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domenica 10 novembre 2013

Le Olimpiche di Pindaro



Io in Grecia, verso il tempio di Apollo Epikourios



E’ appena uscito un volume di cui si sentiva la mancanza: Le Olimpiche di Pindaro, introdotte e tradotte da uno specialista della levatura di Bruno Gentili che ha curato anche il testo critico.
Il commento è a cura di Carmine Catenacci, Pietro Giannini e Liana Lomiento. Questo volume è il più recente dell’ottima, preziosa collana “Scrittori greci e latini” della Fondazione Lorenzo Valla (editore Mondatori).

Il sette novembre si è tenuta l’assemblea ordinaria dei soci della Fondazione nel Palazzo Massimo del Museo Nazionale Romano.
Piero Boitani ha presentato magistralmente questo libro mettendo un rilievo la potenza espressiva del lirico tebano. Ha iniziato citando i primi dieci versi dell’Olimpica I , un incipit che può costituire la carta d’identità delle quattordici odi e delle stesse gare olimpiche, gli agoni supremi, paragonati all’acqua, “ottima”, all’oro “che avvampa nella notte più di ogni superba ricchezza” e al sole , il più fulgido e ardente degli astri.  

Quale socio della fondazione voglio contribuire con una presentazione della poesia di Pindaro, in particolare dell’Olimpica I . Darò  la mia traduzione dell’intero carme. Poi lo commenterò con l’aiuto di Leopardi e di Nietzsche. Concluderò tornando alla relazione di Boitani.
Voglio partire dall’elogio che il maggior lirico italiano ha fatto del più grande creatore di lirica corale:
“Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare il vero poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato del più pazzo fuoco, l’uomo la cui anima è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato di vigor febbrile, e straordinario (principalmente, anzi quasi indispensabilm. Corporale), e quasi di ubbriachezza? Pindaro ne può essere un esempio: ed anche alcuni lirici tedeschi ed inglesi abbandonati veram. Che di rado avviene, all’impeto di una viva fantasia e sentimento” (Leopardi, Zibaldone, 1856).

Con l'attività di Pindaro siamo arrivati all'età classica, dal tempo delle guerre  persiane (500 insurrezione ionica, 490 battaglia di Maratona, 480 Salamina), fin oltre la metà del quinto secolo. Il poeta nacque, intorno al 520, in Beozia, vicino a Tebe, la città di Cadmo e di Edipo, la più ricca di miti nella Grecia, e morì ad Argo dopo il 446.
Tebe, la città esecrata dai tragici greci, l’anticittà delle Baccanti e dell’Edipo a Colono, è invece amata e celebrata da Pindaro.
Vediamo l’incipit dell’Istmica I : “Madre mia, Tebe dall’aureo scudo, porrò il lavoro per te persino al di sopra della mancanza di tempo (pra'gma kai; ajscoliva~ uJpevrteron-qhvsomai)” (vv. 1-3).

Pindaro cominciò a comporre appunto durante la grande guerra quasi panellenica, ma non prese partito contro i Persiani poiché Tebe non era contraria agli invasori; tuttavia in seguito celebrò le vittorie e l'eroismo dei Greci, al pari del più anziano Simonide dal quale del resto lo divise una forte rivalità come dal nipote di lui, il poeta Bacchilide che era suo coetaneo. Tutti e tre i lirici infatti furono in Sicilia, ospiti dei tiranni di Siracusa e di Agrigento, gareggiando per averne il favore. Pindaro scrisse, in dialetto dorico, liriche corali edite dagli Alessandrini in diciassette libri dei quali ci sono arrivati interi i quattro degli Epinici, composizioni per celebrare gli atleti  vittoriosi nei giochi panellenici: gli olimpici, i pitici, gli istmici, i nemei.
Il primo libro contiene 14 odi (le Olimpiche), il secondo 12 (le Pitiche), il terzo 11 (le Nemee), il quarto 8 (le Istmiche). Del resto dell'opera rimangono circa 150 frammenti.

Sebbene vissuto nel tempo in cui si andava affermando la filosofia e la storiografia con la critica ai miti tràditi, Pindaro fu uno dei campioni della reazione al pensiero illuministico, come Teognide prima e come Sofocle dopo di lui. Infatti il poeta tebano, al pari di Omero, ci fa vedere la dimensione eroica della vita, presentando quali modelli da imitare anzitutto gli dèi, purificati però da quei vizi debolezze e difetti che l'epica, soprattutto l'Iliade, già attribuiva loro ("è naturale per l'uomo dire degli dèi cose belle, minore è la colpa" meivwn ga;r aijtiva, leggiamo nell'Olimpica I , vv. 35-36).
Ma soprattutto Pindaro ha celebrato, sempre con la "dorica lira" (v.18), le gesta e i caratteri degli eroi che devono essere imitati da chi voglia mettere in opera la propria virtù innata, e raggiungere, con il successo nelle imprese, la gloria che tocca ai vincitori negli agoni dei quali era costellata la vita dei Greci. Indegna di essere vissuta è invece l'esistenza ingloriosa e insignificante dei deboli e vili ignari di aretà (virtù, valore) : "Il pericolo grande non prende l'uomo imbelle (oJ mevga~ de; kin-duno~ a[nalkin ouj fw'ta lambavnei). Per coloro ai quali è necessario morire, come uno potrebbe smaltire una vecchiaia anonima seduto nell'ombra invano?"(I Olimpica vv.81-84).
Nel numero ristretto degli eroi rientrano i vincitori delle gare panelleniche e il poeta che li celebra.
L'eroe è prodotto del sangue divino che genera ogni grandezza: negli epinici il vincitore appare come ultimo anello di una catena di dèi e semidèi. Così, nell'Olimpica II, Terone di Agrigento vincitore nella corsa dei carri nei giochi del 476, è posto accanto a Zeus signore di Olimpia, e ad Eracle che fondò le Olimpiadi. Nella stessa ode troviamo un nodo ideologico del poeta: che l'aretà  non è insegnabile, né quella dell'atleta né quella del poeta il quale paragona se stesso all'aquila, il divino uccello di Zeus (v. 89), mentre i suoi rivali, probabilmente Simonide e Bacchilide, che non sono molto sapienti per natura ( 86) bensì "addottrinati" (maqovnte~, v.87) vengono assimilati ai corvi (88) i quali stridono confusamente con mille lingue prolisse.
Pindaro afferma: sofo;~ oJ polla; eijdw;~ fua/' (v. 86), sapiente è chi sa molto per natura.

Nietzsche prosegue su questa linea.
“Il dotto, che in fondo non fa che “compulsare” libri - circa duecento al giorno per il filologo medio - finisce col perdere completamente la capacità di pensare per conto suo. Se non compulsa non pensa… Il dotto - un décadent  - L’ho visto con i miei occhi: nature dotate, ricche e libere, già a trent’anni tutti “morti dal leggere”, ridotti come fiammiferi, che si sfregano perché facciano delle scintille- dei “pensieri”. Bene, per me questo è vizioso!”[1].
“Il filologo è colui che sa leggere e scrivere, il poeta colui che…doveva “dettare”, perché non sa né leggere né scrivere. Da questa opposizione tra dotto nella letteratura e nella scrittura e poeta si possono dedurre molte cose importanti”[2].
Nel capitolo Dei dotti Zarathustra  associa l’ombra alla “casa dei dotti” ai quali si contrappone: “Io sono troppo ardente e riarso dai miei stessi pensieri: spesso mi si mozza il fiato. E allora bisogna che fugga all’aperto, via dal chiuso delle stanze polverose. Loro invece siedono freddi nell’ombra fredda: in tutto non vogliono essere che spettatori e si guardano bene dal mettersi a sedere dove il sole arde i gradini. Simili a quelli che in mezzo alla strada guardano a bocca spalancata i passanti, essi pure aspettano e guardano a bocca spalancata i pensieri che altri hanno pensato”[3].
Quindi: “Guardatevi anche dai dotti! Essi vi odiano: perché sono sterili! Essi hanno occhi freddi e asciutti, davanti a loro ogni uccello giace spennato”[4].
“Di fronte al genio, cioè ad un essere che crea o che dà alla luce…il dotto, l’uomo medio della scienza, ha sempre qualcosa della vecchia zitella: in quanto, come quest’ultima, non ha la minima idea di queste due funzioni umane, che sono le più preziose…il suo occhio assomiglia allora ad un lago liscio e odioso, la cui onda non si increspa a nessun entusiasmo, a nessuna simpatia. Ma le cose peggiori di cui un dotto è capace, gli provengono dall’istinto della mediocrità, propria della sua razza; da quel gesuitismo della mediocrità che incosciamente lavora alla demolizione dell’uomo eccezionale e tende a spezzare ogni arco teso o, meglio ancora, ad allentarne la tensione.”[5].
Dotti sono i filologi: una razza disprezzata da Nietzsche: “L’antichità è stata scoperta in tutte le cose principali da artisti, uomini politici e filosofi, non da filologi, e ciò fino al giorno d’oggi”[6].
“I filologi non sono se non liceali invecchiati”[7]. A volte addirittura dei ginnasiali ammuffiti
“Il nostro assurdo mondo di educatori (dominato dallo schema regolativo di “un utile servitore dello Stato”) crede di cavarsela con l’”istruzione”, con l’ammaestramento del cervello; non gli viene neanche in mente l’idea che occorra dapprima qualcos’altro - educazione della forza di volontà; si fanno esami su tutto, ma non sull’essenziale: se si sappia volere[8].
“Il sole lo maledicono i fiacchi: per loro quel che conta di un albero è l’ombra”[9].
Petronio contrappone l'umbraticus doctor deleterio ai grandi tragici: "Cum Sophocles aut Euripides invenerunt[10] verba quibus deberent loqui, nondum umbraticus doctor ingenia deleverat "[11] quando Sofocle e Euripide trovarono le parole con le quali dovevano parlare, non c'era ancora un erudito cresciuto nell'ombra a scempiare gli ingegni.

Leopardi afferma (Zibaldone , 40) che solo i primi poeti, ossia gli inventori dei generi, poterono essere davvero originali: "Così Omero scrivendo i suoi poemi, vagava liberamente per li campi immaginabili, e sceglieva quello che gli pareva giacché tutto gli era presente effettivamente, non avendoci esempi anteriori che glieli circoscrivessero e gliene chiudessero la vista." Così Eschilo "inventando ora una ora un'altra tragedia senza forme senza usi stabiliti, e seguendo la sua natura, variava naturalmente a ogni composizione".

Pindaro sa che pure sulle stirpi eroiche grava il dolore: chi vive e agisce è destinato a patire; anzi sono soltanto i grandi uomini a vivere veramente, soffrendo veramente. Soffrire è destino, sembrano ripetere le sue odi, ma quale splendore c'è nella vittoria! Il tempo, "padre di ogni evento", distribuisce prosperità e disgrazie, ma queste possono cadere nella dimenticanza grazie ai successi: "lavqa de; povtmw/ su;n eujdaivmoni gevnoit j an, ejslw'n ga;r uJpo; carmavtwn ph'ma qna/skei-palivgkoton damasqevn” (Olimpica II vv. 18-20), dimenticanza in sorte felice può nascere. Infatti sotto nobili gioie la pena muore, recrudescente, domata" (19.).
Il dolore insomma è vincibile con il valore. Sembra riecheggiare questo concetto il fortes fortuna adiǔvat  di Cicerone (Tusc . II, 11), la sorte aiuta i coraggiosi.
A Pindaro interessa fornire stimoli attraverso gli esempi: gli uomini possono vedere nei modelli mitici l'immagine sublimata della loro natura e il poeta ispirato può dire al magnanimo quale sia la sua vera identità cui non deve restare inferiore. "La somma di tutto il pensiero educativo di Pindaro"[12] è  "diventa quello che sei 'gevnoio oi|o~ ejssiv'" (Pitica II  v. 72).
Che cosa ti dice la tua coscienza? Devi divenire quello che tu sei…. Che cosa è il sigillo della raggiunta libertà? Non provare più vergogna davanti a se stessi”[13].
“Ciò che va bene per uno, non per questo può andare bene per un altro, 'il pretendere un’unica morale per tutti equivale a danneggiare precisamente gli uomini superiori', in sostanza, tra uomo e uomo esiste un ordine gerarchico[14].

“Una cosa sola è necessaria. Dare uno stile al proprio carattere: è un’arte grande e rara. L’esercita colui che abbraccia con lo sguardo tutto quanto offre la sua natura in fatto d’energie e di debolezze, e che inserisce quindi tutto questo in un piano artistico. Inversamente si comportano i caratteri deboli, impotenti su se stessi, i quali odiano la disciplina vincolante dello stile. Una cosa sola, infatti, è necessaria: che l’uomo raggiunga l’appagamento di sé. Soltanto allora l’uomo in genere è tollerabile a vedersi. Chi non è pago di se stesso è continuamente pronto a vendicarsene: noialtri saremo le sue vittime, se non altro perché dovremo sempre sopportare la sua spiacevole vista”[15].
Cercare la propria realizzazione significa amare il compimento, la perfezione del proprio destino, il quale, per stravagante che sia, è una piccola parte del fato universale: “La mia formula per la grandezza dell’uomo è amor fati: non voler nulla di diverso, né dietro, né davanti a sé, per tutta l’eternità. Non solo sopportare, e tanto meno dissimulare, il necessario - tutto l’idealismo è una continua menzogna di fronte al necessario - ma amarlo…”[16].
“Ma in fondo, proprio in fondo a noi stessi c’è sicuramente qualcosa che non si può insegnare, un Fatum spirituale granitico, ciò che in fondo a noi non è insegnabile[17].
“Il necessario non mi ferisce; amor fati è la mia intima natura, das ist  meine innerste Natur[18].
Ma torniamo a Pindaro.
Il pessimismo pedagogico per il quale la virtù è congenita,  risulta anche dalla terza Nemea  la quale sostiene  che ha pieno valore soltanto l'uomo nel quale il valore è innato, e chi possiede solo quanto ha appreso è un'ombra vacillante che non avanza mai con piede saldo e assaggia mille cose con animo immaturo (vv. 50 ss).
L'educazione dunque può sviluppare e potenziare il valore innato, ma non crearlo dal nulla. Il poeta è un maestro che frequenta i potenti della terra e ne riceve i  favori, ma non per questo si sente un cortigiano; anzi egli è "l'uomo dalla lingua diritta" (eujquvglwsso~, Pitica II , 86) e il suo simbolo è l'aquila cui tutta l'aria è accessibile.

L'ideale di cultura aristocratica stava tramontando negli anni in cui Pindaro ne trovava le forme compiute, come farà Dante nella sua Commedia  con il mondo feudale che stava cadendo sotto i colpi della borghesia comunale.
Ora vediamo per intero l'Olimpica I  tradotta parola per parola, fin dove è possibile con gli epinici dell'immaginifico poeta tebano.
Fu scritta nel 476 per la vittoria di Ierone signore di Siracusa con il cavallo Ferenico, mentre Terone tiranno di Agrigento vinse la gara più prestigiosa delle quadrighe e venne celebrato con la II e la III Olimpica .

"Ottima è l'acqua (a[riston me;n u{dwr) e l'oro ardendo come
fuoco splende nella notte al di sopra di ogni superba ricchezza;
e se tu vuoi dare voce
alle gare, cuore mio,
smetti di cercare  un altro
astro più caldo del sole, che brilla
di giorno nell'etere deserto,
e non cantiamo un agone più prestante di Olimpia:
da dove l'inno pieno di gloria si lancia intorno
alle menti dei poeti, così che celebrano
il figlio di Crono, giunti al ricco
e felice focolare di Ierone,

che possiede il giusto scettro nella Sicilia
ferace di frutti mietendo le cime da tutte le virtù,
e si adorna anche
nel fiore dei canti
quali sono i carmi che componiamo per diletto, noi uomini
spesso intorno alla mensa ospitale. Avanti, stacca
dal piolo la dorica cetra (dwrivan fovrmigga),
se in qualche modo anche a te la gloria di Pisa e di Ferenīco
ha posto la mente sotto pensieri dolcissimi,
quando lungo l'Alfeo si lanciò con
 il corpo senza sproni nella corsa,
e unì il suo padrone alla vittoria,
il re siracusano
che si allieta dei cavalli; e brilla la sua gloria
nella colonia ricca di prodi del lidio Pelope
del quale si innamorò lo scuotiterra di grande forza
Poseidone, quando Cloto lo tirò fuori
dal puro lebète,
ornato di avorio il fulgido omero.
Certo sono molti i portenti, e in qualche modo, credo, anche le favole (mu'qoi),
diceria dei mortali oltre la verità,
intarsiate di iridescenti bugie (dedaidalmevnoi yeuvdesi poikivloi~),
traggono in inganno.

Il fascino (Cavri~) che foggia tutte le dolcezze per i mortali,
portando onore, procura pure che l'incredibile divenga
credibile, spesso;
ma i giorni a venire (aJmevrai d’ ejpivlopoi)
sono i testimoni più sapienti (mavrture~ sofwvtatoi).
è naturale per l'uomo dire cose belle
dei numi: minore infatti  è la colpa (meivwn ga;r aijtiva).
O figlio di Tantalo, io canterò di te al contrario di quelli di prima  (ajntiva protevrwn).
Quando tuo padre fece inviti al banchetto
ottimamente governato nella cara Sipilo,
offrendo cene di contraccambio agli dèi,
allora ti rapì il Signore dal fulgido tridente,

domato dal desiderio nel cuore, e su cavalli d'oro
ti trasportò all'eccelsa dimora di Zeus largamente onorato;
dove in un secondo tempo
giunse anche Ganimede
per lo stesso servigio a Zeus.
Poiché tu eri sparito, né alla madre ti
 portarono gli uomini sebbene ti cercassero molto,
 subito uno dei vicini invidiosi spargeva di nascosto la diceria
che ti avevano tagliato membro a membro con il coltello
nel culmine bollente dell'acqua sul fuoco,
e al momento dell'ultima portata sulle mense si 
spartirono le tue carni e le divorarono.

Per me è inconcepibile chiamare
ghiotto uno dei beati: me ne tengo lontano;
una perdita tocca spesso ai malèdici.
Ma se mai i protettori dell'Olimpo onorarono un uomo
mortale, era Tantalo questo; però 
di fatto non seppe
digerire la grande felicità (ajlla; ga;r katapevyai mevgan o[lbon oujk ejdunavsqh), e con la sazietà attirò
un accecamento (a[tan) pieno di prepotenza, e su di lui
il padre sospese un macigno pesante,
che egli desidera sempre stornare dal capo
ed erra lontano dalla gioia.

Egli ha questa miserabile vita inchiodata  ai travagli
con le tre, una quarta pena, poiché dopo avere derubato gli immortali,
diede ai coetanei convitati
nettare e ambrosia,
 con i quali avevano reso immortale
anche lui. Se un uomo spera di fare qualcosa
sfuggendo a dio, si sbaglia.

Per questo gli immortali gli inviarono il figlio di nuovo,
 un'altra volta alla stirpe degli uomini dal destino che cade veloce (to; tacuvpotmon ajnevrwn e[qno~).
Verso l'età fiorente quando
la peluria lo copriva nel mento che diveniva nero,
pensò a un matrimonio pronto
sì da ottenere dal padre signore di Pisa l'illustre
Ippodamia. Andato vicino al mare canuto, solo nella tenebra
invocava il dio del tridente
dal grave rimbombo; quello gli
apparve vicino al piede.
Allora gli disse: "Se i cari doni di Cipride
rimangono in qualche modo nella tua gratitudine,
avanti, Poseidone, inceppa la lancia di bronzo di Enomao (pevdason e[gco~ Oijnomavou cavlkeon),
e fammi giungere in Elide sul carro
più veloce, e avvicinami alla vittoria.
poiché dopo avere ucciso tredici
 pretendenti, procrastina le nozze
della figliola. Il grande pericolo
non prende un uomo imbelle (oJ mevga~ de; kivnduno~ a[nalkin ouj fw'ta lambavnei).
Per quelli per i quali morire è necessario, perché uno dovrebbe
smaltire invano una vecchiaia anonima seduto nell'ombra
senza parte di tutte le cose belle? (ajpavntwn kalw'n a[mmoro~), ma questa
gara giacerà sotto di me: tu dammi propizio l'evento".
Così diceva; né lo toccò con parole
senza effetto. E il dio onorandolo
gli diede un cocchio d'oro e cavalli
infaticabili per le ali.

Poi vinse la violenza di Enomao e la ragazza in moglie:
generò sei figli condottieri di popoli, bramosi di gloria.
Ora è mescolato90
a splendidi sacrifici di sangue che saziano,
giacendo sulla corrente dell'Alfeo,
con una tomba frequentata presso
l'altare dai moltissimi stranieri; e la gloria
di Pelope da lontano brilla negli stadi degli agoni
Olimpici dove gareggia velocità di piedi
e vertici ardimentosi di forza;
e il vincitore per il resto della vita
ha una dolce serenità

per le gare: il bene che dura continuo ogni giorno
sale più alto per ciascuno dei mortali. Bisogna
che io lo inghirlandi
secondo il canto equestre
con armonia eolica:
sono convinto che nessun
ospite, almeno tra i contemporanei, il quale
sia nel tempo stesso, da ambedue i lati,
conoscitore del bello (kalw'n te i[drin), e molto autorevole quanto a potenza,
potrò celebrare con le inclite volute degli inni.
Un dio che ti protegge si prende cura delle tue ambizioni
avendo questa sollecitudine, Ierone;
se non ti abbandona presto,
spero di poter celebrare
un'ambizione ancora più dolce

legata al cocchio veloce
dopo avere trovato una via soccorritrice di parole
giunto presso il colle di Crono che si vede da lungi. Per me comunque
la Musa nutre con forza un potentissimo strale;
chi è grande in un campo chi in un altro: ma
la cima più alta si solleva
per i re. Non lanciare sguardi ancora più in là.
Sia possibile che tu in questo tempo muova i passi in alto,
e che io altrettanto a lungo frequenti
i vincitori, dappertutto, segnalato
per maestria fra i Greci".

Questi versi non sono facili e richiedono un commento.
Come gli altri epinici, la prima Olimpica parte dall'attualità, risale al mito e giunge alla riflessione etico pedagogica di valore perennemente attuale.
Il poeta è eternatore della gloria dei vincitori negli agoni panellenici, ma è anche maestro di un popolo, anzi di tutta l'umanità dagli alti sentimenti. L'attualità è costituita dalla vittoria di Ferenico il cavallo di Ierone, signore di Siracusa e protettore di Pindaro, nella gara del cavallo montato. Essa fu cantata anche dal V epinicio di Bacchilide.
Il mito centrale è quello di Pelope, il figlio di Tantalo amato da Poseidone e aiutato dal dio, riconoscente, a sconfiggere Enomao, tiranno di Pisa (località prossima ad Olimpia), nella gara affrontata per ottenere la mano di Ippodamia, la  figlia del despota il quale sfidava tutti i pretendenti della ragazza in una corsa di carri e, dopo averli battuti, li uccideva. L'attesa del cimento è raffigurata in pietra nel frontone orientale del tempio di Zeus ad Olimpia, ora situato nel museo. Vi si vede anche l'auriga di Enomao, Mirtilo, che truccò la competizione mettendo perni di cera nella ruota del cocchio del tiranno, quindi fu ucciso dallo stesso Pelope ingrato. Ma questo, Pindaro non lo racconta, siccome vuole purificare i suoi dèi e i suoi eroi. Anche il mito di Tantalo infatti viene modificato: non è vero che fu condannato a pene eterne poiché aveva imbandito il figlio Pelope, cucinato, ai numi suoi ospiti, infatti gli dei non sono cannibali, ma venne punito perché era un privilegiato che, non sapendo smaltire la sua fortuna, si insuperbì. 

In diverse occasioni Pindaro afferma il credo che non bisogna dire male degli dèi. Per esempio nell'Olimpica IX  leggiamo: "Diffamare gli dei è odiosa sapienza (ejpei; tov ge loidorh'sai qeouv" ejcqra; sofiva, vv. 37-38), con un ossimoro che denuncia la critica filosofica dei miti, una lapidaria affermazione di ultratradizionalismo che sarà ripresa dall'Euripide postfilosofico o antifilosofico delle Baccanti: "Il sapere non è sapienza" (v.395), canta il coro delle menadi, quindi si augura di "tenere il cuore e la mente lontani dagli uomini straordinari, per accettare quello che il popolo più semplice pensa e crede" (vv. 427-432). Ebbene, il tradizionalismo aristocratico di Pindaro è meno lontano dalle credenze popolari che dalla sapienza intellettualistica degli "uomini straordinari".
Del resto la sapienza e le arti non sono a portata di tutti ma sono "impervie" (Olimpica IX, 108).
La figura umana di Pelope, grazie all'eroismo, si avvicina a quelle divine, dunque, e se soltanto "sogno di ombra è l'uomo" (skia`~ o[nar a[nqrwpo~, Pitica VIII, 95-96) questo può tuttavia raggiungere l'immortalità attraverso la rinomanza delle sue imprese, e può conseguire anche la felicità eterna con un comportamento morale, mondo da colpe gravi quali spergiuri e inganni: quanti hanno vissuto tre vite pure, senza commettere ingiustizia, afferma il poeta nella seconda Olimpica, scritta probabilmente sotto l'influenza delle teorie orfico-pitagoriche assorbite in Sicilia, dimorano lietamente nelle isole luminose dei beati dove "bruciano fiori d'oro" (a[nqema de; crusoou` flevgei v.73).
L’assimilazione dell'uomo al dio non rimane isolata nella cultura greca, ma si ritrova  nelle sculture di Mirone e di Policleto, quindi prosegue nella suprema dignità conferita da Fidia alla figura umana.
Mirone, nato in Beozia anche lui, fiorito intorno alla metà del V secolo, nel Discobolo  raffigura quell'altezza dell'ideale agonale destinata a cadere quando l'agonismo, già al tempo dell'ultimo Euripide, diverrà professionistico e venale, fatto che avrebbe attirato gli strali irati di Pindaro i quali infatti nel'Istmica II invoca la "Musa non interessata né mercenaria" (v.6).
Policleto con il Doriforo (del 440 circa), mostra, tra l'altro, quella unità dell'anima e del corpo umani che per noi è andata irrimediabilmente perduta.
Nella Nemea V (vv. 1-3) Pindaro però afferma la propria superiorità sullo scultore che crea figure  immobili sopra i loro piedistalli. La gara o la posa atletica per questi artisti ha un significato anche metafisico poiché l'agonista sforzandosi di conseguire la perfezione della propria virilità realizza un imperativo religioso. Leopardi e Nietzsche scrivono parole piene di ammirazione sugli agoni greci.
Il poeta di Recanati (Zibaldone, 328-329) nota la differenza "tra i giuochi greci e i romani" per mettere in rilievo"la naturalezza dei primi che combattevano nella lotta nel corso ec. appresso a poco coi soli istrumenti datici dalla natura, laddove i romani colle spade e altri istrumenti artifiziali. E quindi la diversa destinazione di quei giochi, diretti presso gli uni ad ingrandir quasi la natura ed eccitare le grandi immagini, sentimenti ec.; presso gli altri o al semplice sollazzo, o all'addestramento militare".
Nietzsche, in Umano troppo umano scrive: "Poiché il volere vincere e primeggiare è un tratto di natura invincibile, più antico e originario di ogni gioia e stima di uguaglianza. Lo stato greco aveva sanzionato fra gli uguali la gara ginnastica e musica, aveva cioé delimitato un'arena dove quell'impulso poteva scaricarsi senza mettere in pericolo l'ordinamento politico. Con il decadere finale della gara ginnastica e musica, lo stato greco cadde nell'inquietudine e dissoluzione interna"[19].

Gli epinici di Pindaro hanno anche una valenza religiosa: sono inni cultuali che trattano di cose venerande. E il poeta, mentre santifica il vincitore, perviene alla sua altezza; il celebrato e il celebratore, il laudandus e il laudator, secondo la concezione dell'antico aedismo, salgono insieme sopra una vetta splendidamente soleggiata da dove è possibile volgere lo sguardo al significato della vita umana.
La vittoria infatti esige il canto che è un debito del poeta all'atleta (Olimpica III, 7) e alla stessa dike: "lodare il valente è fiore di giustizia", leggiamo in Nemea III , 29. Dunque l'aretà che brilla nella vittoria non può rimanere "nascosta a terra in silenzio" (Nemea IX , 7).
Il cantore ispirato, toccando le cose mortificate dall'uso, le ravviva e restituisce loro il pregnante significato originario, purché "la lingua attinga dal fondo dell'anima con il favore delle Grazie" (Nemea IV, 7-8). Fondamentale è il nesso Vittoria-Canto, mentre la gara non viene narrata. Se vogliamo leggere la descrizione di una corsa di cocchi veloci ai giochi pitici dobbiamo cercarla nell'Elettra di Sofocle dove (vv. 680-763) si racconta, falsamente, la morte di Oreste in un incidente. Pindaro volge piuttosto l'attenzione all'uomo che ha manifestato aretà suprema e perciò viene collocato, non quale individuo ma come incarnazione della virtù, sull'altare costruito dalla poesia che è "tesoro di inni" (Pitica VI , 7-8), un tempio adorno di colonne (Olimpica VI , 1-3) e doni votivi. Il poeta allora è il sacerdote, il profeta della bellezza del mondo, il quale è intessuto con fili d'oro poiché vi si annida il divino; Pindaro non racconta, come gli altri lirici, i suoi sentimenti personali, ma scopre l'immanenza dell'ideale nel reale.
Pindaro è il primo autore a suggerire di acciuffare  il kairov~ , l’occasione. “A ogni cosa conviene la misura: e l’occasione è ottima a comprenderla” (Olimpica XIII, vv. 47-48).
Vediamo altre occorrenze di questo topos.
Isocrate[20] nel manifesto della sua scuola, Contro i sofisti [21] afferma che difficile non è tanto acquisire la conoscenza dei procedimenti retorici, quanto non sbagliarsi sul momento opportuno per usarli: "tw'n kairw'n mh; diamartei'n"( 16).
Già Oreste nell'Elettra di Sofocle, dove si tratta di vita o di morte, conclude il suo primo discorso affermando che l'occasione è sovrana: "kairo;" gavr, o{sper ajndravsin mevgisto" e[rgou pantov" ejst j ejpistavth"" (vv. 75-76),  l'occasione infatti è appunto per gli uomini la più grande presidente di ogni agire.
Cicerone suggerisce di usare il vocabolo occasio per tradurre il greco eujkairiva che designa il tempus actionis opportunum, il tempo opportuno di un'azione[22].  
Nell’Antonio e Cleopatra Menas decide di non seguire più l’indebolita fortuna di Sesto Pompeo che ha perso l’occasione di sbarazzarsi dei suoi nemici: “Who seeks and will not take, when once ‘tis offer’d, Shall never find it more” (II, 1), chi cerca e non prende qualcosa una volta che viene offerta, non la troverà mai più.
Non bisogna dunque dimenticare che l'occasione "è calva di dietro"[23].
Marlowe risale forse a Fedro (V, 8) che ricorda come gli antichi foggiarono l’immagine del Tempo un uomo calvus, comosa fronte, nudo occipitio. Tale immagine (effigies) occasionem rerum significat brevem. 
Infine Nietzsche: “Forse il genio non è affatto così raro: sono rare le cinquecento mani che gli sono necessarie per dominare il kairov~, “il momento opportuno”, per afferrare per i capelli il caso!”[24].

Concludo riferendo le  parole conclusive della relazione di Piero Boitani: “Ogni cosa ha la sua misura, e dunque conoscere il kairo~, ciò che è “a proposito”, è la cosa migliore (Olimpica XIII). Ma “breve misura è, per gli uomini, / il momento opportuno” (Pitica IV).Allora, finalmente capiamo perché un’ode pindarica si presenta così varia, molteplice, tesa, colorata, compatta; perché così brevi e fulminanti sono i racconti dei miti, le allusioni alla storia e alle radici ancestrali della Grecia. Non solo perché biasimo, sazietà e invidia altrui obbligano alla scelta e al volo: ma perché, come qualcosa che sovrasta e determina e s’accorda a tutto ciò, il kairov~ “che di ogni cosa tiene la cima” è, per gli uomini breve misura. Abbiamo soltanto poche vere occasioni, rare opportunità, attimi. Il poeta, poi, ne ha ancora di meno: perché all’evento, all’agone sportivo, deve trovare corrispettivo appropriato, investire di permanenza un trionfo effimero. Il poeta deve cogliere il kairov~ nel kairov~ e ricamare su questo incontro un arazzo variopinto e denso: distillarne un liquido puro e primigenio come l’acqua: forgiare una cetra lucente e preziosa come l’oro, accendere un fuoco che rifulge nella notte, cercare nel giorno l’astro del sole, ardente nell’etere desero: comporre, insomma, le Olimpiche”.
Spero di avere dato l’occasione a chi non conoscesse ancora Pindaro di avergli suggerito la tentazione di leggerlo. E’ un’ occasione per accrescere la propria umanità.

giovanni ghiselli


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[1] Ecce homo, perché sono così accorto, 8.
[2] Frammenti postumi 1876 (23).
[3] Così parlò Zarathustra, Dei dotti.
[4] Così parlò Zarathustra, Dell’uomo superiore, 9
[5] Di là dal bene e dal male, Noi dotti.
[6] Frammenti postumi ottobre 1876 (4).
[7] Op. cit (6)
[8] Frammenti postumi, autunno 1887, 165
[9] La gaia scienza, Scherzo, malizia e vendetta, 6.
[10] Invenerunt e il successivo deberent significano da una parte inventiva e fantasia, dall'altra
la non meno necessaria disciplina che più avanti infatti viene rimpianta.
[11]Satyricon, 2.
[12] Jaeger, Paideia , I vol., p.391.
[13] Nietzsche,  La gaia scienza, libro terzo, 275.
[14] Di là dal bene e dal male, Le nostre virtù.
[15] La gaia scienza, libro quarto, 290.
[16] Ecce homo, perché sono così accorto, 10
[17] Di là dal bene e dal male, Le nostre virtù.
[18] F. Nietzsche, Ecce homo, Il caso Wagner,  4
[19] Parte seconda, Il viandante e la sua ombra, 226
[20] 436-338 a. C.
[21] Del 390.
[22] De officiis, I, 142.
[23] C. Marlowe, L'ebreo di Malta, V, 2.
[24] Di là dal bene e dal male, p. 203.

2 commenti:

  1. ottima è la notizia e ottimo chi scrive
    alessandro

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  2. in un mondo di " corvi che stridono confusamente con mille lingue prolisse " o di gesuiti della mediocrità, mi piace volare alto con il poeta Pindaro come fa l'aquila di Zeus
    Margherita

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