NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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venerdì 27 dicembre 2013

Sul tradurre



Il 28 gennaio si terrà una tavola rotonda al liceo Galvani sul tradurre.
Ho preparato queste pagine per la parte che mi spetta.

Cicerone afferma che nel tradurre non è opportuno attenersi alla lettera, ma si deve piuttosto interpretare l’originale: “Nec tamen exprimi verbum e verbo necesse erit, ut interpretes indiserti solent” (De finibus bonorum et malorum III, 15), non sarà del resto necessario che si traduca parola per parola, come sono soliti i traduttori stentati.
In un passo degli Academica, l’Arpinate afferma che i poeti arcaici, Ennio, Pacuvio,  Accio, e molti altri, piacciono “qui non verba, sed vim Graecorum expresserunt poetarum” (III, 10), poiché resero non le parole ma la forza dei poeti greci. 

Io mi trovo d’accordo piuttosto con Leopardi.
Leggiamo qualche riga dello Zibaldone sulla traduzione perfetta: “La perfezione della traduzione consiste in questo, che l’autore tradotto, non sia p. e. greco in  italiano, greco o francese in tedesco, ma tale in italiano o in tedesco, quale egli è in greco o in francese. Questo è il difficile, questo è ciò che non in tutte le lingue è possibile” ( 2134).
La lingua italiana la quale è “piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è unica” ha maggiore facoltà rispetto alle altre “di adattarsi alle forme straniere…Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca. Perché alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per ragioni di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di natura e di carattere” ( 964 e 965).
“Amava moltissimo l’italiano perché era una lingua molteplice: come il greco, era un aggregato di molte lingue piuttosto che una lingua sola, e gli concedeva la libertà di tentare ogni stile. Se ebbe sempre molte riserve sulla metafisica, la morale e la cosmogonia di Platone, la sua ammirazione per il Fedro non aveva limiti. Trovava nello stesso testo “non dico tre stili, ma tre vere lingue”; la prima nel dialogo tra Socrate e Fedro, la seconda nelle due orazioni di Lisia e Socrate, la terza nell’orazione di Socrate “in lode dell’amore”[1].
Ma sentiamo di nuovo Leopardi: “Chi vuole vedere un piccolo esempio della infinita varietà della lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue che una lingua sola, secondo che ho detto altrove, e vuol vederlo in uno stesso scrittore e in uno stesso libro; legga il Fedro di Platone. Nel quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle parole che compongono il Dialogo tra socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore.” (Zibaldone, 2717) 

Se devo dire parole mie, credo che le lingue si debbano insegnare attraverso gli autori, partendo da quelli che scrivono con chiarezza e bellezza.
La bellezza infatti è sempre associata alla chiarezza Ad pulchritudinem tria requiruntur: integritas, consonantia, claritas … Lo splendore di cui parla san Tommaso è la quidditas scolastica, l'essenza di una cosa[2].
Boitani traduce claritas con “trasparenza”: “La trasparenza: quella che Tommaso d’Aquino chiamava claritas, e, associandola a consonantia e integritas, considerava uno dei tre criteri della bellezza”[3].
Lucrezio condanna gli stolti che ammirano e amano quanto rimane nascosto sotto parole contorte: "omnia enim stolidi magis admirantur amantque/inversis quae sub verbis latitantia cernunt "[4] gli stolti ammirano e amano di più tutto ciò che scorgono nascosto sotto parole contorte.
Quindi Cicerone: "quae sunt recta et simplicia laudantur"[5], ricevono lode gli aspetti schietti e semplici.

Posso fare degli esempi di testi belli, chiari e funzionali all’apprendimento del greco e del latino: il Nuovo Testamento, o, per stare nei classici, le Troiane di Euripide o l’Edipo re di Sofocle, i carmi del Liber di Catullo o l’Eneide di Virgilio tra i latini. Per quanto riguarda la prosa, indicherei le orazioni di Lisia, o di Isocrate per i Greci; Sallustio, o Seneca, o, perché no[6], Petronio per i latini.

Una grammatica di base è necessaria, per carità, ma non deve essere il punto d’arrivo, bensì solo il primo gradino.   
Il fatto è che talora i tecnicismi sono stati impiegati da insegnanti spiritualmente distorti in maniera mortificante, come " una misura di polizia per rintuzzare le intelligenze "[7].
Riporto un messaggio mandatomi da una mia allieva, un'alunna di trent'anni fa .

"Ciao, ho letto il tuo pezzo sul lavoro ... e la perdita del lavoro ... e
di Odisseo che viaggia viaggia ma brama il ritorno a Itaca, approdo
desiderato e sicuro. Dopo tanti discorsi sul lavoro un po' rituali e un
po' troppo ascoltati, un'immagine chiara ... del desiderio di movimento,
di attività, di pensiero, di sogno .. ma alla fine di approdo sicuro.
Cati
(ex IV F ginnasio del Liceo Minghetti che spesso ricorda le tue lezioni
e la montagna di libri che ci facevi leggere in un'età dove di solito si
leggono solo manualetti di grammatica e letteratura)".

"Pascoli, invitato a stendere una relazione sulle cause dello scarso rendimento degli alunni agli esami di licenza liceale, così si esprimeva: "Si legge poco, e poco genialmente, soffocando la sentenza dello scrittore sotto la grammatica, la metrica, la linguistica…Anche nei licei, in qualche liceo, per lo meno, la grammatica si stende come un'ombra sui fiori immortali del pensiero antico e li aduggia. Il giovane esce, come può, dal liceo e getta i libri: Virgilio, Orazio, Livio, Tacito! de' quali ogni linea, si può dire, nascondeva un laccio grammaticale e costò uno sforzo e provocò uno sbadiglio"[8].
Inoltre: "I più volenterosi si svogliano, si annoiano, s'intorpidiscono…;…e i grandi scrittori non hanno ancora mostrato al giovane stanco pur un lampo del loro divino sorriso"[9].
"Lo studio del greco e del latino si caratterizza soprattutto come uno studio linguistico di impronta grammaticale chiuso in se stesso e funzionale solo in minima parte alla lettura dei testi. In queste condizioni la realtà difficilmente può ripagare gli studenti degli sforzi fatti"[10].
 La grammatica serve a leggere i testi, la metrica, soprattutto l'esametro, il pentametro quindi il distico elegiaco, e il trimetro giambico,  aiuta a memorizzarli.
Ho notato che sono  le persone a disagio con se stesse, incapaci di trovare  una qualsiasi bellezza nella propria vita, le persone che si sentono brutte insomma, e temono la libertà, la crescita mentale dei giovani, quelli che preferiscono fermarsi alla tecnica morfologico-sintattica. Questa, vista come fine,  può oscurare o limitare la bellezza della letteratura.
"Qualcuno, chissà chi, v'ha scritto perfino una grammatica. Ma è una truffa volgare. A ogni regola ci vorrebbe la data e la regione dove si diceva così"[11].
Ricordo, per esempio, che quando studiavo al liceo Mamiani di Pesaro, il preside, tal Marchi, venuto a fare visita alla quarta ginnasio, mi chiese di dirgli "destino" in latino. Dissi fatus. Mi rimproverò: credeva che fossi bravo,  l'avevo deluso. Ci rimasi male. In effetti non ero abbastanza bravo per rispondergli come avrei fatto in terza liceo. 
Al ginnasio non conoscevo il Satyricon dove l'autore usa appunto fatus invece di fatum.  Gli schiavi sono uomini, proclama Trimalchione rimasticando dottrine stoiche: "et servi homines sunt et aeque unum lactem biberunt, etiam si illos malus fatus oppresserit. tamen me salvo cito aquam liberam gustabunt. ad summam, omnes illos in testamento meo manu mitto" (71), pure gli schiavi sono esseri umani e hanno bevuto lo stesso latte, anche se un destino cattivo li ha schiacciati. Comunque, mi venisse un colpo, presto assaggeranno l'acqua libera. Insomma tutti quelli li affranco nel mio testamento.
Fatus   (invece di fatum) è uno di quegli "errori grammaticali" denunciati da chi non se ne intende abbastanza. Non è l'unico caso del genere nel Satyricon dove troviamo balneus (41) per il neutro balneum, bagno, vinus (12) per vinum, caelus (45, 3) per caelum, lasanus (47, 5) per lasanum, vaso da notte, e altri ancora. "Più rari sono gli ipercorrettismi da maschile a neutro ( thesaurum 46). Nel passaggio dal latino all'italiano il genere neutro scompare, e i neutri latini sono diventati in italiano maschili. Il latino volgare anticipa dunque tale evoluzione, e ci fa capire tra l'altro come poté avvenire concretamente questa "scomparsa" di una categoria grammaticale: a poco a poco tutte le parole neutre divennero maschili"[12].

Ho insegnato per 2 anni nel liceo di Imola (uno al biennio uno al triennio) e per cinque al Minghetti (due nel biennio, tre nel triennio), poi per 28 anni in questa scuola: dall'82 al 91 nel ginnasio; dal 92 al 2010 nel liceo. Dal 2000 ho avuto il semiesonero dopo avevo vinto un concorso.
Per 10 anni ho  insegnato didattica della letteratura greca, a contratto, nella SSIS. Traggo alcune di queste considerazioni dalla metodologia che ho elaborato in tutto questo tempo, leggendo, imparando e insegnando. Insomma ho utilizzato "una lunga esperienza delle cose moderne et una continua lezione delle antique"[13].

Ebbene, già insegnando al ginnasio, avvicinavo i ragazzini ai testi belli fin dalla quinta. Un anno di pura morfologia bastava. E d'altra parte, già trattando questa, davo grande spazio allo studio e all'apprendimento del lessico. Nel secondo anno si potevano confrontare le regole della grammatica con testi come l' Edipo re. o le Troiane, l'Eneide o il Vangelo.  Gli allievi portati per le lingue classiche, con questo metodo,  studiavano volentieri, i refrattari meno malvolentieri che se mi fossi fermato ai tecnicismi delle due lingue.
La lobby dei colleghi esclusivamente morfologisti, gli umbratici doctores, che all'epoca dettavano le regole alla scuola spinsero il preside Magnani a chiamare contro di me due ispettori ministeriali in tre anni. Speravano di cacciarmi. Non potevano tollerare che molti allievi con le loro famiglie dicessero che ero più bravo e interessante di loro, pallide vestali del manuali.
Il protagonista del Satyricon   contrappone tali maestrucoli ai grandi tragici: "nondum iuvenes declamationibus continebantur, cum Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus deberent loqui, nondum umbraticus doctor ingenia deleverat, cum Pindarus novemque lyrici Homericis versibus canere timuerunt. et ne poetas solum ad testimonium citem, certe neque Platona neque Demosthenen ad hoc genus exercitationis accessisse video" (2, 3-5), ancora i giovani non erano chiusi nelle vuote declamazioni, quando Sofocle e Euripide trovarono le parole con le quali dovevano parlare, non c'era ancora un erudito cresciuto nell'ombra a scempiare gli ingegni, quando Pindaro e i nove lirici[14],  si peritarono a cantare in versi omerici. E per non far venire solo i poeti come testimoni, di certo non trovo che Platone né Demostene si sono abbassati a questo genere di esercitazione. 
Anche il classicista Quintiliano  vuole  escludere l'ombra, la solitudine e la muffa dall'educazione del ragazzo che sarà un buon  oratore: "Ante omnia futurus orator, cui in maxima celebritate et in media rei publicae luce vivendum est, adsuescat iam a tenero non reformīdare homines neque illa solitaria et velut umbratica vita pallescere. Excitanda mens est et adtollenda semper est, quae in eiusmodi secretis aut languescit et quendam velut in opaco situm ducit, aut contra tumescit inani persuasione; necesse est enim nimium tribuat sibi, qui se nemini comparat "[15], prima di tutto il futuro oratore che deve vivere frequentando moltissime persone, e in mezzo alla luce della politica, si abitui  fin da ragazzo a non temere gli uomini e a non impallidire in quella vita solitaria e come umbratile. Va tenuta sveglia e sempre innalzata la mente che in solitudini di tal fatta o si infiacchisce e nella tenebra prende un certo puzzo di muffa, o al contrario si gonfia di vuoti convincimenti: è infatti inevitabile che attribuisca troppo a se stesso chi non si confronta con nessuno.
Il maestro pallido desta una diffidenza o addirittura una ripugnanza istintiva, anche fisica nel giovane discepolo. Fidippide, il figlio di Strepsiade, rifiuta i cattivi educatori della scuola di Socrate anche per il loro colore giallastro, malsano: "aijboi', ponhroiv  g' oi\\da. tou;" ajlazovna"-tou;" wjcriw'nta" tou;" ajnupodhvtou" levgei" (Nuvole, vv. 102-103), puah!, quei furfanti,  ho capito. Tu dici quelle facce pallide, gli scalzi.  
Voglio dire che il greco e il latino vanno collegati non solo alla successiva letteratura europea ma anche alla vita. E che noi docenti dobbiamo avere cura anche del nostro aspetto.
Per fortuna in quegli anni, siamo nella seconda metà degli Ottanta, le cose stavano cambiando nella scuola italiana e nel suo Ministero: i due inquisitori dei miei presunti peccati sbugiardarono i minimalizzatori del greco e del latino: il primo, Adelelmo Campana, scrisse nel rapporto, come poi seppi, che Giovanni Ghiselli era uno dei migliori insegnanti d’Italia, il secondo Antonio Portolano, mi cooptò nel suo gruppo di lavoro e di studio. Attualmente continuo a collaborare con l’ispettore Luciano Favini succeduto a Portolano.
Io credo che se non si renderà più vivace lo studio del greco e del latino, continuerà la crisi delle vocazioni e la conoscenza di queste lingue un poco alla volta scomparirà. Invece è necessario farne rifiorire lo studio per il bene della nostra cultura e della civiltà italiana.
L’argomento che uso a priori per invogliare i ragazzi è che il greco e il latino sono, come minimo, e se non altro, dei mezzi per conoscere meglio la lingua italiana, strumenti funzionali a scrivere meglio, a parlare in maniera più persuasiva, capacità che sono utili alla vita, che accrescono  potenza in tutti i campi, da quello religioso a quello erotico, per dire i due estremi
A questo proposito cito due maestri, un magister di amore e uno di religione e di morale. Li ricordo in ordine cronologico.
"Non formosus erat, sed erat facundus Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas [16]. ", bello non era, ma era bravo a parlare Ulisse, e pure fece struggere d'amore le dee del mare, scrive Ovidio nell'Ars amatoria. Sono versi non per caso citati da Kierkegaard nel Diario del seduttore
Don Milani insegnava che "bisogna sfiorare tutte le materie un po' alla meglio per arricchire la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti nell'arte della parola"[17].
Parlare e scrivere male è la quintessenza del fallimento dell’essere umano che è animale linguistico
Parlare male, affermava Socrate nel Fedone , non  solo è una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime: " euj ga;r i[sqi a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev"[18], ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene … ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime[19].

Viene in mente anche il pur antiplatonico  Isocrate, lo strapagato principe della retorica nell'Atene del IV secolo, l'educatore dei prìncipi: egli afferma che nelle altre facoltà che abbiamo non ci differenziamo per niente dagli animali, anzi ci troviamo ad essere inferiori a molti per la velocità, e la forza e per altre risorse. Quindi arriva alla celebrazione quasi religiosa della parola, senza la quale non ci sarebbe umanità né civiltà: "ejggenomevnou dj hJmi'n tou' peivqein ajllhvlou~ kai; dhlou'n pro;~ hJma'~ aujtou;~ peri; w|n a]n boulhqw'men, ouj movnon tou' qhriwdw'~ zh'n ajphllavghmen, ajlla; kai; sunelqovnte~ povlei~ w/jkivsamen kai; novmou~ ejqevmeqa kai; tevcna~ eu{romen, kai;  scedo;n a{panta ta; di j hJmw'n memhcanhmevna lovgo" hJmi'n ejstin oJ sugkataskeuavsa"" (Nicocle[20], 6), ma siccome è connaturata in noi la capacità di persuaderci a vicenda e di rendere chiaro a noi stessi quello che vogliamo, non solo ci siamo allontanati dalla vita selvaggia, ma ci siamo riuniti, abbiamo fondato città, dato leggi e inventato arti, e  quasi tutto quanto è stato costruito da noi è stata la parola a organizzarlo.
La parola dunque è creatrice e civilizzatrice.
Il prologo del Vangelo di Giovanni  estende questa considerazione a  termini cosmici: " jEn ajrch'/  h\n oJ lovgo", kai; oJ lovgo~ h\n pro;" to;n qeovn, kai; qeo;" h\n oJ lovgo". ou|to" h\n ejn ajrch'/ pro;" to;n qeovn. pavnta di' aujtou' ejgevneto, kai; cwri;" aujtou' ejgevneto oujdevn." In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum et Deus erat Verbum. Hoc erat in principio apud Deum. Omnia per ipsum facta sunt, et sine ipso factum est nihil (1, 1-3), in principio c'era la Parola e la Parola era con  Dio e la Parola era Dio. Questa era in principio con Dio. Tutto fu fatto tramite lei e senza lei nulla fu fatto.

Torno al tradurre e concludo. Credo che tradurre gli ottimi auctores, i nostri accrescitori, sia un modo, un ottimo modo per incrementare la nostra capacità linguistica, la nostra facoltà estetica di intendere il bello e pure il nostro senso etico. Il bello e il bene infatti sono congiunti nella kalokajgaqiva.

giovanni ghiselli


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[1] P. Citati, Leopardi, p.58.
[2] J. Joyce, Dedalus, p. 258.
[3] Sulle orme di Ulisse, p. 151.
[4] De rerum natura, I, 641-642,
[5] Cicerone, De officiis, I, 130.
[6] Negli anni Ottanta il mio utilizzo a scuola del Satyricon era considerata empia o almeno eversiva da certi colleghi, poi un brano di questo capolavoro venne dato da tradurre a un esame di maturità, e gli incauti detrattori dovettero tacere, pur mugugnando
[7] Sono parole dello studente Kolia in I fratelli Karamazov (p. 661) . Questo romanzo è l'ultimo di Dostoevskij (1821-1881).
[8] A. Giordano Rampioni, Manuale per l'insegnamento del latino nella scuola del 2000. Dalla didattica alla didassi, Pàtron, Bologna, 1999, p. 49.
[9] G. Pascoli, Prose, vol. I, Milano 1956 (2 ed.), p. 592. Da un rapporto al Ministro della Pubblica Istruzione del 1893.
[10] R. Palmisciano, Per una riformulazione del curriculum di letteratura greca e latina nel ginnasio e nei licei, “AION” Phil. 2004,., p. 254.
[11] Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, p. 116.
[12] M. Bettini, La letteratura latina, 3, p. 190.
[13] N. Machiavelli, Il Principe (del 1513), Dedica al Magnifico Lorenzo De' Medici.
[14] Il canone alessandrino dei nove lirici più importanti comprendeva Saffo, Alceo, Anacreonte (lirica monodica), Simonide, Bacchilide, Pindaro, Alcmane, Stesicoro, Ibico (lirica corale). Li abbiamo menzionati quasi tutti come poeti d'amore e maestri dei latini.
[15] Institutio oratoria I, 2, 18.
[16] Ovidio,  Ars Amatoria , II, 123-124.
[17]Lettera a una professoressa  , p. 95.
[18] Aggettivo formato da plhvn e mevlo~, contro il tono, contro il metro.
[19] Lo ha ricordato Ivano Dionigi nel convegno di Torino-Ivrea dell'ottobre 2003.
[20] Del 368 a. C. Le stesse parole tornano nell’Antidosis (254-255) del  354 a. C.

2 commenti:

  1. Mi allaccio a Don Milani per ricordare un tuo bellissimo articolo in cui difendevi il tuo essere dilettante tanto in quanto trai diletto dalla cultura , e io aggiungo ,carissimo Gianni ,che tu riesci dove tanti falliscono . Tu rendi dilettevoli i testi classici e fai venire voglia di studiare....magari ci fossero più insegnanti come te, mi rendo conto sempre di più della fortuna di averti avuto come docente .Giovanna

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  2. Sono d'accordo.
    La cosa più assurda è che l'impostazione esclusivamente tecnicista provocherà un calo di iscrizioni e la conseguente perdita del lavoro. In fondo cosa può interessare la tecnica a un futuro medico, avvocato, ingegnere etc?
    Inoltre è molto più facile fermarsi alla tecnica piuttosto che passare le ore sui libri per insegnare anche la letteratura, fermo restando che ora secondo me molti colleghi non conoscono bene neppure la tecnica.
    Cicerone comunque, nonostante quello che dice, riesce a tradurre dal greco con precisione e espressività (sto pensando ad alcuni passi delle Tusculane in cui traduce Platone).
    alessandro

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