Il primo marzo del 1981, mentre sciavo
sulle nevi del Lusia, pensavo a Ifigenia. Quella ragazza, più di ogni
donna, mi aveva spinto ad agire per diventare migliore secondo il
corpo e secondo la mente.
|
Mi aveva indotto a scalare montagne
impervie, a correre i 5000 metri in 18 minuti e venticinque secondi, mi aveva
aiutato a vincere gare davvero olimpiche con gli altri e con me
stesso, mi aveva invogliato a fare l'amore centinaia e
centinaia e centinaia di volte.
|
Perciò dovevo scrollarmi di dosso la
rovinosa educazione della pretaglia
sedicente cristiana che già aveva distrutto Ludwig II di Baviera, trasformando il suo ardente
desiderio di baci in deleterio senso di colpa; e dovevo fidarmi dell'amore
di lei che negli ultimi giorni oltretutto mi aveva teso una mano. La
crisi che stavo attraversando non era una cosa solo cattiva,
poiché mi faceva riflettere; però oramai era tempo di uscirne
per vivere meglio.
|
All'ora di cena le telefonai riferendo
questi pensieri. Sembrava disposta bene anche lei.
|
Il due marzo andai sull' alpe di Pampeago,
sopra Predazzo. Il sole non c'era e tirava un vento gelato. Avevo
cambiato disposizione mentale, e non in meglio. Quando non abbiamo
affetti sicuri, né un forte autocompiacimento, né un equilibrio
saldo, il tempo atmosferico influisce assai sull'anima
debole e vacillante.
|
Sul mezzogiorno, non potendone più
dell'aria fredda e scura, entrai in un rifugio di latta e di legno,
riscaldato con una stufa.
|
Quando mi fui seduto con una bottiglia di
birra, una radio diffuse il canto antico della Sarjantola biancovestita:
"Summertime, when the living is easy "[1].
|
Rividi il suo volto ridente nella notte
d'estate sotto gli alberi strani tra le cui foglie biancheggiava la luna e
comparivano or sì or no le stelle,
vaghe e luminose come occhi di ragazze timide eppure
|
contente di un avvenire lieto, ricco di
eventi meravigliosi. Dalla memoria, nel cuore
|
gocciava il ricordo di quei giorni lontani.
Per converso pensai che
|
Ifigenia era stanca di me, io ero nauseato
di lei, e il nostro
|
rapporto era marcio.
|
Con Helena Sarjantola era una gioia vederci,
andare a zonzo ogni giorno, era
|
una scoperta parlare delle nostre vite e
culture, lontane e diverse;
|
ed era anche possibile lasciarsi andare, sia
pure con garbo: giocare
|
come bambini, senza sfiducia e sospetti.
Poi era estate, i dì
|
scivolavano lisci, dolci, senza dolore,
verso tramonti purpurei,
|
lunghe sere rosate, piene di voli ; eravamo
in vacanza, tra amici, e
|
ci godevamo la vita. Negli ultimi mesi
invece, dovevo misurare
|
ogni parola, siccome Ifigenia era pronta a
criticarmi per sospetto che io volessi fare
altrettanto con lei.
|
Confrontando le due situazioni distanti tra
loro dieci anni nel
|
tempo e ancor più nel mio cuore, piansi di
nostalgia e mi chiesi
|
quando sarebbe rinata una situazione ricca
di affetti e di
|
eventi pieni di gioia. Pensavo alla guerra
perenne che avevo dovuto
|
combattere contro avversità dolorose spinto dal desiderio
della
|
felicità che poteva essere solo una donna
degna di me. Avevo
|
ottenuto qualche successo parziale, anche
tre o quattro trionfi, ma
|
la vittoria definitiva mi era sfuggita
sempre. Però non avevo fatto
|
del male a nessuno, e i progressi c'erano
stati comunque. Perciò
|
non ero fallito del tutto, e non ero
cattivo.
|
Finita l'antica canzone, uscii dal rifugio
un poco ebbro di birra. Il
|
vento
si era addolcito. Guardai il cielo che si rischiarava sopra le
|
montagne, umide per il disgelo e luccicanti
nelle piante prossime a
|
germogliare. Rimasi fermo a osservare,
finché provai un
|
sentimento di riconoscenza per la natura,
per tutte le creature che
|
mi avevano accolto con simpatia, e per la
vita stessa che non mi
|
aveva mai rinnegato del tutto.
|
Alle otto di sera, quando le telefonai,
però Ifigenia non era in
|
casa.
Il fratello disse che forse era andata alla scuola di recitazione
.
Poiché la mia
|
chiamata era prestabilita e concordata, fui
preso da un'angoscia
|
soffocante. Salivo a stento la scala di
legno dell'albergo per
|
arrivare in camera, chiudermi dentro e
buttarmi sul letto.
|
Barcollavo con il corpo e con lo spirito:
come uno spastico non
|
riuscivo ad armonizzare i movimenti somatici
né a dominare le
|
convulsioni continue della mente ferita.
|
Rimasi dieci minuti disteso a domandarmi
perché quella ragazza
|
indefinibile mi avesse lasciato: doveva
averne trovato uno che le
|
piaceva o conveniva di più; però in un caso
del genere, dopo due
|
anni e mezzo che si sta con un uomo, si
prende tempo, ci si pensa,
|
se ne parla con lui, prima di andare con un
altro: non si butta via in
|
poche ore una relazione lunga e non del
tutto immonda come la
|
nostra. In effetti sarebbe finita in tale
maniera. Non era questo lo
|
schianto finale, ma lo prefigurava: la sera
del due marzo,
|
presentivo e presoffrivo la notte compresa
tra il dodici e il tredici
|
giugno.
|
Appena ebbi recuperate le forze, per
evitare che mi scoppiasse la
|
testa, decisi di uscire e camminare sotto
le stelle che vedono tutto.
|
Quando fui in fondo alle scale però, come
dio volle, il portiere
|
disse che mi aveva cercato una signorina,
Ifigenia, e aveva
|
lasciato detto di chiamarla a casa, appena
fossi tornato. Corsi in
|
cabina con i venti gettoni che mi portavo in
tasca sempre, come
|
quando ero rinchiuso in caserma e
nell'ospedale militare.
|
Afferrai l'apparecchio, feci il numero con
mano tremante. Rispose
|
lei.
|
"Ciao tesoro, scusa il ritardo, ma
sono tornata a vedere Ludwig
|
per sentirmi in qualche maniera vicina a te.
Dopo, ho fatto una
|
corsa bestiale per arrivare in tempo:
l'autobus non arrivava mai.
|
Scusami".
|
"Prego, prego-risposi- prego, però mi
sono preso paura che ti fosse
|
successo qualcosa".
|
"Mi
è successo che senza di te la mia vita è incompleta, e io non
|
funziono bene. Io ti amo tanto".
|
"Anche io". Nonostante l'aria
chiusa della cabina, il petto mi si era
|
aperto e riempito di salute, di forza, di
gioia.
|
"Adesso vado a fare due passi e a
pensarti con riconoscenza per
|
quanto mi hai detto: sono proprio
felice".
|
Uscii nella notte illune, raggiante di
felicità. Ringraziavo gli dei e
|
il mio destino di non avermi privato troppo
per tempo di una
|
donna siffatta.
|
Il tre marzo sciai di mattina; nel
pomeriggio, per variare le
|
interminabili ore di solitudine, camminai
verso la Malga Panna.
|
Quando ci fui arrivato, continuai per il
sentiero sdrucciolevole che
|
porta alla Malga Peniola. Era una giornata
calda, quasi afosa: il
|
cielo appariva gonfio di nuvole giallognole
e acquose; la neve,
|
corrosa da un vento dolciastro, si
liquefaceva.
|
Procedevo guardando gli alberi madidi e la
terra fangosa: cercavo
|
visioni belle e confortanti: invano.
Nell'anima gocciava
|
l'angoscia. L'ultima telefonata non era
valsa ad ammazzare i tarli
|
del mio cervello: continuavo a pensare che
di Ifigenia non
|
potevo fidarmi. Nessun ragionamento potente
o sottile, diritto o
|
contorto, valeva a correggere un sentimento
così negativo e
|
profondo.
|
Sbucato dal bosco in una radura, vidi la
Malga e la piccola chiesa
|
contigua. Una volta, forse nel '54, mi ci
avevano portato le zie. Mi
|
avvicinai alla cappella. L'uscio era
chiavato, ma l'interno si poteva
|
vedere da una finestrina quadrata, chiusa
soltanto da due sbarre di
|
ferro arrugginite e disposte a formare una
croce: dentro il
|
minuscolo tempio, di fronte alla rugginosa
inferriata, c'era
|
un'immagine della deipara vergine.
|
"La vergine madre – pensai – sempre la
storia dell'imene. Mentre
|
siamo bambini indifesi e suggestionabili, i
preti ci impongono una
|
schifezza del genere. La madre perfetta fa i
figli senza fare
|
l'amore. Se li prendi sul serio, quelli ti
inibiscono la gioia amorosa
|
o te la rovinano con il rimorso. Vogliono
dire che mettere al
|
mondo un figliolo secondo natura è
|
debolezza e peccato.
|
Insozzano ogni venire alla luce. Me l'hanno
inculcato quando ero
|
piccino. Hanno fatto di tutto perché
odiassi l'amore, gettando una
|
gran confusione dentro di me".
|
A un tratto, dalla malga uscì un uomo di
pelle e capelli rossicci;
|
mi osservava e sorrideva come si fa con un
buon conoscente, poi
|
mi venne vicino e domandò se avessi bisogno
di qualche cosa.
|
"No, guardo soltanto".
|
Continuava
a sorridermi. Mi accorsi che lo conoscevo.
|
Venticinque anni prima era un bambino un
po’ ritardato.
|
"Ciao Flavio – gli feci –, come stai?
ti ricordi di me?"
|
"No, chi sei?"
|
"Sono Gianni di Pesaro; negli anni
Cinquanta venivo a Moena in
|
agosto; abitavo in via Damiano Chiesa.
Facevamo le corse intorno
|
alla fontana del Turco. Eravamo piccoli
allora. Che strano
|
rivederci qui da adulti!"
|
Continuava a sorridere. Teneva le mani in
tasca. La stessa
|
espressione, lo stesso atteggiamento di
allora. Probabilmente
|
anche io: in quel tempo ero un bambino
spaurito; sembravo
|
sempre in procinto di piangere, dicevano
alle due zie.
|
"Ti posso offrire un bicchiere di vino,
Gianni?"
|
"Sì grazie, volentieri." Entrammo
nella malga deserta e ci
|
sedemmo. Mi mostrò una bottiglia: Terodelgo
Rotaliano , vino del
|
concilio di Trento. Pensai alla pretaglia
carnefice dei miei sensi
|
amorosi, ma dissi che andava bene, che mi
piaceva molto. Riempì
|
due bicchieri.
|
"Raccontami qualcosa di te e degli
altri che giocavano con noi in
|
via Damiano Chiesa. Tu che hai fatto in
questi anni?"
|
Balbettando rispose che aveva servito come
facchino in un paio di
|
alberghi e aveva visto molta gente, persone
per bene. Anche da
|
ragazzino non diceva male mai di nessuno.
Le zie lo definivano "
|
lo strullo" e mi consigliavano di non
frequentarlo troppo. A me non
|
dispiaceva: mi insegnava qualcosa con quel
suo perpetuo sorriso.
|
Rimasi là un paio di ore: mi raccontò alcune
storie di ex bambini
|
moenesi, nostri compagni di giochi. Non
sentii una parola
|
malevola. Gli dissi di me, del mio lavoro
con gli allievi adolescenti che mi
|
curavano l'anima . Poi gli chiesi se potevo
invitarlo a cena, non in
|
via Damiano Chiesa purtroppo, ché la casa
non era più della zia Giulia.
|
Rispose che doveva restare lì: custodiva la
malga Peniola e la
|
chiesa.
|
Camminando verso l'albergo mi domandavo se
quello "strullo"
|
non fosse migliore e meno disgraziato di
me.
|
Il quattro marzo era un giorno ventoso, e
così freddo da scorticare
|
le capre. Era una pena salire con la
seggiovia e scendere con gli
|
sci, sempre agghiacciato dal vento che
soffiava vortici duri di gelo
|
sulla mia povera faccia e sui visi cagnazzi[2] degli altri sciatori,
|
lividi tutti come le pietre dei monti. Io
mi sforzavo di cacciare i
|
pensieri cattivi, di ripararmi dalle loro
trafitture impietose. Ma
|
quelli, sempre vivi , continuavano a
pungermi, senza concedermi
|
un momento di tregua. Per contrastarli, mi
domandavo: "Cosa
|
starà facendo adesso nel nostro liceo
la creatura bella e soave
|
amata mihi quantum amabitur nulla?[3] .
Starà facendo lezione, starà
|
seduta sulla cattedra oppure appoggiata a
una parete? Beate voi sedie
|
e pareti che reggete il peso soave di quella
ragazza !"[4]
|
Mi sforzavo di evocare sentimenti amorosi attingendo
espressioni
|
dal mio repertorio di frasi belle e già
fatte. Ciò nonostante i
|
pensieri malvagi non cessavano di pullulare,
non smettevano di
|
brulicare nel cervello, quale sciame di insetti molesti o
groviglio
|
di vermi schifosi. Mormoravo:" Ifigenia
non è la mia donna
|
ideale: non è luce per me[5] , né io lo sono per lei. Di corpo è
bella
|
assai, ma il volto è poco espressivo. Ed è
proprio l'intensità dello
|
sguardo che mantiene vivo a lungo
l'interesse erotico e umano!".
|
Il pungiglione velenoso di quelle bestie
immonde superava la
|
resistenza delle parole di Catullo, di
Shakespeare, di Omero, e
|
scendeva a fondo nella carne viva
dell'anima, trapanandola senza
|
pietà.
|
Il pomeriggio si fece vedere il sole che
colorì il cielo, la terra e la
|
mia faccia, dandomi pure conforto.
Pensavo:" Ifigenia è viva e
|
composita come questa natura. L'una e
l'altra sono fatte di
|
splendidissimo sole e di nuvole fosche, di
vento aspro e di
|
sorridente bonaccia. Del resto la pena e la
gioia circolano per tutti
|
gli uomini come i volubili giri dell'Orsa.
Non rimangono fisse per i
|
mortali né la notte stellata, né la sorte
cattiva, né la salute, ma
|
rapidamente fuggono via ".
|
La sera
le riferii soltanto il meglio di ciò che avevo pensato.
|
Disse:"Tu sei intelligente gianni. Io
ti amo".
|
"Anche io" conclusi.
|
In quel momento ero sincero. Se era capace
di apprezzare la mia
|
intelligenza, non poteva che amarmi.
|
Quella notte il cielo era tutto sereno e le
stelle brillavano con
|
speciale vigore sopra la valle di Fassa.
Uscii e scesi verso Moena.
|
Arrivato in paese, cominciai a risalire la
china dall'altra parte del
|
fiume Avisio, lungo la via dalla quale
il pomeriggio del giorno prima
|
avevo osservato un cielo umido e sporco,
quasi fangoso. Sotto il
|
firmamento pulito, la terra era diversa, e
io mi sentivo un'altra
|
persona. Dopo il cimitero, il viottolo non
era più illuminato da
|
lampadine,
sicché, camminando, potevo contemplare le stelle
|
senza disturbo: erano splendidissime come la
mia compagna
|
vivace.
|
Passato il paesino di Sorte, c'è un
chilometro di buio solitario e
|
scosceso. Si udivano ululati cupi e rauchi
ringhi. Altre volte,
|
percorrendo quel sentiero ripido e tetro,
avevo pensato con orrore
|
ai miei fallimenti sentimentali,
all'isolamento affettivo e sociale in
|
cui mi trovavo, all'ora terribile della mia
morte senza conforto di
|
donna e di figli. E avevo avuto paura. In
quel momento invece
|
nulla mi sbigottiva: né i latrati
insistenti, né la mia solitudine
|
eterna.
|
Sentivo una forza lietificante dentro di me,
una luce di amore e di
|
giustizia che mi consolava dei fallimenti
parziali e mi rendeva
|
sicuro del bene che avrei fatto durante il
resto della mia vita
|
mortale. La questione della verginità e
della condizione economica
|
di Ifigenia, di qualsiasi donna, diventava
ridicola e falsa.
|
Poteva riguardare i ministri perversi di una
religione corrotta e
|
capovolta, non me, non Dio, né Gesù Cristo
e sua madre.
|
Dovevo usare il metro dell'intelligenza e
dei sensi per misurare la
|
mia compagna, non i luoghi comuni.
|
Queste erano le riflessioni giuste, poiché
mi davano forza e
|
coraggio. Gli ululati, che pure si facevano
più rumorosi e
|
frequenti, non mi impaurivano. Continuavo a
guardare le fiaccole
|
vive del cielo dove vedevo riflessa l'anima
della mia donna;
|
osservavo le montagne scure, slanciate e
profumate come i capelli,
|
la figura, la pelle di lei. Anche in me
c'era un'anima viva che si
|
sentiva in armonia con la santa natura.
|
Il giorno dopo, il cielo si mantenne sereno,
sicché mi abbronzai e
|
divenni più bello. Quando il dio tramontò,
alle cinque e tre quarti,
|
gli chiesi la forza di amare per sempre la
mia compagna e la vita.
|
Ma quella sera stessa ci fu una telefonata
tragica. La chiamai alla
|
solita ora. Mi sentivo in ottima forma:
snellissimo e molto
|
abbronzato. Avevo anche studiato per un paio
di ore. Ero
|
contento. La solitudine di Moena era quasi
finita: la sera seguente
|
sarebbe arrivata lei alla stazione di
Trento. Sarei andato a
|
prenderla con la bianca Volkswagen. La sua
presenza radiosa
|
avrebbe disperso la poca malinconia residua,
come il sole, in una
|
mattina di marzo, a mano a mano che si alza
nel cielo, dirada le
|
brume,
scalda la terra, e celebra feste di luce.
|
Feci il numero. Rispose Ifigenia.
|
"Ciao amore, sono gianni. Allora
tesoro, ci vediamo domani? Mi
|
manchi tanto".
|
"Anche tu mi manchi", ripeté.
Senza il “tanto”, però. Prima trafittura.
E
subito dopo,
|
come se avesse deciso di darmi l'angoscia,
oppure fosse costretta
|
da un demone avverso alla prosecuzione del
nostro rapporto, un
|
fato contrario ai desideri consapevoli di
tutti e due, un destino conscio magari
|
di scopi più alti, aggiunse:"Tra poco
arriva da Brescia la terza
|
cugina. Così ci troviamo tutte a casa di
Maddalena. Parleremo fino a
|
tardi. Domani andrò a pranzo da loro".
|
Sentii una stretta nel petto, mi irrigidii,
e con voce turbata feci:"
|
Significa che non vieni più qui a
Moena?"
|
"No gianni, non voglio dire
questo", rispose allarmata, avendo
|
compreso o ricordato che non mi faceva bene
sentire nominare
|
quelle sirene maligne.
|
"Allora che cosa vuoi dire? Perché
cominci una telefonata che io
|
avevo iniziato pieno di ottima
disposizione, parlandomi delle tue
|
parenti di cui a me, bene che vada, non
importa un fico ?
|
Sarebbe come se io, tutto contento, ti
avessi detto: -Oggi ho
|
incontrato lo scemo del paese che mi ha
proposto di ubriacarmi e
|
di andare in tanta malora con lui".
|
Ifigenia cercò di rimediare l'errore con
parole dolciastre e
|
compassionevoli che provocarono la crescita
della mia ira.
|
"Dai, non fare così; non rovinare
tutto! Io ho molta voglia di
|
vederti, di stare con te, di darti
tantissimi baci! Hai capito tesoro?"
|
"Sì ho sentito e ho capito che lasci a
malincuore quelle tue
|
meravigliose parenti, e che quando sarai
qua, mi rinfaccerai
|
l'eroica rinuncia al piacere di andare in
discoteca con loro, come
|
hai fatto la notte di Capodanno tra i monti
di Bratto. Questa volta
|
però pensaci bene: se devi venire quassù a
farmi il muso, a
|
rimpiangere Bologna, restaci!
|
Ti richiamo tra un'ora per domandarti se
davvero vuoi venire da
|
me, o preferisci restare là dove sei".
|
A questo punto Ifigenia si offese a sua volta
e passò al
|
contrattacco.
|
"Ho capito - disse - ci penso. E tu
telefona pure. Ma non qui a casa
|
mia, perché adesso esco. Vado dalle mie
cugine. Se vuoi ti do il
|
numero".
|
"D'accordo, dammelo. Ti richiamo più
tardi". Guardai l'orologio:
|
erano le otto e mezzo. "Verso le
dieci".
|
Ci salutammo con rancore. Uscii per cercare
conforto nel cielo
|
stellato. Ma sembrava gremito di faci
maligne, accese dal re
|
dell'inferno. Avevo di nuovo l'inferno nel
cuore.
|
"Possibile che quella enorme, eterna
cretina non sappia dire una
|
parola senza darmi l'angoscia? Anche oggi
che ero riuscito ad
|
armonizzare discretamente gli scombinati
pezzi dell'anima mia, la
|
disgraziata ha voluto spezzare e confondere
tutto di nuovo".
|
Ancora una volta facevo il cammino dagli
ultimi alberi del bosco
|
orientale, ai primi della grande foresta che
sale sul Latemar
|
orlando e coprendo di nero la parete
occidentale della valle di
|
Fassa.
|
Rabbrividivo al gorgogliare dell'acqua che
scorre in mezzo al
|
paese; mi spaventava il fruscio leggero di
un'ala, come il cupo
|
ululato delle cagne rabbiose nelle tenebre
cieche. Sentivo il
|
desiderio di tornare in albergo, di non
fare alcuna telefonata alla
|
donna che aveva guastato il mio delicato
accordo con me stesso e
|
con lei.
|
Ma sì, che andasse pure a ballare nelle
discoteche immonde con quelle
|
della sua razza, con i tangheri più stupidi
e oziosi; si
|
immergesse nella lurida feccia dalla quale
l'avevo elevata due anni
|
e mezzo prima, quando era stanca
|
della
sua vita balorda e mi aveva chiesto una mano per uscirne.
|
Invece ci stavo cadendo dentro anche io.
|
Senza di lei potevo trovare l'accordo con la
santa natura, cercare
|
una donna di grande formato, una persona dai
sentimenti nobili
|
. Intanto avevo comunque l'amore della
lettura che niente e
|
nessuno avrebbe potuto portarmi via. Avevo
il ricordo delle donne belle e fini che mi avevano amato
|
Però, a pensarci bene, una volta che mi
fossi trovato nella aridità
|
del deserto affettivo, forse avrei perduto
la forza di leggere i libri,
|
o per lo meno la capacità di impararli; la
natura, quando non
|
nutrivo sentimenti amorosi mi sembrava
avariata; tutte le donne
|
del mondo non mi interessavano quanto quella ragazza
che, se
|
non altro di aspetto, era tanto radiosa da
illuminare anche me.
|
Era stato l'amore di Ifigenia, la
sorridente ragazza, la supplentina principiante, a rendermi variopinta la
terra,
|
interessante e non coatto lo studio,
prezioso il tempo, pulite le
|
stelle.
|
Mi aggrappai con tutte le forze a questo
pensiero per tornare nello
|
stato di grazia della notte precedente: lo
usai come un'arma per
|
combattere l'angoscia che contaminava le
luci del cielo.
|
Mi dissi: "Oggi c'è stato un sole
meraviglioso: la vita è prossima a
|
sbocciare e fiorire dovunque; tu sei in
ottima forma; se la tua
|
compagna gradisce per qualche giorno la
compagnia di quelle
|
sue congiunte disordinate, a te che cosa
toglie? Che te ne importa?
|
Ifigenia ama te, non può amare che te. Un
altro uomo della
|
tua, della sua levatura, poiché è inutile
cercare di negarlo,
|
nemmeno lei è una persona comune, non lo
trova da nessuna parte.
|
Avanti gianni, non temere le cagne inquiete
nell'ombra, né i singhiozzi
|
dell'acqua, né i fruscii dei cespugli, né i
bisbigli dell'aria; a te non
|
vogliono fare alcun male: tu sei forte e
fortunato; a te non
|
predicono cattiva ventura. Se fossi debole, sventurato e cattivo, se
|
non ti spingesse un demone buono, non
avresti ottenuto l'amore di
|
quella giovane splendidissima donna, né
delle altre. Non sputare nel
|
piatto dove hai mangiato con tanto gusto!
Ora cammina fino alla
|
malga, poi telefona alla tua necessaria
compagna e dille che
|
venga, che l'aspetti, che l'ami, che hai
fatto male a dubitare.
|
Chiedile scusa".
|
Così proseguii e giunsi sul limitare del
bosco, avendo schivato
|
ancora una volta le rabide cagne.
|
Chiesi venti gettoni e un caffé all'enorme
ragazza addetta alla
|
mescita della Malga Panna. Mi domandò come
potessi bere quel
|
liquido amaro senza addolcirlo.
"Perché mi piace assai signorina, e
|
non voglio alterarne il sapore",
risposi, e pensai che pure la mia
|
compagna, se mi piaceva davvero, dovevo sorbirla
com'era.
|
Poi aggiunsi:"Provi anche lei. Dopo un
paio di volte si accorgerà
|
che senza zucchero è buono". Da quando
la vidi la prima volta, ho
|
sperato di educare quella fanciulla
ciclopica inducendola a
|
dimagrire. Mi fece un sorriso mesto e scosse
la testa. Non so se
|
volesse negare la gradevolezza del caffé
amaro, o mettere in
|
dubbio che sarebbe dimagrita bevendolo senza
addolcirlo.
|
Mi mossi per telefonare. Rispose Ifigenia.
Dissi:"Ciao, sono
|
gianni, come stai? Se vieni qua volentieri,
mi fai piacere".
|
"Sei sicuro? te lo chiedo perché tu lì in mezzo ai monti
diventi
|
strano, e uso un eufemismo ".
|
"Sì è vero, impazzisco, ma devi capire: qui passo tutto il tempo da
solo, e a
|
lungo andare sto male. Venendo, mi porterai
un grande conforto".
|
"Va bene. Arrivo domani sera alla
stazione di Trento alle nove e
|
diciotto. Parto dopo una lezione di Gimondi
all'Antoniano", disse,
|
poi tacque. Allora io, ostentando
entusiasmo, feci:" Ho tanta
|
voglia di vederti, averti vicina,
abbracciarti!". Speravo che
|
rispondesse:"Anche io". Invece
disse: "D'accordo: alle 21 e 18.
|
Ciao".
giovanni ghiselli
|
[1] Cfr. La storia di Helena, presente nel blog.
freddo;
onde mi vien riprezzo,/e verrà sempre, de' gelati guazzi “
[3] Catullo,
8, 5.Amata da me quanto nessuna mai lo sarà..
[4] Cfr.
Shakespeare, Antonio e Cleopatra, I, 5:"O happy horse, to bear
the weight
of
Antony!", beato
cavallo che porti il peso di Antonio!
[5] Cfr. Iliade,
XVIII, 102.
Una sola parola del mio amato può oscurare il sole o svegliare la primavera nel buio più nero, quanto potere detengono su di noi le persone alle quali doniamo il nostro cuore ,che un sospiro diviene il metro del mondo...Giovanna
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