Francisco de Goya, Las Parcas, o Átropos |
Un augurio per l’anno 2014 ai miei 123641 lettori
Voglio rivedere e illustrare questo mito che mi sta molto a
cuore poiché insegna che dobbiamo restare fedeli al nostro carattere una volta
che l’abbiamo scelto, ossia individuato tra le varie possibilità.
Er, Panfilio di stirpe, era morto in guerra, ma al
dodicesimo giorno, quando si trovava già sulla pira, tornò in vita e raccontò quello che aveva
visto nell’aldilà (Platone, Repubblica,
614b).
Er disse che l’anima, quando esce dal corpo, si incammina, con molte altre, verso un luogo
soprannaturale eij~ tovpon tina; daimovnion , un prato, dove ci sono due
voragini (cavsmata. 614c) contigue,
nella terra, e altre due nel cielo di
fronte, in alto.
In mezzo a queste aperture siedono dei giudici i quali
ordinano ai giusti di procedere in alto a destra attraverso il cielo (eij~ dexiavn te kai; a[nw dia; tou` oujranou`) e agli ingiusti di precipitare in basso a
sinistra.
A Er i giudici dissero che doveva osservare e divenire
nunzio agli uomini delle cose
dell’aldilà (a[ggelon ajnqrwvpoi~ genevsqai
tw`n ejkei`, 614d).
Er dunque vedeva parte delle anime giudicate che salivano
verso il cielo per una delle due voragini volte in alto, parte scendevano nella
terra attraverso la voragine aperta verso il basso, mentre dalle altre due
aperture contigue scendevano dall’alto anime pure, e salivano dal basso anime
piene di lordura e di polvere (ejk th`~
gh`~ mesta;~ aujcmou` te kai; kovnew~).
Le anime giunte sul prato (eij~
to;n leimw`na, 614e) vi si attendavano come per un consesso festoso e si
salutavano, quante si conoscevano.
Quelle che venivano da sotto terra rievocavano piangendo il
loro viaggio ipogeo di mille anni (ei\nai
de; th;n poreivan cilievth, 615).
Quelle che venivano dal cielo invece facevano un racconto di
delizie e di spettacoli straordinari per la bellezza (eujpaqeiva~ dihgei`sqai kai; qeva~ ajmhcavnou~ to; kavllo~).
I puniti raccontavano che di ogni ingiustizia avevano pagato
il fio dieci volte tanto, ossia avevano subito dolori dieci volte maggiori di
quelli inflitti, e i premiati corrispettivamente ricordavano che pure i
benefici erano stati ricompensati in misura dieci volte maggiore.
Più grandi erano le retribuzioni per l’empietà e la pietà
verso gli dèi e i genitori e per le uccisioni di propria mano.
Il giudizio delle anime nel Gorgia di Platone.
Nel Gorgia c’è il racconto del giudizio delle anime. In
questo dialogo platonico Socrate dice a Callicle, il sofista fautore del
diritto del più forte, che al tempo di
Crono e all’inizio del regno di Zeus, c’erano giudici viventi che giudicavano
uomini ancora vivi, emettendo sentenze nel giorno in cui era destino che i
giudicati morissero. Ma i giudizi erano errati (kakw`~
ou\n aiJ divkai ejkrivnonto, 523b). Così succedeva che nel carcere del
Tartaro finissero i giusti e nelle isole dei beati i malvagi. Zeus comprese che
gli errori giudiziari dipendevano dal fatto che i giudici vivi emettevano sentenze su dei vivi,
e questi potevano trarre in inganno poiché
le anime malvagie erano rivestite con
corpi attraenti, autorizzate da stirpi illustri, coperte da ricchezze, e
aiutate da molti testimoni che davano false testimonianze (523c).
I giudici ne
restavano impressionati e condizionati.
Allora Zeus disse che gli uomini non dovevano conoscere in
anticipo il giorno della loro morte. Inoltre sarebbero stati giudicati del
tutto privi di orpelli, cioè da morti. Anche il giudice doveva essere nudo e
morto, così da penetrare direttamente con lo sguardo nell’anima di ciascun giudicato.
E veniva vietato il seguito di parenti.
Zeus designò quali giudici
tre figli suoi: Minosse[1] e
Radamanto[2]
provenienti dall’Asia, Eaco[3] dall’Europa. Il giudizio doveva avere luogo
nel prato di asfodeli, ejn th`// triovdw/
ejx h|~ fevreton tw; oJdwv (524a) nel triodo dal quale si dipartono due
vie: una porta all’isola dei beati, l’altra al Tartaro[4].
Socrate prosegue il racconto ricordando a Callicle che i
cadaveri conservano segni della vita vissuta. Se uno da vivo aveva le membra
rotte o contorte (kateagovta mevlh h]
diestrammevna, 524c), tali deformità sono evidenti anche nel
cadavere. Ebbene, questo avviene anche
per l’anima che prende delle segnature secondo il modo di comportarsi degli
uomini.
Quando il Gran Re d’Asia, per esempio, o un altro sovrano si
presenta davanti a Radamanto, questo vede che l’anima di molti dinasti è piena
di piaghe (oujlw`n mesthvn) causate
da spergiuri e ingiustizia (uJpo;
ejpiorkiw`n kai; ajdikiva~, 525a) che marchiano l’anima.
Tutto è distorto dalla menzogna e dalla impostura e non c’è nulla di retto poiché l’anima è
cresciuta lontana dalla verità (panta
skolia; uJpo; yeuvdou~ kai; ajlazoneiva~ kai; oujde;n eujqu; dia; to; a[neu
ajlhqeiva~ teqravfqai).
Radamanto vedendo
l’anima piena di disordine e bruttura (ajsummetriva~
te kai; aijscrovthto~ gevmousan), la caccia direttamente e con ignominia
in carcere, dove subirà i giusti patimenti.
Le anime curabili, qui nella terra e nell’Ade, traggono
giovamento dalle sofferenze e dai dolori. E’ il tw`/
pavqei mavqo~ di Eschilo[5].
Ma ci sono anche quelli che hanno coomesso ingiustizie
estreme e per queste sono diventati incurabili (ajnivatoi525c),
ebbene questi restano sospesi nel carcere dell’Ade a fare da esempi negativi:
la visione delle loro pene diventa un monito per quelli che li vedono. La
maggior parte di questi esempi negativi sono tiranni, re, dinasti e politico.
Omero ha voluto significare questo collocando tra i tormenti dell’Ade Tantalo, Sisifo e
Tizio[6].
Tersite e altri che furono malvagi da privati cittadini, non subiscono pene
eterne. Socrate ne deduce che i più malvagi appartengono al numero dei potenti,
anche se non è detto che tutti i potenti siano dei farabutti. Alcuni sono delle
eccezioni alla regola della loro casta e sono da ammirare poiché è meritorio
vivere da persone giuste avendo la possibilità di fare del male.
Del re di Persia in precedenza Socrate aveva detto a Polo
che ignorava se fosse felice in quanto non sapeva come stesse a educazione e a
giustizia (ouj ga;r oi\da paideiva~ o{pw~
e[cei kai; dikaiosuvnh~, 470e). Sono questi i criteri di giudizio della
felicità.
Ma torniamo alla Repubblica
platonica e al mito di Er.
Un esempio negativo molto evidente di cui Er aveva sentito
dire era quello del grande criminale Ardieo ( jArdiai`o~
oJ mevga~, 615 c). Costui era diventato tiranno in una città della
Pamfilia, mille anni prima, e aveva ucciso padre, fratello, non senza molte
altre scelleratezze. Chi l’aveva incontrato disse che quell’orribile criminale
non sarebbe mai arrivato nel prato del consesso festoso. Infatti era uno di
quelli così inguaribilmente malvagi (ti~
tw`n ou{tw~ ajniavtw~ ejcovntwn eij~ ponhrivan, 615c) che non potevano
risalire. La maggior parte di questi incurabili erano tiranni. Quando si
avvicinavano alla bocca d’uscita, questa emetteva un muggito (ejmuka`to)
Allora intervenivano uomini a[grioi,
diapuvroi ijdei`n (615 e) selvaggi, infuocati a vedersi che afferravano tali delinquenti e li portavano
via. I pessimi come Ardieo , venivano legati mani, piedi e testa, buttati a
terra, scorticati, trascinati fuori strada su piante spinose e gettati nel
Tartaro.
Dopo sette giorni passati nel prato dunque, le anime
dovevano viaggiare per quattro giorni finché giungevano in un luogo da dove
vedevano dall’alto una luce diritta (fw`~
euquv) distesa per tutto il cielo
e la terra (dia; panto;~ tou` oujranou`
kai; gh`~) come una colonna (oi|on
kivona, 616c), molto simile all’arcobaleno, ma più fulgida e pura.
Questa è l’anima del mondo.
Le anime degli umani camminavano un altro giorno e, arrivati
a metà della luce, vedevano teso dalle due estremità il fuso di Ananche (ejk de; tw`n a[krwn tetamevnon jAnavgkh~ a[trakton), l’asse
dell’universo attraverso cui avvengono tutti i movimenti circolari. Il fuso
aveva otto fusaioli (ojktw; ga;r ei\nai
tou;~ xuvmpanta~ sfonduvlou~, 616d), i contrappesi del fuso, racchiusi
gli uni negli altri.
Questi fusaioli rappresentano il cielo delle stelle fisse e
i sette pianeti. Partendo dall’esterno: Stelle fisse, Saturno, Giove, Marte,
Mercurio, Venere, Sole, Luna. Così nel Timeo.
E’ l’ordine pitagorico.
Il fuso si volgeva sulle ginocchia di Ananche.
Su ognuno dei fusaioli circolari che rotavano lentamente
incedeva in alto una Sirena sumperiferomevnhn
(617b) tratta anch’essa nel moto circolare mentre emetteva una voce in
armonia con quella delle altre sette.
Le Sirene
“Chi sono veramente le Sirene? Esseri oscuri del mondo
sotterraneo, come voleva Platone nel Cratilo?[7] O,
come Platone stesso, con esemplare sublimazione ed implicita auto-decostruzione,
proponeva nella Repubblica, esseri
celesti che intonano la musica delle sfere nel mondo futuro[8];
quindi, per un’età successiva, ‘angeli’? Simboli del desiderio mondano e del
piacere dei sensi, cortigiane e prostitute, come credeva l’ellenismo, o icone del
sapere, sul tipo delle doctae sirenes
celebrate da Ovidio?”[9].
Ovidio nel V libro delle Metamorfosi
racconta che le doctae Sirenes,
figlie di Acheloo, erano compagne di Proserpina quando la figlia di Demetra
sparì, cum legeret vernos Proserpina flores (v. 554), mentre raccoglieva i
fiori primaverili. Come la Kore
scomparve, rapita da Plutone, le Acheloidi la cercarono per tutta la terra, poi
vollero volare sul mare sperando di rintracciarla.
Per questo divennero
alate. Ma conservarono volti virginei e voce umana (563), perché non perdessero
la facoltà del canto, ille canor mulcendas natus ad auras (561), fatto
per incantare gli orecchi.
Nell’ultimo libro delle Argonautiche
di Apollonio Rodio, Orfeo con il suo
canto neutralizza quello delle Sirene appostate sull’isola Antemoessa,
usualmente identificata con degli scogli
vicini a Sorrento. Esse sembravano in parte uccelli e in parte giovani donne,
incantavano e uccidevano con il loro canto, ma la cetra di Orfeo ebbe la meglio
sulla voce delle fanciulle che mandavano suoni indistinti. Soltanto Bute ne fu
affascinato e saltò in mare: le Sirene lo avrebbero ucciso, ma lo salvò
Afrodite, la dea protettrice di Erice e gli assegnò il promontorio Lilibeo per
dimora. (Argonautiche, 4, 892 sgg.).
Sembra che Apollonio voglia indicare una contrapposizione tra musica
benigna e maligna.
Ma torniamo al X libro della Repubblica di Platone.
Le anime dunque vedevano l’asse dell’universo.
Le Moire
Sedevano in trono tre persone diverse dalla folla: le figlie
di Ananche, le Moire vestite di bianco e con dei serti (stevmmata, 617c) sul capo.
Queste sono Lachesi, Cloto e Atropo che cantavano
sull’armonia delle sirene.
Lachesi cantava ta; gegonovta, il passato, Cloto ta; o[nta, il presente, Atropo ta; mevllonta, il futuro.
Le tre Moire[10]
accompagnavano con la mano i moti del fuso.
Le anime dovettero presentarsi a Lachesi, quella che dà le
sorti.
Quindi un portavoce (profhvth~)
dispose in fila la folla, poi prese
delle sorti, dei modelli di vita dalle ginocchia di Lachesi.
Infine il profhvth~
, salito su un’alta tribuna, diede voce al pensiero di Lachesi, la vergine
figlia di Ananche ( jAnagkh" qugatro;" kovrh"
Lacevsew" lovgo~).
Disse: “Questo è
l’inizio di un altro ciclo di mortalità
della razza mortale, e non sarà il demone a sorteggiare voi, bensì voi
sceglierete il demone (“ oujc uJma'"
daivmwn lhvxetai, ajll j uJmei'" daivmona aiJrhvsesqe" (617 e).
Chi è sorteggiato a scegliere per primo, prenda per primo la
vita cui sarà congiunto”.
La parola di Lachesi aggiunge
che la virtù è senza padrone (ajreth; de;
ajdevspoton, 617e) e ciascuno ne avrà di più o di meno, a seconda che la
apprezzi o la disprezzi. Responsabile è chi ha fatto la scelta[11], non
la divinità” (aijtiva eJlomevnou: qeo;~
ajnaivtio~ (617 e).
Riferite queste parole, il portavoce di Lachesi gettò le
sorti con il turno della scelta, e ognuno tirò su quella che aveva vicino. Er
non poté farlo.
Quindi il prfhvth~
mise in terra davanti a loro svariati modelli di vite: umane e di animali.
C’erano vite di tutti i tipi, e anche mescolanze di tipi.
Il profhvth~
aggiunse che anche chi sceglieva per primo non doveva essere negligente e
l’ultimo non doveva scoraggiarsi ma
scegliere con senno: mhvte oJ a[rcwn
aiJrevsew~ ajmeleivtw mhvte oJ teleutw`n ajqumeivtw (619b).
Socrate che fa questo racconto dice a Glaucone che bisogna
studiare soprattutto come scegliere la
migliore tra le vite possibili.
Buona è la vita che tende alla giustizia, cattiva quella che
va verso l’ingiustizia. Bisogna essere refrattari a lasciarsi colpire dalle
ricchezze e da simili malanni come la tirannide. Bisogna fuggire tutti gli
eccessi in entrambi i sensi (feuvgein ta;
ujperbavllonta eJkatevrwse, 619).
Er raccontò che il primo scelse la tirannide senza
accorgersi che questa racchiude il destino di mangiare i propri figli e altre
sciagure. Poi se ne avvide e si mise a piangere. Quest’uomo veniva
dall’apertura nel cielo poiché aveva vissuto la vita precedente in uno Stato
bene ordinato praticando la virtù, per abitudine, senza filosofia (e[qei a[neu filosofiva~, 619d).
Era più facile che scegliessero precipitosamente e
sbagliassero quelli scesi dal luogo beato, in quanto inesperti di travagli (a{te povnwn ajgumnavstou~), mentre quelli
che venivano dalla terra, siccome erano tribolati e avevano visto altri
soffrire, non facevano la scelta ejx
ejpidromh`~ in modo affrettato.
Di nuovo il tw`/ pavqei
mavqo~.
Così c’era una permuta di beni e di mali.
Ma se uno in vita filosofa, poi la sua scelta non cade tra
le ultime, è facile che quest’uomo abbia due buone vite di seguito.
Comunque, dice Er, lo spettacolo era degno di essere visto,
uno spettacolo pietoso, ridicolo e meraviglioso (qevan
ajxivan ijdei`n kai; geloivan kai; qaumasivan, 620).
Vediamo però che la
scelta non è però del tutto libera siccome è condizionata dalle quantità di
sorti rimaste disponibili quando tocca
scegliere a ciascuno secondo
il numero d’ordine raccolto in
precedenza. Inoltre le anime erano condizionate
dalle esperienza fatte nella vita precedente.
Vediamo come.
Aiace Telamonio scelse la vita di un leone poiché rifuggiva
dal nascere uomo in quando ricordava il giudizio delle armi (620b).
Agamennone, per avversione al genere umano, scelse la vita
di un’aquila. Orfeo, scelse la vita di
un cigno non volendo nascere da grembo di donna mivsei
tou` gunaikeivou gevnou~ , in odio del genere femminile per la
morte sofferta dalle donne[12].
Il buffone Tersite scelse la natura di una scimmia.
L’anima di Odisseo, prese la sorte per ultimo e, guarito da
ogni ambizione per il ricordo dei travagli precedenti, scelse la vita di un
uomo privato e amante del quieto vivere ("bivon
ajndro;" ijdiwvtou ajpravgmono"", Repubblica 620c).
La trovò messa da parte e negletta dagli altri, ma disse che
l’avrebbe presa anche se avesse dovuto fare la scelta per primo.
Quindi Lachesi diede a ciascuno come custode (fuvlaka) il demone (daivmona, 620d) che si era scelto. Poi
Cloto Atropo e Ananche confermavano le
scelte e le rendevano immutabili.
In seguito le anime
venivano portate attraverso una
terribile calura e arsura fino al fiume Amelete perché ne bevessero l’acqua.
Una certa misura era obbligatoria. I meno prudenti ne bevevano più della misura
(plevon tou` mevtrou, 621) e mentre
bevevano scordavano tutto. Infine si addormentavano, scoppiava un tuono e le
anime venivano spinte a una nuova nascita cui si lanciavano come stelle
cadenti.
A Er era stato
impedito di bere e non sapendo come, si era trovato il mattino sulla pira. Socrate
commenta il mito con poche parole dicendo che per entrare nell’apertura e nella
via che va in alto bisogna praticare sempre la giustizia in modo da essere cari
a noi stessi e agli dèi qui in terra e dopo, nel viaggio millenario di cui si è
detto (621d)
Questo mito è un’immagine concentrata del nostro destino di
mortali. A me piace molto, e pur essendo una fantasia, credo che la sua
bellezza contenga anche una verità: che noi dobbiamo vivere in sintonia con il
nostro daivmwn che è il destino ed è
pure il carattere.
Eraclito
con il suo stile ieratico e lapidario insegna che l’uomo e il suo
destino coincidono: “ h\qo~ ajnqrwvpw/
daivmwn[13]”.
Se davvero noi abbiamo scelto sia pure con delle
limitazioni, il verso di questa vita prima di nascere, non lo so. So però che
ciascuno di noi eredita delle predisposizioni e che sta in ciascuno di noi
assecondarle o contrastarle secondo la direzione (trovpo~)
che intendiamo dare alla nostra vita. Voglio fare notare che la parola greca trovpo~ significa tanto “verso”,
“direzione”, quanto carattere.
Il nucleo dell’infelicità è tradire il proprio destino.
Se veniamo rinnegati dal nostro demone,
non c’è scampo all’infelicità.
"Qui, proprio qui, sta l'origine
dell'infelicità…Avvertiamo allora lo squilibrio tra il nostro essere in potenza
e il nostro essere in atto. E questa, questa è l'infelicità"[14].
"Molti provavano, per un istante, una penosa tristezza
perché tra la loro vita e i loro istinti c'era un tale dissidio, un tal
conflitto che la loro vita non era affatto una danza, bensì un faticoso e
affannato respirare sotto i pesi: pesi che in fin dei conti essi stessi si
erano accollati"[15].
“Nessuna creatura è
più squallida e ripugnante dell’uomo che è sfuggito al suo genio”[16].
Sconcio in greco
si dice ajeikhv~, ossia non eijkov~ che
è la cosa neutra che non assomiglia, è l’uomo oggetto
non somigliante a se stesso.
Ognuno deve individuare il proprio destino, o ricordarlo
secondo il mito di Er, quindi amarlo poiché ciascuno è il proprio destino e l’uomo, se vuole realizzarsi, deve diventare quello che è.
Lo prescrive la somma del pensiero educativo di Pindaro: “gevnoio
oi|o~ ejssiv” (Pitica II v. 72), diventa quello
che sei.
Sentiamo anche Nietzsche
“ Il necessario non mi ferisce; amor
fati è la mia intima natura, das
ist meine innerste Natur ”[17].
“L’individuo è un frammento di fato da cima a fondo”[18].
"Il fatalismo turco contiene
l'errore fondamentale di contrapporre fra loro l'uomo e il fato come due cose
separate … In verità ogni uomo è egli stesso una parte di fato … Tu stesso,
povero uomo pauroso, sei la
Moira incoercibile che troneggia anche sugli dèi"[19].
Inoltre: "La nostra origine è nei miti: tutti i miti
sono di origine"[20].
Può trattarsi dell’origine di un’usanza, di un nome, di un
culto, di una città, come spesso nella poesia ellenistica, ma può riguardare anche
la nostra genesi di persone.
Il mito di Er dell’ultimo libro della Repubblica di Platone ci ricorda che prima di venire sulla terra ci
siamo scelti un daivmwn, che è carattere e destino. Eujdaimoniva, felicità è,
etimologicamente, l’accordo con il proprio daivmwn.
Se non ricordiamo, non riconosciamo e non assecondiamo quel daivmwn liberamente scelto, saremo infelici e saremo
colpevoli della nostra infelicità: “aijtiva
eJlomevnou: qeo;~ ajnaivtio~” (Repubblica,
617e), responsabile è chi ha fatto la scelta, il dio non lo è. E’ quello del
resto che afferma già Omero, attraverso Zeus nel primo canto dell’Odissea: “ Ahimé, come ora davvero i
mortali incolpano gli dèi!/ da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi
essi stessi/per la loro stupida scelleratezza hanno dolori oltre il
destino" (vv. 32-34).
Durante la vita
terrena "ci resta accanto un
compagno, una specie di angelo custode o spirito guida: il Daimon, il modello
del nostro destino, che in qualche modo ci aiuta e indirizza al compimento di
quella scelta che inizialmente proprio noi avevamo fatto, ma che abbiamo
dimenticato. Poiché il mito di Er, come lei accennava prima, è alla base del
suo Codice dell'anima…Lei ha citato uno dei miti sul perché esiste il dolore:
il Daimon ci mette di fronte le richieste del destino e noi recalcitriamo"[21].
"Poiché la felicità alla sua antica fonte era eudaimonia,
cioè un daimon contento, soltanto un daimon che riceve ciò che gli
spetta può trasmettere un effetto di felicità all'anima"[22].
Giovanni ghiselli
Il nostro blog (mio e di voi che mi leggete http://giovannighiselli.blogspot.it/) è
arrivato a 12364
[1] Cfr. Odissea,
XI, 568-571, Virgilio, Eneide, VI,
432 e Dante Inferno , V, 34 e sgg.
[2] Cfr. Odissea,
IV, 563-565
[3] Cfr. Pindaro, Istmica
VIII, 26
"Questo è il luogo dove la via si divide in due parti."
E continua:
"La destra che tende sotto le mura del grande Dite,
per di qua la nostra via verso l’Elisio; ma la sinistra dei
malvagi
mette in atto le pene e all’empio Tartaro invia”.
[5] Agamennone,
v. 177.
[6] Cfr. Odissea,
XI, 576-600.
[7] 403d, Sono le sirene ctonie evocate già nella parodo
dell’Elena di Euripide dove Elena
intona il primo canto
cui risponde il coro di donne greche rapite dai corsari e vendute come
schiave in Egitto. La figlia di Zeus
dunque chiama le Seirh`ne~ (v. 169) pterofovroi neanivde~
ragazze alate (v. 167), vergini figlie della terra parqevnoi Xqono;~ kovrai (v. 168): le invita a venire compagne ai suoi gemiti con il flauto libico o le zampogne
, lacrime, canti di pianto accordati con
i suoi desolati lamenti, dolori per
dolori, canti per canti . Le Sirene erano rappresentate nei monumenti funebri
ndr
[8] Nella mito di Er della Repubblica, Platone racconta che l’asse dell’universo, si volgeva sulle
ginocchia di Ananche e che il fuso era bilanciato da otto fusaioli, emisferi
concentrici su ognuno dei quali incedeva una sirena, tratta anch’essa nel moto
circolare, e da tutte otto che erano
risuonava una sola armonia ( ejk
pasw`n de; ojktw; oujsw`n mivan
aJrmwnivan sumfwnei`n, 617b)
[9] P. Boitani, L’ombra
di Ulisse, pp. 27-28
[10] Cfr. lagcavnw “ricevo in sorte”, klwvqw, “filo” e trevpw “volgo” preceduto da aj-
privativo, quindi l’inflessibile.
[11] E’ l’afferrmazione della
responsabilità degli uomini, già fatta da Zeus nel primo canto dell’Odissea:"Ahimé, come ora davvero i
mortali incolpano gli dèi! Da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi
essi stessi per la loro stupida presunzione hanno dolori oltre il destino. Così
anche ora Egisto oltre il destino si prese la moglie legittima dell’Atride, e
lo ammazzò appena tornato,
pur sapendo della morte scoscesa, poiché gliela predicemmo
noi,
mandando Ermes, l’Argifonte dalla vista acuta,
di non ammazzarlo e di non corteggiarne la sposa:
infatti da Oreste ci sarà la vendetta dell’Atride,
quando sia adulto e desideri la sua terra.
Così diceva Ermes, ma non persuadeva la mente
Di Egisto, pur pensando al suo bene; e ora tutto insieme ha
pagato” (vv. 32-43).
[12] Cfr. Virgilio, Georgica
IV: "spretae Ciconum quo munere matres-inter sacra deum nocturnique orgia
Bacchi-discerptum latos iuvenem sparsere per agros” ( vv. 520-522)
spregiate da questa fedeltà (a Euridice)) le donne dei Ciconi fra riti religiosi e le orge di Bacco
notturno, sparsero per i vasti campi il
giovane fatto a pezzi.
[13] Fr.
91 Diano, il carattere è il destino dell’uomo
[14] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 42.
[15] H. Hesse, Klein e Wagner, p. 126.
[16] Schopenhauer
come educatore, III inattuale (1874), p. 166.
[17] F. Nietzsche, Ecce
homo (del 1888), Il caso Wagner, p.
92.
[18] Crepuscolo degli idoli, Morale contronatura 6.
[19]Nietzsche, Umano troppo umano ,. II, Il
viandante e la sua ombra, pp.. 155-156. Uscito nel 1878. “Fu concepito come una
quinta “considerazione inattuale”, intitolata Il vomere,, ma poi fu trasformato nel libro di aforismo che
conosciamo” (S. Giametta, Introduzione a
Nietzsche, p. 236).
[20] J. Hillman, Il piacere di pensare, p. 52.
[21] James Hillman, Il piacere di pensare.
conversazione con Silvia Ronchey, pp. 53-54.
[22] J. Hillman, Il codice dell'anima , p. 112.
carissimo Gianni ,che sei il mio papà spirituale ,dopo queste bellissime parole che dalla tua penna scaturiscono con la potenza di immagini ,non posso che augurare a te di non smarrire mai il tuo genio e di rimanere così come sei nella sostanza e nell'apparenza fedele a te stesso e auguro a me stessa di trovare sempre di più la mia vera natura ,a volte mi sento un poco come Euridice...come Icaro...a volte sento le sirene....i tuoi brani sono spiagge dell'anima e bussole del pensiero. T.v.b. Giovanna
RispondiEliminaSapresti dirmi se esistono e quali sono quei film che sono stati influenzati da questo mito?
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