsa dei carri nei giochi del 476, è posto accanto a
Zeus signore di Olimpia, e ad Eracle che fondò le Olimpiadi. Nella stessa ode
troviamo un nodo ideologico del poeta: che l'aretà non è insegnabile, né
quella dell'atleta né quella del poeta il quale paragona se stesso all'aquila,
il divino uccello di Zeus (v. 89), mentre i suoi rivali, probabilmente Simonide
e Bacchilide, che non sono molto sapienti per natura ( 86) bensì
"addottrinati" (maqovnte~,
v.87) vengono assimilati ai corvi (88) i quali stridono confusamente con mille
lingue prolisse.
Pindaro afferma: sofo;~ oJ polla; eijdw;~ fua/' (v. 86), sapiente è chi sa molto per natura.
Nietzsche prosegue su questa linea.
“Il dotto, che in fondo non fa che “compulsare” libri - circa duecento al
giorno per il filologo medio - finisce col perdere completamente la capacità di
pensare per conto suo. Se non compulsa non pensa… Il dotto - un décadent - L’ho visto con i miei occhi:
nature dotate, ricche e libere, già a trent’anni tutti “morti dal leggere”,
ridotti come fiammiferi, che si sfregano perché facciano delle scintille- dei
“pensieri”. Bene, per me questo è vizioso!”[1].
“Il filologo è colui che sa leggere e scrivere, il poeta colui
che…doveva “dettare”, perché non sa né leggere né scrivere. Da questa
opposizione tra dotto nella letteratura e nella scrittura e poeta si possono
dedurre molte cose importanti”[2].
Nel capitolo Dei dotti
Zarathustra associa l’ombra alla “casa
dei dotti” ai quali si contrappone: “Io sono troppo ardente e riarso dai miei
stessi pensieri: spesso mi si mozza il fiato. E allora bisogna che fugga
all’aperto, via dal chiuso delle stanze polverose. Loro invece siedono freddi
nell’ombra fredda: in tutto non vogliono essere che spettatori e si guardano
bene dal mettersi a sedere dove il sole arde i gradini. Simili a quelli che in
mezzo alla strada guardano a bocca spalancata i passanti, essi pure aspettano e
guardano a bocca spalancata i pensieri che altri hanno pensato”[3].
Quindi: “Guardatevi anche dai dotti! Essi vi odiano: perché sono
sterili! Essi hanno occhi freddi e asciutti, davanti a loro ogni uccello giace
spennato”[4].
“Di fronte al genio, cioè ad un essere che crea o che dà alla luce…il
dotto, l’uomo medio della scienza, ha sempre qualcosa della vecchia zitella: in
quanto, come quest’ultima, non ha la minima idea di queste due funzioni umane,
che sono le più preziose…il suo occhio assomiglia allora ad un lago liscio e
odioso, la cui onda non si increspa a nessun entusiasmo, a nessuna simpatia. Ma
le cose peggiori di cui un dotto è capace, gli provengono dall’istinto della
mediocrità, propria della sua razza; da quel gesuitismo della mediocrità che
incosciamente lavora alla demolizione dell’uomo eccezionale e tende a spezzare
ogni arco teso o, meglio ancora, ad allentarne la tensione.”[5].
Dotti sono i filologi: una razza disprezzata da Nietzsche: “L’antichità
è stata scoperta in tutte le cose principali da artisti, uomini politici e
filosofi, non da filologi, e ciò fino al giorno d’oggi”[6].
“I filologi non sono se non liceali invecchiati”[7].
A volte addirittura dei ginnasiali ammuffiti
“Il nostro assurdo mondo di educatori (dominato dallo schema regolativo
di “un utile servitore dello Stato”) crede di cavarsela con l’”istruzione”, con
l’ammaestramento del cervello; non gli viene neanche in mente l’idea che
occorra dapprima qualcos’altro - educazione della forza di volontà; si
fanno esami su tutto, ma non sull’essenziale: se si sappia volere”[8].
“Il sole lo maledicono i fiacchi: per loro quel che conta di un albero
è l’ombra”[9].
Petronio contrappone l'umbraticus doctor deleterio ai grandi tragici: "Cum Sophocles aut Euripides invenerunt[10] verba quibus deberent loqui, nondum umbraticus doctor ingenia deleverat "[11]
quando Sofocle e Euripide trovarono le parole con le quali dovevano parlare,
non c'era ancora un erudito cresciuto nell'ombra a scempiare gli ingegni.
Leopardi afferma (Zibaldone
, 40) che solo i primi poeti, ossia gli inventori dei generi, poterono essere
davvero originali: "Così Omero scrivendo i suoi poemi, vagava liberamente
per li campi immaginabili, e sceglieva quello che gli pareva giacché tutto gli
era presente effettivamente, non avendoci esempi anteriori che glieli
circoscrivessero e gliene chiudessero la vista." Così Eschilo
"inventando ora una ora un'altra tragedia senza forme senza usi stabiliti,
e seguendo la sua natura, variava naturalmente a ogni composizione".
Pindaro sa che pure sulle stirpi
eroiche grava il dolore: chi vive e agisce è destinato a patire; anzi sono
soltanto i grandi uomini a vivere veramente, soffrendo veramente. Soffrire è
destino, sembrano ripetere le sue odi, ma quale splendore c'è nella vittoria!
Il tempo, "padre di ogni evento", distribuisce prosperità e
disgrazie, ma queste possono cadere nella dimenticanza grazie ai
successi: "lavqa
de; povtmw/ su;n eujdaivmoni gevnoit j an, ejslw'n
ga;r uJpo; carmavtwn ph'ma qna/skei-palivgkoton damasqevn” (Olimpica
II vv. 18-20), dimenticanza in sorte felice può nascere. Infatti sotto
nobili gioie la pena muore, recrudescente, domata" (19.).
Il dolore insomma è vincibile con il valore. Sembra riecheggiare questo
concetto il fortes fortuna adiǔvat di Cicerone (Tusc .
II, 11), la sorte aiuta i coraggiosi.
A Pindaro interessa fornire stimoli attraverso gli esempi: gli uomini
possono vedere nei modelli mitici l'immagine sublimata della loro natura e il
poeta ispirato può dire al magnanimo quale sia la sua vera identità cui non
deve restare inferiore. "La somma di tutto il pensiero educativo di Pindaro"[12]
è "diventa quello che sei 'gevnoio oi|o~ ejssiv'" (Pitica
II
v. 72).
Che cosa ti dice la tua coscienza? Devi divenire quello che tu sei…. Che
cosa è il sigillo della raggiunta libertà? Non provare più vergogna davanti a
se stessi”[13].
“Ciò che va bene per uno, non per questo può
andare bene per un altro, 'il pretendere un’unica morale per tutti equivale a
danneggiare precisamente gli uomini superiori', in sostanza, tra uomo e uomo
esiste un ordine gerarchico”[14].
“Una cosa sola è necessaria. Dare uno stile al proprio carattere: è
un’arte grande e rara. L’esercita colui che abbraccia con lo sguardo tutto
quanto offre la sua natura in fatto d’energie e di debolezze, e che inserisce
quindi tutto questo in un piano artistico. Inversamente si comportano i caratteri
deboli, impotenti su se stessi, i quali odiano
la disciplina vincolante dello stile. Una cosa sola, infatti, è necessaria: che
l’uomo raggiunga l’appagamento di sé. Soltanto allora l’uomo in genere è
tollerabile a vedersi. Chi non è pago di se stesso è continuamente pronto a
vendicarsene: noialtri saremo le sue vittime, se non altro perché dovremo
sempre sopportare la sua spiacevole vista”[15].
Cercare la propria realizzazione significa amare il compimento, la
perfezione del proprio destino, il quale, per stravagante che sia, è una
piccola parte del fato universale: “La mia formula per la grandezza dell’uomo è
amor fati: non voler nulla di
diverso, né dietro, né davanti a sé, per tutta l’eternità. Non solo sopportare,
e tanto meno dissimulare, il necessario - tutto l’idealismo è una continua
menzogna di fronte al necessario - ma amarlo…”[16].
“Ma in fondo, proprio in fondo
a noi stessi c’è sicuramente qualcosa che non si può insegnare, un Fatum spirituale granitico, ciò che in
fondo a noi non è insegnabile”[17].
“Il necessario non mi
ferisce; amor fati è la mia intima
natura, das ist meine innerste Natur”[18].
Ma torniamo a Pindaro.
Il pessimismo pedagogico per il quale la virtù è congenita, risulta anche dalla terza Nemea
la quale sostiene che ha pieno valore soltanto l'uomo nel quale
il valore è innato, e chi possiede solo quanto ha appreso è un'ombra vacillante
che non avanza mai con piede saldo e assaggia mille cose con animo immaturo
(vv. 50 ss).
L'educazione dunque può sviluppare e potenziare il valore innato, ma
non crearlo dal nulla. Il poeta è un maestro che frequenta i potenti della
terra e ne riceve i favori, ma non per
questo si sente un cortigiano; anzi egli è "l'uomo dalla lingua
diritta" (eujquvglwsso~, Pitica
II , 86) e il suo simbolo è l'aquila cui tutta l'aria è accessibile.
L'ideale di cultura aristocratica stava tramontando negli anni in cui
Pindaro ne trovava le forme compiute, come farà Dante nella sua Commedia
con il mondo feudale che stava cadendo sotto i colpi della borghesia
comunale.
Ora vediamo per intero l'Olimpica
I tradotta parola per parola, fin
dove è possibile con gli epinici dell'immaginifico poeta tebano.
Fu scritta nel 476 per la
vittoria di Ierone signore di Siracusa con il cavallo Ferenico, mentre Terone
tiranno di Agrigento vinse la gara più prestigiosa delle quadrighe e venne
celebrato con la II e la III Olimpica
.
"Ottima è l'acqua (a[riston me;n u{dwr) e l'oro ardendo come
fuoco splende nella notte al di sopra di ogni superba ricchezza;
e se tu vuoi dare voce
alle gare, cuore mio,
smetti di cercare un altro
astro più caldo del sole, che brilla
di giorno nell'etere deserto,
e non cantiamo un agone più prestante di Olimpia:
da dove l'inno pieno di gloria si lancia intorno
alle menti dei poeti, così che celebrano
il figlio di Crono, giunti al ricco
e felice focolare di Ierone,
che possiede il giusto scettro nella Sicilia
ferace di frutti mietendo le cime da tutte le virtù,
e si adorna anche
nel fiore dei canti
quali sono i carmi che componiamo per diletto, noi uomini
spesso intorno alla mensa ospitale. Avanti, stacca
dal piolo la dorica cetra (dwrivan fovrmigga),
se in qualche modo anche a te la gloria di Pisa e di Ferenīco
ha posto la mente sotto pensieri dolcissimi,
quando lungo l'Alfeo si lanciò con
il corpo senza sproni nella
corsa,
e unì il suo padrone alla vittoria,
il re siracusano
che si allieta dei cavalli; e brilla la sua gloria
nella colonia ricca di prodi del lidio Pelope
del quale si innamorò lo scuotiterra di grande forza
Poseidone, quando Cloto lo tirò fuori
dal puro lebète,
ornato di avorio il fulgido omero.
Certo sono molti i portenti, e in qualche modo, credo, anche le favole
(mu'qoi),
diceria dei mortali oltre la verità,
intarsiate di iridescenti bugie (dedaidalmevnoi yeuvdesi poikivloi~),
traggono in inganno.
Il fascino (Cavri~) che foggia
tutte le dolcezze per i mortali,
portando onore, procura pure che l'incredibile divenga
credibile, spesso;
ma i giorni a venire (aJmevrai d’ ejpivlopoi)
sono i testimoni più sapienti (mavrture~ sofwvtatoi).
è naturale per l'uomo dire cose belle
dei numi: minore infatti è la
colpa (meivwn
ga;r aijtiva).
O figlio di Tantalo, io canterò di te al contrario di quelli di
prima (ajntiva protevrwn).
Quando tuo padre fece inviti al banchetto
ottimamente governato nella cara Sipilo,
offrendo cene di contraccambio agli dèi,
allora ti rapì il Signore dal fulgido tridente,
domato dal desiderio nel cuore, e su cavalli d'oro
ti trasportò all'eccelsa dimora di Zeus largamente onorato;
dove in un secondo tempo
giunse anche Ganimede
per lo stesso servigio a Zeus.
Poiché tu eri sparito, né alla madre ti
portarono gli uomini sebbene ti
cercassero molto,
subito uno dei vicini invidiosi
spargeva di nascosto la diceria
che ti avevano tagliato membro a membro con il coltello
nel culmine bollente dell'acqua sul fuoco,
e al momento dell'ultima portata sulle mense si
spartirono le tue carni e le divorarono.
Per me è inconcepibile chiamare
ghiotto uno dei beati: me ne tengo lontano;
una perdita tocca spesso ai malèdici.
Ma se mai i protettori dell'Olimpo onorarono un uomo
mortale, era Tantalo questo; però
di fatto non seppe
digerire la grande felicità (ajlla; ga;r katapevyai mevgan o[lbon oujk
ejdunavsqh), e con la sazietà
attirò
un accecamento (a[tan) pieno
di prepotenza, e su di lui
il padre sospese un macigno pesante,
che egli desidera sempre stornare dal capo
ed erra lontano dalla gioia.
Egli ha questa miserabile vita inchiodata ai travagli
con le tre, una quarta pena, poiché dopo avere derubato gli immortali,
diede ai coetanei convitati
nettare e ambrosia,
con i quali avevano reso
immortale
anche lui. Se un uomo spera di fare qualcosa
sfuggendo a dio, si sbaglia.
Per questo gli immortali gli inviarono il figlio di nuovo,
un'altra volta alla stirpe degli
uomini dal destino che cade veloce (to; tacuvpotmon ajnevrwn e[qno~).
Verso l'età fiorente quando
la peluria lo copriva nel mento che diveniva nero,
pensò a un matrimonio pronto
sì da ottenere dal padre signore di Pisa l'illustre
Ippodamia. Andato vicino al mare canuto, solo nella tenebra
invocava il dio del tridente
dal grave rimbombo; quello gli
apparve vicino al piede.
Allora gli disse: "Se i cari doni di Cipride
rimangono in qualche modo nella tua gratitudine,
avanti, Poseidone, inceppa la lancia di bronzo di Enomao (pevdason e[gco~
Oijnomavou cavlkeon),
e fammi giungere in Elide sul carro
più veloce, e avvicinami alla vittoria.
poiché dopo avere ucciso tredici
pretendenti, procrastina le
nozze
della figliola. Il grande pericolo
non prende un uomo imbelle (oJ mevga~ de; kivnduno~ a[nalkin ouj fw'ta lambavnei).
Per quelli per i quali morire è necessario, perché uno dovrebbe
smaltire invano una vecchiaia anonima seduto nell'ombra
senza parte di tutte le cose belle? (ajpavntwn
kalw'n a[mmoro~), ma questa
gara giacerà sotto di me: tu dammi propizio l'evento".
Così diceva; né lo toccò con parole
senza effetto. E il dio onorandolo
gli diede un cocchio d'oro e cavalli
infaticabili per le ali.
Poi vinse la violenza di Enomao e la ragazza in moglie:
generò sei figli condottieri di popoli, bramosi di gloria.
Ora è mescolato90
a splendidi sacrifici di sangue che saziano,
giacendo sulla corrente dell'Alfeo,
con una tomba frequentata presso
l'altare dai moltissimi stranieri; e la gloria
di Pelope da lontano brilla negli stadi degli agoni
Olimpici dove gareggia velocità di piedi
e vertici ardimentosi di forza;
e il vincitore per il resto della vita
ha una dolce serenità
per le gare: il bene che dura continuo ogni giorno
sale più alto per ciascuno dei mortali. Bisogna
che io lo inghirlandi
secondo il canto equestre
con armonia eolica:
sono convinto che nessun
ospite, almeno tra i contemporanei, il quale
sia nel tempo stesso, da ambedue i lati,
conoscitore del bello (kalw'n te i[drin), e molto autorevole quanto a potenza,
potrò celebrare con le inclite volute degli inni.
Un dio che ti protegge si prende cura delle tue ambizioni
avendo questa sollecitudine, Ierone;
se non ti abbandona presto,
spero di poter celebrare
un'ambizione ancora più dolce
legata al cocchio veloce
dopo avere trovato una via soccorritrice di parole
giunto presso il colle di Crono che si vede da lungi. Per me comunque
la Musa nutre con forza un potentissimo strale;
chi è grande in un campo chi in un altro: ma
la cima più alta si solleva
per i re. Non lanciare sguardi ancora più in là.
Sia possibile che tu in questo tempo muova i passi in alto,
e che io altrettanto a lungo frequenti
i vincitori, dappertutto, segnalato
per maestria fra i Greci".
Questi versi
non sono facili e richiedono un commento.
Come gli altri
epinici, la prima Olimpica parte dall'attualità, risale al mito e giunge
alla riflessione etico pedagogica di valore perennemente attuale.
Il poeta è
eternatore della gloria dei vincitori negli agoni panellenici, ma è anche
maestro di un popolo, anzi di tutta l'umanità dagli alti sentimenti.
L'attualità è costituita dalla vittoria di Ferenico il cavallo di Ierone,
signore di Siracusa e protettore di Pindaro, nella gara del cavallo montato. Essa fu cantata anche dal V epinicio di
Bacchilide.
Il mito
centrale è quello di Pelope, il figlio di Tantalo amato da Poseidone e aiutato
dal dio, riconoscente, a sconfiggere Enomao, tiranno di Pisa (località prossima
ad Olimpia), nella gara affrontata per ottenere la mano di Ippodamia, la figlia del despota il quale sfidava tutti i
pretendenti della ragazza in una corsa di carri e, dopo averli battuti, li
uccideva. L'attesa del cimento è raffigurata in pietra nel frontone orientale
del tempio di Zeus ad Olimpia, ora situato nel museo. Vi si vede anche l'auriga
di Enomao, Mirtilo, che truccò la competizione mettendo perni di cera nella
ruota del cocchio del tiranno, quindi fu ucciso dallo stesso Pelope ingrato. Ma
questo, Pindaro non lo racconta, siccome vuole purificare i suoi dèi e i suoi
eroi. Anche il mito di Tantalo infatti viene modificato: non è vero che fu
condannato a pene eterne poiché aveva imbandito il figlio Pelope, cucinato, ai
numi suoi ospiti, infatti gli dei non sono cannibali, ma venne punito perché era
un privilegiato che, non sapendo smaltire la sua fortuna, si insuperbì.
In diverse occasioni Pindaro afferma il credo che non bisogna dire male degli dèi. Per esempio nell'Olimpica IX leggiamo: "Diffamare gli dei è odiosa sapienza (ejpei; tov ge loidorh'sai qeouv" ejcqra; sofiva, vv. 37-38), con un ossimoro che denuncia la critica filosofica dei miti, una lapidaria affermazione di ultratradizionalismo che sarà ripresa dall'Euripide postfilosofico o antifilosofico delle Baccanti: "Il sapere non è sapienza" (v.395), canta il coro delle menadi, quindi si augura di "tenere il cuore e la mente lontani dagli uomini straordinari, per accettare quello che il popolo più semplice pensa e crede" (vv. 427-432). Ebbene, il tradizionalismo aristocratico di Pindaro è meno lontano dalle credenze popolari che dalla sapienza intellettualistica degli "uomini straordinari".
In diverse occasioni Pindaro afferma il credo che non bisogna dire male degli dèi. Per esempio nell'Olimpica IX leggiamo: "Diffamare gli dei è odiosa sapienza (ejpei; tov ge loidorh'sai qeouv" ejcqra; sofiva, vv. 37-38), con un ossimoro che denuncia la critica filosofica dei miti, una lapidaria affermazione di ultratradizionalismo che sarà ripresa dall'Euripide postfilosofico o antifilosofico delle Baccanti: "Il sapere non è sapienza" (v.395), canta il coro delle menadi, quindi si augura di "tenere il cuore e la mente lontani dagli uomini straordinari, per accettare quello che il popolo più semplice pensa e crede" (vv. 427-432). Ebbene, il tradizionalismo aristocratico di Pindaro è meno lontano dalle credenze popolari che dalla sapienza intellettualistica degli "uomini straordinari".
Del resto la
sapienza e le arti non sono a portata di tutti ma sono "impervie" (Olimpica IX, 108).
La figura umana di Pelope, grazie all'eroismo,
si avvicina a quelle divine, dunque, e se soltanto "sogno di ombra è
l'uomo" (skia`~
o[nar a[nqrwpo~,
Pitica VIII, 95-96) questo può
tuttavia raggiungere l'immortalità attraverso la rinomanza delle sue imprese, e
può conseguire anche la felicità eterna con un comportamento morale, mondo da
colpe gravi quali spergiuri e inganni: quanti hanno vissuto tre vite pure, senza commettere ingiustizia,
afferma il poeta nella seconda Olimpica, scritta probabilmente sotto l'influenza delle teorie orfico-pitagoriche
assorbite in Sicilia, dimorano lietamente nelle isole luminose dei beati dove
"bruciano fiori d'oro" (a[nqema de; crusoou` flevgei v.73).
L’assimilazione
dell'uomo al dio non rimane isolata nella cultura greca, ma si ritrova nelle sculture di Mirone e di Policleto,
quindi prosegue nella suprema dignità conferita da Fidia alla figura umana.
Mirone, nato in
Beozia anche lui, fiorito intorno alla metà del V secolo, nel Discobolo raffigura quell'altezza dell'ideale agonale
destinata a cadere quando l'agonismo, già al tempo dell'ultimo Euripide,
diverrà professionistico e venale, fatto che avrebbe attirato gli strali irati
di Pindaro i quali infatti nel'Istmica II
invoca la "Musa non interessata
né mercenaria" (v.6).
Policleto con il Doriforo (del 440 circa), mostra, tra l'altro, quella unità dell'anima e del corpo umani che per noi è
andata irrimediabilmente perduta.
Nella Nemea V (vv. 1-3) Pindaro però afferma
la propria superiorità sullo scultore che crea figure immobili sopra i loro piedistalli. La gara o
la posa atletica per questi artisti ha un significato anche metafisico poiché l'agonista sforzandosi di conseguire
la perfezione della propria virilità realizza un imperativo religioso. Leopardi
e Nietzsche scrivono parole piene di ammirazione sugli agoni greci.
Il poeta di
Recanati (Zibaldone, 328-329) nota
la differenza "tra i giuochi greci e i romani" per mettere in
rilievo"la naturalezza dei primi che combattevano nella lotta nel corso
ec. appresso a poco coi soli istrumenti datici dalla natura, laddove i romani
colle spade e altri istrumenti artifiziali. E quindi la diversa destinazione di
quei giochi, diretti presso gli uni ad ingrandir quasi la natura ed eccitare le
grandi immagini, sentimenti ec.; presso gli altri o al semplice sollazzo, o
all'addestramento militare".
Nietzsche, in Umano troppo umano scrive: "Poiché
il volere vincere e primeggiare è un tratto di natura invincibile, più antico e
originario di ogni gioia e stima di uguaglianza. Lo stato greco aveva
sanzionato fra gli uguali la gara ginnastica e musica, aveva cioé delimitato
un'arena dove quell'impulso poteva scaricarsi senza mettere in pericolo
l'ordinamento politico. Con il decadere finale della gara ginnastica e musica,
lo stato greco cadde nell'inquietudine e dissoluzione interna"[19].
Gli epinici di Pindaro hanno
anche una valenza religiosa: sono inni cultuali che trattano di cose venerande.
E il poeta, mentre santifica il vincitore, perviene alla sua altezza; il
celebrato e il celebratore, il laudandus
e il laudator, secondo la concezione dell'antico aedismo,
salgono insieme sopra una vetta splendidamente soleggiata da dove è possibile
volgere lo sguardo al significato della vita umana.
La vittoria infatti esige il canto che è un debito del poeta all'atleta
(Olimpica III, 7) e alla stessa dike: "lodare il valente è fiore di
giustizia", leggiamo in Nemea III
, 29. Dunque l'aretà che brilla nella
vittoria non può rimanere "nascosta a terra in silenzio" (Nemea IX , 7).
Il cantore ispirato, toccando le cose mortificate dall'uso, le ravviva
e restituisce loro il pregnante significato originario, purché "la lingua
attinga dal fondo dell'anima con il favore delle Grazie" (Nemea IV, 7-8). Fondamentale è il nesso
Vittoria-Canto, mentre la gara non viene narrata. Se vogliamo leggere la
descrizione di una corsa di cocchi veloci ai giochi pitici dobbiamo cercarla
nell'Elettra di Sofocle dove (vv.
680-763) si racconta, falsamente, la morte di Oreste in un incidente. Pindaro
volge piuttosto l'attenzione all'uomo che ha manifestato aretà suprema e perciò viene
collocato, non quale individuo ma come incarnazione della virtù, sull'altare
costruito dalla poesia che è "tesoro di inni" (Pitica VI , 7-8), un tempio adorno di colonne (Olimpica VI , 1-3) e doni votivi. Il poeta allora è il sacerdote,
il profeta della bellezza del mondo, il quale è intessuto con fili d'oro poiché
vi si annida il divino; Pindaro non racconta, come gli altri lirici, i suoi
sentimenti personali, ma scopre l'immanenza dell'ideale nel reale.
Pindaro è il primo autore a suggerire di acciuffare il kairov~ , l’occasione. “A ogni cosa conviene la misura:
e l’occasione è ottima a comprenderla” (Olimpica
XIII, vv. 47-48).
Vediamo altre occorrenze di questo topos.
Vediamo altre occorrenze di questo topos.
Isocrate[20]
nel manifesto della sua scuola, Contro i sofisti [21]
afferma che difficile non è tanto
acquisire la conoscenza dei procedimenti retorici, quanto non sbagliarsi sul
momento opportuno per usarli: "tw'n kairw'n mh; diamartei'n"( 16).
Già Oreste nell'Elettra di Sofocle, dove si tratta di vita o di
morte, conclude il suo primo discorso affermando che l'occasione è sovrana: "kairo;"
gavr, o{sper ajndravsin mevgisto" e[rgou pantov" ejst j
ejpistavth"" (vv.
75-76), l'occasione infatti è appunto
per gli uomini la più grande presidente di ogni agire.
Cicerone suggerisce di usare il vocabolo occasio per tradurre il
greco eujkairiva che designa il tempus actionis opportunum,
il tempo opportuno di un'azione[22].
Nell’Antonio e Cleopatra Menas decide di non
seguire più l’indebolita fortuna di Sesto Pompeo che ha perso l’occasione di sbarazzarsi
dei suoi nemici: “Who seeks and will not
take, when once ‘tis offer’d, Shall never find it more” (II, 1), chi cerca
e non prende qualcosa una volta che viene offerta, non la troverà mai più.
Non bisogna
dunque dimenticare che l'occasione "è calva di dietro"[23].
Marlowe risale
forse a Fedro (V, 8) che ricorda come gli antichi foggiarono l’immagine del
Tempo un uomo calvus, comosa fronte, nudo
occipitio. Tale immagine (effigies) occasionem
rerum significat brevem.
Infine Nietzsche: “Forse il genio non è affatto così raro: sono rare le
cinquecento mani che gli sono
necessarie per dominare il kairov~,
“il momento opportuno”, per afferrare per i capelli il caso!”[24].
Concludo riferendo le parole
conclusive della relazione di Piero Boitani: “Ogni cosa ha la sua misura, e
dunque conoscere il kairo~, ciò che è “a proposito”, è la cosa migliore (Olimpica XIII). Ma “breve misura è, per
gli uomini, / il momento opportuno” (Pitica
IV).Allora, finalmente capiamo perché un’ode pindarica si presenta così
varia, molteplice, tesa, colorata, compatta; perché così brevi e fulminanti
sono i racconti dei miti, le allusioni alla storia e alle radici ancestrali
della Grecia. Non solo perché biasimo, sazietà e invidia altrui obbligano alla
scelta e al volo: ma perché, come qualcosa che sovrasta e determina e s’accorda
a tutto ciò, il kairov~ “che di ogni
cosa tiene la cima” è, per gli uomini breve misura. Abbiamo soltanto poche vere
occasioni, rare opportunità, attimi. Il poeta, poi, ne ha ancora di meno:
perché all’evento, all’agone sportivo, deve trovare corrispettivo appropriato,
investire di permanenza un trionfo effimero. Il poeta deve cogliere il kairov~ nel kairov~ e ricamare su
questo incontro un arazzo variopinto e denso: distillarne un liquido puro e
primigenio come l’acqua: forgiare una cetra lucente e preziosa come l’oro,
accendere un fuoco che rifulge nella notte, cercare nel giorno l’astro del
sole, ardente nell’etere desero: comporre, insomma, le Olimpiche”.
Spero di avere dato l’occasione a chi non
conoscesse ancora Pindaro di avergli suggerito la tentazione di leggerlo. E’
un’ occasione per accrescere la propria umanità.
giovanni ghiselli
Il blog http: //giovannighiselli.blogspot.it/
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283 giorni
[1] Ecce homo, perché
sono così accorto, 8.
[2] Frammenti postumi 1876 (23).
[3] Così parlò
Zarathustra, Dei dotti.
[4] Così parlò
Zarathustra, Dell’uomo superiore, 9
[5] Di là dal bene e dal male, Noi dotti.
[6] Frammenti postumi ottobre 1876 (4).
[7] Op. cit (6)
[8] Frammenti postumi, autunno 1887, 165
[9] La gaia scienza,
Scherzo, malizia e vendetta, 6.
[10]
Invenerunt e il successivo deberent significano da una parte
inventiva e fantasia, dall'altra
la non meno necessaria disciplina che più avanti infatti viene rimpianta.
la non meno necessaria disciplina che più avanti infatti viene rimpianta.
[11]Satyricon, 2.
[12] Jaeger, Paideia
, I vol., p.391.
[13] Nietzsche, La gaia scienza, libro terzo, 275.
[14] Di là dal bene
e dal male, Le nostre virtù.
[15] La gaia scienza,
libro quarto, 290.
[16] Ecce homo,
perché sono così accorto, 10
[17] Di là dal bene
e dal male, Le nostre virtù.
[18] F. Nietzsche, Ecce
homo, Il caso Wagner, 4
[19] Parte seconda, Il viandante e la sua ombra, 226
[20] 436-338 a. C.
[21] Del 390.
[22] De officiis, I, 142.
[23] C. Marlowe, L'ebreo di Malta, V, 2.
[24] Di là dal bene
e dal male, p. 203.
ottima è la notizia e ottimo chi scrive
RispondiEliminaalessandro
in un mondo di " corvi che stridono confusamente con mille lingue prolisse " o di gesuiti della mediocrità, mi piace volare alto con il poeta Pindaro come fa l'aquila di Zeus
RispondiEliminaMargherita