Il
28 gennaio si terrà una tavola rotonda al liceo Galvani sul tradurre.
Ho
preparato queste pagine per la parte che mi spetta.
Cicerone afferma che
nel tradurre non è opportuno attenersi alla lettera, ma si deve piuttosto
interpretare l’originale: “Nec tamen exprimi verbum e verbo necesse erit, ut
interpretes indiserti solent” (De finibus
bonorum et malorum III, 15), non sarà del resto necessario che si traduca
parola per parola, come sono soliti i traduttori stentati.
In un passo degli Academica, l’Arpinate afferma che i poeti
arcaici, Ennio, Pacuvio, Accio, e molti
altri, piacciono “qui non verba, sed vim Graecorum expresserunt poetarum” (III,
10), poiché resero non le parole ma la forza dei poeti greci.
Io
mi trovo d’accordo piuttosto con Leopardi.
Leggiamo
qualche riga dello Zibaldone sulla traduzione perfetta: “La perfezione
della traduzione consiste in questo, che l’autore tradotto, non sia p. e. greco
in italiano, greco o francese in
tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in francese.
Questo è il difficile, questo è ciò che non in tutte le lingue è possibile” (
2134).
La lingua italiana
la quale è “piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la
francese è unica” ha maggiore facoltà rispetto alle altre “di adattarsi alle
forme straniere…Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra
lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca.
Perché alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente,
più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso
genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per
ragioni di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di
natura e di carattere” ( 964 e 965).
“Amava moltissimo l’italiano perché era una
lingua molteplice: come il greco, era un aggregato di molte lingue piuttosto
che una lingua sola, e gli concedeva la libertà di tentare ogni stile. Se ebbe
sempre molte riserve sulla metafisica, la morale e la cosmogonia di Platone, la
sua ammirazione per il Fedro non
aveva limiti. Trovava nello stesso testo “non dico tre stili, ma tre vere
lingue”; la prima nel dialogo tra Socrate e Fedro, la seconda nelle due
orazioni di Lisia e Socrate, la terza nell’orazione di Socrate “in lode
dell’amore”[1].
Ma sentiamo di nuovo
Leopardi: “Chi vuole vedere un piccolo esempio della infinita varietà della
lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue che una lingua
sola, secondo che ho detto altrove, e vuol vederlo in uno stesso scrittore e in
uno stesso libro; legga il Fedro di
Platone. Nel quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle
parole che compongono il Dialogo tra socrate e Fedro, la quale è la solita e
propria di Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di
Lisia e di Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore.” (Zibaldone, 2717)
Se devo dire parole
mie, credo che le lingue si debbano insegnare attraverso gli autori, partendo
da quelli che scrivono con chiarezza e bellezza.
La bellezza infatti
è sempre associata alla chiarezza Ad pulchritudinem tria requiruntur:
integritas, consonantia, claritas … Lo splendore di cui parla san Tommaso è
la quidditas scolastica, l'essenza di una cosa[2].
Boitani traduce claritas con “trasparenza”: “La
trasparenza: quella che Tommaso d’Aquino chiamava claritas, e, associandola a consonantia
e integritas, considerava uno dei tre
criteri della bellezza”[3].
Lucrezio
condanna gli stolti che ammirano e amano quanto rimane nascosto sotto parole
contorte: "omnia enim stolidi magis admirantur amantque/inversis quae sub
verbis latitantia cernunt "[4]
gli stolti ammirano e amano di più tutto ciò che scorgono nascosto sotto parole
contorte.
Quindi Cicerone: "quae sunt recta et simplicia laudantur"[5],
ricevono lode gli aspetti schietti e semplici.
Posso fare degli
esempi di testi belli, chiari e funzionali all’apprendimento del greco e del
latino: il Nuovo Testamento, o, per
stare nei classici, le Troiane di Euripide
o l’Edipo re di Sofocle, i carmi del Liber di Catullo o l’Eneide di Virgilio tra i latini. Per
quanto riguarda la prosa, indicherei le orazioni di Lisia, o di Isocrate per i
Greci; Sallustio, o Seneca, o, perché no[6],
Petronio per i latini.
Una grammatica di
base è necessaria, per carità, ma non deve essere il punto d’arrivo, bensì solo
il primo gradino.
Il fatto è che talora i tecnicismi sono stati impiegati da insegnanti
spiritualmente distorti in maniera mortificante, come " una misura di
polizia per rintuzzare le intelligenze "[7].
Riporto un messaggio mandatomi da una mia allieva, un'alunna di
trent'anni fa .
"Ciao, ho letto il tuo pezzo sul lavoro ... e la perdita del
lavoro ... e
di Odisseo che viaggia viaggia ma brama il ritorno a Itaca, approdo
desiderato e sicuro. Dopo tanti discorsi sul lavoro un po' rituali e un
po' troppo ascoltati, un'immagine chiara ... del desiderio di movimento,
di attività, di pensiero, di sogno .. ma alla fine di approdo sicuro.
Cati
(ex IV F ginnasio del Liceo Minghetti che spesso ricorda le tue lezioni
e la montagna di libri che ci facevi leggere in un'età dove di solito si
leggono solo manualetti di grammatica e letteratura)".
di Odisseo che viaggia viaggia ma brama il ritorno a Itaca, approdo
desiderato e sicuro. Dopo tanti discorsi sul lavoro un po' rituali e un
po' troppo ascoltati, un'immagine chiara ... del desiderio di movimento,
di attività, di pensiero, di sogno .. ma alla fine di approdo sicuro.
Cati
(ex IV F ginnasio del Liceo Minghetti che spesso ricorda le tue lezioni
e la montagna di libri che ci facevi leggere in un'età dove di solito si
leggono solo manualetti di grammatica e letteratura)".
"Pascoli, invitato a stendere una relazione sulle cause dello
scarso rendimento degli alunni agli esami di licenza liceale, così si
esprimeva: "Si legge poco, e poco genialmente, soffocando la sentenza
dello scrittore sotto la grammatica, la metrica, la linguistica…Anche nei
licei, in qualche liceo, per lo meno, la grammatica si stende come un'ombra sui
fiori immortali del pensiero antico e li aduggia. Il giovane esce, come può,
dal liceo e getta i libri: Virgilio, Orazio, Livio, Tacito! de' quali ogni
linea, si può dire, nascondeva un laccio grammaticale e costò uno sforzo e
provocò uno sbadiglio"[8].
Inoltre: "I più volenterosi si svogliano, si annoiano,
s'intorpidiscono…;…e i grandi scrittori non hanno ancora mostrato al giovane
stanco pur un lampo del loro divino sorriso"[9].
"Lo studio del greco e del latino si caratterizza soprattutto come
uno studio linguistico di impronta grammaticale chiuso in se stesso e
funzionale solo in minima parte alla lettura dei testi. In queste condizioni la
realtà difficilmente può ripagare gli studenti degli sforzi fatti"[10].
La grammatica serve a leggere i
testi, la metrica, soprattutto l'esametro, il pentametro quindi il distico
elegiaco, e il trimetro giambico, aiuta
a memorizzarli.
Ho notato che sono le persone a
disagio con se stesse, incapaci di trovare una qualsiasi bellezza nella propria vita, le
persone che si sentono brutte insomma, e temono la libertà, la crescita mentale
dei giovani, quelli che preferiscono fermarsi alla tecnica
morfologico-sintattica. Questa, vista come fine, può oscurare o limitare la bellezza della letteratura.
"Qualcuno, chissà chi, v'ha scritto perfino una grammatica. Ma è
una truffa volgare. A ogni regola ci vorrebbe la data e la regione dove si
diceva così"[11].
Ricordo, per esempio, che quando studiavo al liceo Mamiani di Pesaro,
il preside, tal Marchi, venuto a fare visita alla quarta ginnasio, mi chiese di
dirgli "destino" in latino. Dissi fatus.
Mi rimproverò: credeva che fossi bravo, l'avevo deluso. Ci rimasi male. In effetti non
ero abbastanza bravo per rispondergli come avrei fatto in terza liceo.
Al ginnasio non conoscevo il Satyricon
dove l'autore usa appunto fatus
invece di fatum. Gli schiavi sono uomini, proclama
Trimalchione rimasticando dottrine stoiche: "et servi homines sunt et aeque unum lactem biberunt, etiam si illos
malus fatus oppresserit. tamen me salvo cito aquam liberam gustabunt. ad
summam, omnes illos in testamento meo manu mitto" (71), pure gli
schiavi sono esseri umani e hanno bevuto lo stesso latte, anche se un destino
cattivo li ha schiacciati. Comunque, mi venisse un colpo, presto assaggeranno
l'acqua libera. Insomma tutti quelli li affranco nel mio testamento.
Fatus (invece di fatum) è uno di quegli "errori
grammaticali" denunciati da chi non se ne intende abbastanza. Non è
l'unico caso del genere nel Satyricon
dove troviamo balneus (41) per il neutro balneum, bagno, vinus
(12) per vinum, caelus (45, 3) per caelum, lasanus
(47, 5) per lasanum, vaso da notte, e altri ancora. "Più rari sono
gli ipercorrettismi da maschile a neutro ( thesaurum 46). Nel passaggio
dal latino all'italiano il genere neutro scompare, e i neutri latini sono
diventati in italiano maschili. Il latino volgare anticipa dunque tale
evoluzione, e ci fa capire tra l'altro come poté avvenire concretamente questa
"scomparsa" di una categoria grammaticale: a poco a poco tutte le
parole neutre divennero maschili"[12].
Ho insegnato per 2 anni nel liceo di Imola (uno al biennio uno al
triennio) e per cinque al Minghetti (due nel biennio, tre nel triennio), poi
per 28 anni in questa scuola: dall'82 al 91 nel ginnasio; dal 92 al 2010 nel
liceo. Dal 2000 ho avuto il semiesonero dopo avevo vinto un concorso.
Per 10 anni ho insegnato
didattica della letteratura greca, a contratto, nella SSIS. Traggo alcune di
queste considerazioni dalla metodologia che ho elaborato in tutto questo tempo,
leggendo, imparando e insegnando. Insomma ho utilizzato "una lunga
esperienza delle cose moderne et una continua lezione delle antique"[13].
Ebbene, già insegnando al ginnasio, avvicinavo i ragazzini ai testi
belli fin dalla quinta. Un anno di pura morfologia bastava. E d'altra parte,
già trattando questa, davo grande spazio allo studio e all'apprendimento del
lessico. Nel secondo anno si potevano confrontare le regole della grammatica
con testi come l' Edipo re. o le Troiane, l'Eneide o il Vangelo. Gli allievi portati per le lingue classiche, con
questo metodo, studiavano volentieri, i
refrattari meno malvolentieri che se mi fossi fermato ai tecnicismi delle due
lingue.
La lobby dei colleghi esclusivamente morfologisti, gli umbratici doctores, che all'epoca
dettavano le regole alla scuola spinsero il preside Magnani a chiamare contro
di me due ispettori ministeriali in tre anni. Speravano di cacciarmi. Non
potevano tollerare che molti allievi con le loro famiglie dicessero che ero più
bravo e interessante di loro, pallide vestali del manuali.
Il
protagonista del Satyricon
contrappone tali maestrucoli ai grandi tragici: "nondum iuvenes declamationibus
continebantur, cum
Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus deberent loqui, nondum
umbraticus doctor ingenia deleverat, cum Pindarus novemque lyrici Homericis
versibus canere timuerunt. et ne poetas solum ad testimonium citem, certe neque
Platona neque Demosthenen ad hoc genus exercitationis accessisse video"
(2, 3-5), ancora i giovani non erano chiusi nelle vuote declamazioni, quando
Sofocle e Euripide trovarono le parole con le quali dovevano parlare, non c'era
ancora un erudito cresciuto nell'ombra a scempiare gli ingegni, quando Pindaro
e i nove lirici[14], si peritarono a cantare in versi omerici. E
per non far venire solo i poeti come testimoni, di certo non trovo che Platone
né Demostene si sono abbassati a questo genere di esercitazione.
Anche il classicista
Quintiliano vuole
escludere l'ombra, la solitudine e la muffa dall'educazione del ragazzo
che sarà un buon oratore: "Ante omnia futurus orator, cui in maxima
celebritate et in media rei publicae luce vivendum est, adsuescat iam a tenero
non reformīdare homines neque illa solitaria et velut umbratica vita pallescere. Excitanda mens est et adtollenda semper
est, quae in eiusmodi secretis aut languescit et quendam velut in opaco situm
ducit, aut contra tumescit inani persuasione; necesse est enim nimium tribuat
sibi, qui se nemini comparat "[15],
prima di tutto il futuro oratore che deve vivere frequentando moltissime
persone, e in mezzo alla luce della politica, si abitui fin da ragazzo a non temere gli uomini e a
non impallidire in quella vita solitaria e come umbratile. Va tenuta sveglia e
sempre innalzata la mente che in solitudini di tal fatta o si infiacchisce e
nella tenebra prende un certo puzzo di muffa, o al contrario si gonfia di vuoti
convincimenti: è infatti inevitabile che attribuisca troppo a se stesso chi non
si confronta con nessuno.
Il maestro pallido
desta una diffidenza o addirittura una ripugnanza istintiva, anche fisica nel
giovane discepolo. Fidippide, il figlio di Strepsiade, rifiuta i cattivi
educatori della scuola di Socrate anche per il loro colore giallastro, malsano:
"aijboi', ponhroiv g' oi\\da. tou;" ajlazovna"-tou;"
wjcriw'nta" tou;" ajnupodhvtou" levgei" (Nuvole, vv. 102-103), puah!, quei furfanti,
ho capito. Tu dici quelle facce pallide, gli scalzi.
Voglio
dire che il greco e il latino vanno collegati non solo alla successiva
letteratura europea ma anche alla vita. E che noi docenti dobbiamo avere cura
anche del nostro aspetto.
Per
fortuna in quegli anni, siamo nella seconda metà degli Ottanta, le cose stavano
cambiando nella scuola italiana e nel suo Ministero: i due inquisitori dei miei
presunti peccati sbugiardarono i minimalizzatori del greco e del latino: il
primo, Adelelmo Campana, scrisse nel rapporto, come poi seppi, che Giovanni
Ghiselli era uno dei migliori insegnanti d’Italia, il secondo Antonio
Portolano, mi cooptò nel suo gruppo di lavoro e di studio. Attualmente continuo
a collaborare con l’ispettore Luciano Favini succeduto a Portolano.
Io
credo che se non si renderà più vivace lo studio del greco e del latino,
continuerà la crisi delle vocazioni e la conoscenza di queste lingue un poco
alla volta scomparirà. Invece è necessario farne rifiorire lo studio per il
bene della nostra cultura e della civiltà italiana.
L’argomento
che uso a priori per invogliare i ragazzi è che il greco e il latino sono, come
minimo, e se non altro, dei mezzi per conoscere meglio la lingua italiana,
strumenti funzionali a scrivere meglio, a parlare in maniera più persuasiva,
capacità che sono utili alla vita, che accrescono potenza in tutti i campi, da quello religioso
a quello erotico, per dire i due estremi
A
questo proposito cito due maestri, un magister
di amore e uno di religione e di morale. Li ricordo in ordine cronologico.
"Non formosus erat, sed
erat facundus Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas [16]. ", bello non era, ma era bravo a parlare Ulisse, e pure fece struggere
d'amore le dee del mare, scrive Ovidio nell'Ars amatoria. Sono versi non
per caso citati da Kierkegaard nel Diario
del seduttore
Don Milani insegnava che "bisogna sfiorare tutte le materie un po'
alla meglio per arricchire la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti
nell'arte della parola"[17].
Parlare e scrivere male è la quintessenza del fallimento dell’essere
umano che è animale linguistico
Parlare male, affermava Socrate nel Fedone , non solo è una stonatura in sé, ma mette anche
del male nelle anime: " euj ga;r i[sqi … a[riste Krivtwn, to; mh;
kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev"[18], ajlla; kai; kakovn ti
ejmpoiei' tai'" yucai'""
(115 e), sappi bene … ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una
stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime[19].
Viene in mente anche
il pur antiplatonico Isocrate, lo
strapagato principe della retorica nell'Atene del IV secolo, l'educatore dei
prìncipi: egli afferma che nelle altre facoltà che abbiamo non ci differenziamo
per niente dagli animali, anzi ci troviamo ad essere inferiori a molti per la
velocità, e la forza e per altre risorse. Quindi arriva alla celebrazione quasi
religiosa della parola, senza la quale non ci sarebbe umanità né civiltà: "ejggenomevnou dj hJmi'n tou' peivqein ajllhvlou~ kai; dhlou'n pro;~ hJma'~
aujtou;~ peri; w|n a]n boulhqw'men, ouj movnon tou' qhriwdw'~ zh'n
ajphllavghmen, ajlla; kai; sunelqovnte~ povlei~ w/jkivsamen kai; novmou~
ejqevmeqa kai; tevcna~ eu{romen, kai;
scedo;n a{panta ta; di j hJmw'n memhcanhmevna lovgo" hJmi'n ejstin
oJ sugkataskeuavsa"" (Nicocle[20],
6), ma siccome è connaturata in noi la capacità di persuaderci a vicenda e di
rendere chiaro a noi stessi quello che vogliamo, non solo ci siamo allontanati
dalla vita selvaggia, ma ci siamo riuniti, abbiamo fondato città, dato leggi e
inventato arti, e quasi tutto quanto è
stato costruito da noi è stata la parola a organizzarlo.
La parola dunque è
creatrice e civilizzatrice.
Il prologo del
Vangelo di Giovanni estende questa
considerazione a termini cosmici: " jEn ajrch'/ h\n oJ lovgo", kai; oJ lovgo~ h\n
pro;" to;n qeovn, kai; qeo;" h\n oJ lovgo". ou|to" h\n ejn
ajrch'/ pro;" to;n qeovn. pavnta di' aujtou'
ejgevneto, kai; cwri;" aujtou' ejgevneto oujdevn." In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum
et Deus erat Verbum. Hoc
erat in principio apud Deum. Omnia per ipsum facta sunt, et sine ipso factum
est nihil (1, 1-3), in
principio c'era la Parola e la Parola era con
Dio e la Parola era Dio. Questa era in principio con Dio. Tutto fu fatto
tramite lei e senza lei nulla fu fatto.
Torno al tradurre e
concludo. Credo che tradurre gli ottimi auctores,
i nostri accrescitori, sia un modo, un ottimo modo per incrementare la nostra
capacità linguistica, la nostra facoltà estetica di intendere il bello e pure
il nostro senso etico. Il bello e il bene infatti sono congiunti nella kalokajgaqiva.
giovanni ghiselli
[1] P. Citati, Leopardi, p.58.
[2] J. Joyce, Dedalus,
p. 258.
[3] Sulle orme di Ulisse, p. 151.
[4] De rerum natura, I, 641-642,
[5] Cicerone, De
officiis, I, 130.
[6] Negli anni Ottanta il
mio utilizzo a scuola del Satyricon
era considerata empia o almeno eversiva da certi colleghi, poi un brano di
questo capolavoro venne dato da tradurre a un esame di maturità, e gli incauti
detrattori dovettero tacere, pur mugugnando
[7] Sono parole dello
studente Kolia in I fratelli Karamazov (p. 661) . Questo romanzo è
l'ultimo di Dostoevskij (1821-1881).
[8] A. Giordano Rampioni, Manuale per l'insegnamento
del latino nella scuola del 2000. Dalla didattica alla didassi, Pàtron,
Bologna, 1999,
p. 49.
[9] G. Pascoli, Prose, vol.
I, Milano 1956 (2 ed.), p. 592. Da un rapporto al Ministro della Pubblica
Istruzione del 1893.
[10] R. Palmisciano, Per una riformulazione del curriculum di
letteratura greca e latina nel ginnasio e nei licei, “AION” Phil. 2004,., p. 254.
[11] Scuola di Barbiana, Lettera
a una professoressa, p. 116.
[12] M. Bettini, La
letteratura latina, 3, p. 190.
[13] N. Machiavelli, Il
Principe (del 1513), Dedica al Magnifico Lorenzo De' Medici.
[14] Il canone alessandrino
dei nove lirici più importanti comprendeva Saffo, Alceo, Anacreonte (lirica
monodica), Simonide, Bacchilide, Pindaro, Alcmane, Stesicoro, Ibico (lirica
corale). Li abbiamo menzionati quasi tutti come poeti d'amore e maestri dei
latini.
[15] Institutio oratoria
I, 2, 18.
[16] Ovidio, Ars
Amatoria , II, 123-124.
[19]
Lo ha ricordato Ivano Dionigi nel convegno di Torino-Ivrea dell'ottobre 2003.
Mi allaccio a Don Milani per ricordare un tuo bellissimo articolo in cui difendevi il tuo essere dilettante tanto in quanto trai diletto dalla cultura , e io aggiungo ,carissimo Gianni ,che tu riesci dove tanti falliscono . Tu rendi dilettevoli i testi classici e fai venire voglia di studiare....magari ci fossero più insegnanti come te, mi rendo conto sempre di più della fortuna di averti avuto come docente .Giovanna
RispondiEliminaSono d'accordo.
RispondiEliminaLa cosa più assurda è che l'impostazione esclusivamente tecnicista provocherà un calo di iscrizioni e la conseguente perdita del lavoro. In fondo cosa può interessare la tecnica a un futuro medico, avvocato, ingegnere etc?
Inoltre è molto più facile fermarsi alla tecnica piuttosto che passare le ore sui libri per insegnare anche la letteratura, fermo restando che ora secondo me molti colleghi non conoscono bene neppure la tecnica.
Cicerone comunque, nonostante quello che dice, riesce a tradurre dal greco con precisione e espressività (sto pensando ad alcuni passi delle Tusculane in cui traduce Platone).
alessandro