Passo San Pellegrino |
Le sciate precipitose del
Laurino. Le due gomme bucate. Il gioco delle bocce. La passeggiata lungo il rio
San Pellegrino. Il fortino austriaco negli anni Cinquanta. Il secondo tramonto
nella casa di via Damiano Chiesa. Il pensiero malato della verginità.
L'isolamento antico. "Perché tardi son giunto". Accettazione della
solitudine. La stanza di Ifigenia. Il colloquio immaginato con la figlia
immaginaria. L'incontro alla stazione di Trento. L'unione misera. La tristezza
e l'abbronzatura forzata nel freddo arrabbiato. Alla Malga Panna.
Tornai all’albergo “La Campagnola” che ero depresso. Avevo fatto un
grosso sbaglio aggredendola per le cugine. "D'altra parte - pensavo - non
sono del tutto cretino né tanto portato a commettere errori: quando voglio, li
evito. Se non lo faccio, significa che intendo utilizzarli per correggere o
cancellare una situazione malsana. Domani vedremo". Dopo questo pensiero
mi riconciliai con me stesso e mi addormentai.
La mattina del sei marzo andai a sciare sulle piste del Laurino. Salivo
con un bidone, adagio, tra le gelide ombre di un bosco, poi scendevo a precipizio
per un pendio scosceso e poco innevato. La pista, ripida al pari di un tetto
aguzzo, è sovrastata dalla Roda di Vael, una roccia sottile e appuntita come
una guglia. Più volte mi buttai giù per la dirupata discesa invocando Ifigenia:
se vacillavo perché mi aiutasse a non cadere, se scendevo veloce, affinché mi
infondesse la forza e il coraggio di continuare. Sul mezzogiorno, quando il sole
sembrò sbaragliare le nubi con le quali lottava dalla mattina, mi fermai sotto
la rupe, tanto affilata e luminosa da sembrare una spada. Volevo abbronzarmi
mentre mangiavo un panino. Presto però la calda luce fu soverchiata dal vento e
dalle nuvole; allora mi mossi per tornare a Moena.
Mentre entravo in paese, forai un pneumatico dell'automobile che
dovetti lasciare a un gommista poiché era bucata anche la ruota di scorta.
Aspettando che la Volkswagen avesse le gomme aggiustate, andai al bar Maria per
vedere il gioco delle bocce, come facevo spesso quando ero bambino. Vidi e
riconobbi alcune persone di trent'anni prima. Erano invecchiati, ma recitavano
la stessa parte, dicendo parole e facendo gesti simili a quelli di allora. Dopo
avere lanciato, o lasciato cadere di mano la boccia, la seguivano, la
sgridavano, la incoraggiavano, come si fa con una creatura. Notevole tra tutti
era “Micelotto” che gridava e si agitava in una farsa seguita dal pubblico con
grande piacere. "L'è bela, l'è bela", diceva spesso della propria giocata,
consapevole e soddisfatto di essere bravo. Lo osservavo con attenzione e
simpatia. "Quanti anni può avere? - Mi chiesi - Allora era un ragazzo.
Adesso una cinquantina. Però gli piace sempre farsi guardare". Bocciava e
recitava bene del resto. La sua parte migliore nel mondo doveva essere quella:
fare vedere e sentire come sia bello giocare alle bocce. Certo è meglio che
giocare con le persone. Ciascuno di noi, quando fa qualche cosa con passione e
attitudine, dopo molto esercizio sa farla bene e vuole darlo a vedere.
Micelotto accarezzava ognuna di quelle sue creature rotonde, la faceva uscire
dalla mano, e la seguiva incoraggiandola come un padre amoroso: se gli sembrava
corta, accennava il gesto di spingerla; se lunga, di trattenerla e dissuaderla
dal proseguire. Era un attore anche lui. Aveva un repertorio limitato, ma lo
eseguiva con amore e con arte. Quando piazzava un tiro ottimo, e gli riusciva
spesso, lo ricompensavano gli applausi del pubblico e un sorso di vino.
"Caro, simpatico Micelotto, mi piacevi quando ero un bambino e tu
un giovane uomo, quasi un ragazzo ancora, un po’ rincagnato a dire il vero, ma
dallo sguardo vivace, e mi piaci adesso, dopo che sono passati trent'anni
intorno a noi, come le nuvole sopra questa nostra valle di Fassa”.
Tornai dal gommista: l'automobile non era pronta. Per fare qualcosa, mi
incamminai verso il paesino Someda, sopra il rio San Pellegrino. Dall'altra
parte del torrente che scorre nel fondo della convalle stretta come una gola,
c'è “La Campagnola”, sulla la strada del passo San Pellegrino che porta a
Belluno. Da bambino, appena la zia Giulia mi dava il permesso, camminavo da
quella parte, in direzione del valico. Prima passavo davanti a una cisterna d'acqua
che rumoreggiava. Fantasticavo che fosse un deposito di armi degli austriaci, i
nemici della mia patria, come mi insegnavano i maestri dell’epoca postfascista,
invece di parlarmi di Mozart, di Musil, di Freud, o almeno dell'ottima
amministrazione asburgica nel Lombardo-Veneto. Giravo con un ramo in mano, impugnandolo
come un fucile, che tuttavia non bastava per conquistare l'armeria sorvegliata
da una decina di quegli odiosi soldati in divisa bianca; allora pensavo di
farla saltare con delle mine. Ma poi ci ripensavo, poiché ammazzare in maniera
così vigliacca, sebbene coloro fossero tanto crudeli, mi ripugnava.
Allora proseguivo finché vedevo la fortezza nemica sorgere sulla strada
di fronte, dopo Someda. Decidevo di minarla mentre era sguarnita del presidio,
uscito per vessare il paese italiano. Però dovevo superare il vuoto compreso
tra le due pareti della stretta convalle. Scendevo a precipizio per un burrone
ripido e tetro, tutto ombreggiato da
fitti rami di abeti. Arrivato in fondo, guadavo il torrente saltando sui sassi
emergenti dall'acqua gelida e cupa nel pomeriggio inoltrato di fine agosto,
quindi risalivo su per l'altro pendio, altrettanto scosceso ma soleggiato
poiché volto a occidente e privo di alberi. Però c'era l'erba alta, dove
potevano stare nascosti in agguato serpenti e scorpioni.
Tutto questo mi faceva paura, mi emozionava, salvandomi dalla noia
della gran solitudine, mi spronava a ribellarmi alle zie che mi volevano
“prudente”, ossia pauroso e sottomesso all’autorità. Quando arrivavo in alto,
osservavo la valle di Fassa. Facevo attenzione all'ombra del Sas da Ciamp che
sovrasta la malga Panna: appena aveva oscurato il prato di Sorte e la chiesa
con il cimitero, dovevo tornare di corsa, poiché la zia voleva vedermi prima
del tramonto, altrimenti telefonava al soccorso alpino che rintracciava i
bambini dispersi, e li salvava dalla morte per freddo o per lupi, ma li
picchiava anche, e con mano pesante. Ero stato avvertito. Andavo comunque di
fretta fino al fortino austriaco per farlo saltare in aria e liberare intanto
gli Italiani di Someda e di Moena.
Quando lo vidi da vicino la prima volta, rimasi deluso: invece di mitragliatrici
e cannoni, nel prato antistante c'erano pacifici arnesi da contadino, tanto
sterco di mucca, e un cartello con la scritta "Proprietà privata ".
Comunque io lo minavo e fuggivo a gambe levate finché la strada era piana. Poi
ripercorrevo le due pareti della convalle: una scivolando sull'erba, l'altra
inerpicandomi tra le ombre del bosco e della sera, semiterrorizzato. Quando
arrivavo alla Campagnola, la zia Giulia diceva: "Dove sei stato per
conciarti in quella maniera? Quando ti metterai tranquillo come i bambini
normali? Oramai le vacanze sono finite! Non sei ancora sazio di correre,
scalmanarti, azzardare? Non sei mai
stato prudente!"
Per fortuna non aspettava che rispondessi, ma continuava a rimproverarmi
per un pezzo; sicché non dovevo dirle la verità, né una bugia. Quando si era
placata, tornavamo a casa, in via Damiano Chiesa 11. In agosto, alle sette di
sera, dalle finestre del tinello, se non c'erano nuvole, si vedeva ancora un
poco di luce solare sulle rocce più alte. Era fredda e leggera, come se vi fosse
stata dipinta, o cosparsa, quale polvere rosa. Più a lungo che altrove
resisteva sulla cima del Sassolungo, in fondo al Catinaccio.
Osservare gli ultimi raggi raccolti dalle vette infreddolite, era come
fruire di un secondo tramonto. La luce trascolorante tardava a scomparire
tutta, e mentre assumeva le tonalità più delicate, sembrava intenerire le aspre
pietraie dove i palpiti estremi del dì indugiavano come bambini che non
vogliono andare a dormire, o come vecchi renitenti a morire.
Tali ricordi rimuginavo il 16 marzo del 1981 mentre camminavo sopra il
rio San Pellegrino, dalla parte illuminata. Qualche ora più tardi sarei andato
alla stazione di Trento, a prendere Ifigenia.
A un tratto mi aggredì il pensiero malato della verginità. Volevo respingerlo.
Salii sul ciglio della parete e mi fermai a osservare il torrente che scorre
circa un chilometro sotto. Notai un piccolo ponte di legno che una volta non
c'era. Vi giunsero alcuni bambini che cominciarono a giocare: gettavano palle
di neve e pezzi di ghiaccio nell'acqua corrente che li trascinava verso
l'Avisio; gridavano con voci liete alcune parole che di lassù non potevo capire.
Allora mi sorprese il ricordo del pomeriggio di un agosto remoto.
Mi trovavo sullo stesso sentiero, e osservavo dall'alto lo scorrere eterno
del rio San Pellegrino. Quand'ecco che sul greto vidi arrivare un gruppetto di
bambini della mia età che subito dopo si misero a giocare con l'acqua e con i
sassi. Mentre li guardavo, mi accorsi che uno di loro era Gianluca, un mio
amico dell'anno prima. Insieme eravamo scesi giù per i prati con una slitta di legno,
avevamo seguito le partite di bocce, e avevamo parlato di tante cose in un
giorno di pioggia, riparati sotto un castagno dalle foglie grandi, lucide,
scure, simili a ombrelli. Mi piaceva passare il tempo con lui. Quell'estate
però, sebbene fosse già la fine di agosto, non lo avevo ancora incontrato. Come
lo vidi, provai gioia. Cominciai a chiamarlo, ma non mi sentiva. Mi diedi ad
agitare le braccia, mentre gridavo il suo nome con tutta la mia esile e acuta
voce di bambino decenne. Ero troppo lontano, troppo in alto, e Gianluca non
guardava in su, siccome tutto impegnato a giocare con gli altri e con i
ciottoli del greto. Dopo alcuni tentativi, fui certo che di lì non potevo
attirare la sua attenzione; allora mi precipitai giù per il pendio. Correvo,
saltavo, mi rotolavo: mi graffiai, mi sbucciai, mi ammaccai in più punti. In breve arrivai nel fondo. Desideravo tanto parlare
con quell'unico amico, e conoscere gli altri. Ma quando fui giunto, non c'era
più nessuno. Mi trovai solo, a fissare il torrente che con la schiuma lamentosa
tormentava le pietre. Girai per tutta la zona, poi per l'intero paese
cercandoli: invano. Ne fui addolorato: dovetti passare in solitudine anche quel
pomeriggio e gli altri che rimanevano.
"Sono stato molto solo a Moena - pensavo il sei marzo del 1981 ricordando
l'episodio antico - In quelle estati lontane, tra questi monti, si prefigurava
la mia vita di adulto".
Volli riprovare a percorrere l'erto pendio per avvicinarmi ai bambini,
per ascoltarli e raccogliere segni del volere divino attraverso le loro voci,
forse profetiche. Mentre scendevo, continuavo a guardarli. Ebbene, quando fui a
metà, i fanciulli andarono via di corsa. Allora mi dissi: "Che cosa
significa questo?"
"La mia tendenza a giungere tardi", risposi e mi vennero in
mente alcuni versi di un poeta magiaro, Juhàsz Gjula, morto suicida nel 1937:
"Perché tardi son giunto.
So già il peso della mia sorte,
la segreta tristezza e perché non v'è speranza,
perché è pallido l'arcobaleno sul cielo del mio destino
e presto viene la notte. Perché tardi son giunto...
Perciò nessun dizionario mi dà nuovi verbi...
Perché tardi son giunto
Perciò non ebbi nella schiera delle fanciulle
un cuore a me devoto... Perché tardi son giunto"
Juhàsz si era ammazzato con il veronal,
diceva il manuale di storia della letteratura ungherese, in quanto non era
riuscito a rompere il cerchio della solitudine.
"Devo farlo anche io?" Mi domandai
"No - mi risposi - dal mio arrivare tardi posso trarre un senso
positivo. Significa, è vero, restare solo, dolorosamente, ma questo porta anche
a riflettere sulla mia stranezza, sulle mie sofferenze, fino a farne mezzi di crescita
personale e di solidarietà umana. Se negli anni Cinquanta a Moena non fossi
stato tanto solo, non mi sarei abituato fino da allora a indagare me stesso[1],
ed ora non avrei coscienza di me: sarei un'altra persona, e non credo migliore.”
Più tardi, con le donne, il mio giungere tardi si è ripetuto.
La Sarjantola era incinta di un altro. Kaisa era la moglie di un altro.
Päivi, che era libera, in luglio e in agosto mi amò, in settembre abortì, poi
tacque fino al maggio successivo quando disse che non voleva vedermi. Così più
o meno le altre. E vi furono altre ancora. Vennero donne con proteso il
cuore[2]. E meravigliosamente io le conobbi[3], ma ognuna dileguò senza
vestigio[4].
Se andrò avanti in questa maniera, io diventerò come la peccatrice del
Vangelo: i miei molti peccati mi verranno perdonati quoniam dilexi multum poiché molto ho amato. Anche a me Gesù Cristo
dirà: “Remissa sunt peccata tua” [5].
Ifigenia, se l'avessi incontrata con qualche mese di anticipo, forse
avrebbe cambiato la mia vita solitaria. Aveva detto che quando mi vide la prima
volta, nel novembre del '75, da studentessa, le ero piaciuto assai, ma lei allora
aveva solo diciassette anni, troppo piccola era per cominciare, e quando si
sentì matura, iam matura viro[6],
nella primavera del '78, quando sorrideva alla propria felicità sessuale, mi
vide malamente ingrassato. Allora iniziò con Felice, e anche per questo non mi sono
sentito in dovere di fermarmi con lei. Mi vergogno ad ammetterlo ma è così.
D'altra parte, se l'avessi sposata, non sarei andato avanti su questa mia
strada che mi porta a educare i giovani con tutta la forza, parlando e
scrivendo, siccome avrei dovuto affrontare problemi più pratici.
Il ritardare dunque, lo stare in solitudine a riflettere, a
fantasticare, a ricordare, sono parti essenziali del mio destino e del mio
carattere: mi sono state indispensabili per comprendere e valorizzare il meglio
di me.
Perciò non suicidio, ma accettazione del fato dove è insita una giustizia
profonda eppure perscrutabile. Io non devo avere paura della solitudine -
continuavo a pensare - Non posso temere il mio destino.
Ifigenia, certamente non è la pessima del mazzo, e con i problemi di
cui mi onera, mi fa scoprire nuovi burroni di isolamento e di sofferenza, però
mi apre anche sublimi varchi di luce sopra la testa. Adesso sono inquieto
poiché non ho ancora trovato la mia posizione naturale, come una tartaruga
rovesciata"[7].
Alla fine di questo rimuginare, mi venne in mente quanto scrive Tolstoj
sulla mela: “Cadrà da sé quando sarà matura, ma se la cogli verde, rovinerai la
mela e l’albero e ti si allegheranno i denti”[8]. Terminato questo pensiero,
ero arrivato a recuperare l'automobile.
Più tardi in albergo mi preparai per l'incontro. Volevo piacerle. Mi lavai,
mi feci la barba, mi vestii sotto e sopra con cura particolare. Poi scesi dal
portiere e mi feci dare la chiave della stanza dove avrebbe dormito la
signorina. Avevo preso una seconda camera per non dare alle zie la certezza e
la prova della nostra intimità. Avrebbero anatemizzato la ragazza non illibata.
La stanza era luminosa, con vista sui monti pallidi che, posti a oriente, la
sera si tingono di rosa, come una donna che vuole incontrare l'amante.
Però la chiave non serrava la porta. "Qui non si può fare l'amore
con tranquillità – pensai – brutto segno".
Dopo l'ispezione andai a cenare, quindi partii per la stazione di Trento.
Durante il viaggio non lungo né brevissimo, fantasticavo.
Immaginavo che dentro l'automobile, di fianco a me ci fosse una bambina
bella, bruna, vivace, simile a Ifigenia, e pure a me. La nostra creatura
immaginaria mi domandava: "Dove andiamo, babbo?"
"Alla stazione di Trento cocca, incontro alla mamma",
rispondevo.
"E' bella la mamma?"
"Sì molto. Tua madre è una donna straordinaria: la più bella e intelligente
del mondo".
"Più bella di me?", voleva sapere, con rivalità tipicamente femminile.
"No", rispondevo con qualche imbarazzo, benché sia portato a
corteggiare non senza sperticate lusinghe le femmine umane di ogni età,
condizione e razza, poiché in tutte trovo qualcosa di interessante e degno di
essere indagato, come in me stesso. "Lei è la migliore di tutte le donne; tu
la cittina più bella del mondo".
"Sì, ma a te chi piace di più?"
"Mi piacete entrambe", concludevo da gesuita, senza dire che Ifigenia
mi piaceva di più perché con lei facevo l'amore. E perché era ancora reale. Così
tenni occupato il cervello durante il viaggio da Moena a Trento dove arrivai
poco prima del treno. La mia donna era bella e sicura di sé. Quanto mutata da
quella che era arrivata in ritardo un anno prima, da me che la disprezzavo! Mi
raccontò dei suoi progressi all'Antoniano e del suo ottimo insegnante.
"Ottimo ma non attraente - aggiunse subito - ha la pancia".
"Meno male", borbottai. Poi dissi che l'avevo pensata molto,
nel bene e nel male.
"Non pensarmi troppo-ribatté-soprattutto nel male, poiché dopo vengono
fuori le scenate telefoniche come quella di ieri che francamente mi ha turbata
parecchio".
Non risposi: non volevo indagare sull'argomento con il rischio di precipitare
nell'angoscia scoscesa; piuttosto bisognava fare l'amore innumerevoli volte,
fino a perdere il fiato e la lucidità della mente. Però compresi che la mia
brutta telefonata era stata presa male assai. Quando, verso mezzanotte,
arrivammo alla Campagnola, salimmo subito in camera mia e facemmo l'amore due
volte; la seconda con una certa fatica. Quindi Ifigenia disse che aveva sonno e
voleva andare a dormire. "Va bene - bisbigliai - vestiamoci. Ti
accompagno". La seguii fino alla porta della sua stanza, senza dire altro.
La salutai e tornai nella mia.
Mi spogliai e mi infilai nel letto. Mi chiedevo quale fosse il significato
dell'accaduto. Mi tornò ancora in mente il nostro rivederci dell'anno
precedente, il primo marzo del 1980. L'incontro alla stazione di Trento, il
viaggio fino a Bologna, poi il sesso nel mio grande letto. Due orgasmi pure
quella sera, due miseri orgasmi.
Allora con dolore e con pianto aveva notato che io non l'amavo più:
infatti nel marzo del '79, nel tempo illuminato da Eros e scaldato da Priapo,
l'amore lo facevamo sei, otto volte, ed erano altrettanti tripudi moltiplicati
per due.
"Adesso è lei che non mi ama – pensai - Devo farglielo
notare".
Saltai fuori dal letto, mi rivestii, e tornai in camera sua, di corsa, per
domandarle se il mio ragionamento filava. Sapevo bene che non faceva una
grinza. Ifigenia rispose che le due situazioni non erano uguali: l'anno prima
eravamo arrivati alle dieci di sera, a Bologna, dove avevamo a disposizione una
casa con talamo matrimoniale; lì a Moena era quasi l'una, il letto era singolo,
un po’ cigolante, e noi dovevamo stare attenti a non fare rumore per via delle
zie inevitabili, capaci di controllarci perfino lassù: bastava una telefonata.
Sofismi, calo, adulterazione della passione: “She has lost her passion”[9].
"Va bene - dissi, per niente convinto - In effetti è tardi. Vado a dormire.
Ci vediamo domani". Nel cuore sentivo che quella ragazza, bella, aspirante
al successo, stava diventando una donna, e come tale non mi voleva più: non aveva
altra ragione che l'esame di abilitazione per restare con me: non tanto bello,
né giovane, né ricco, né famoso. Mi mancavano i numeri per una giovane donna
siffatta. Invece di dormire, mi inabissavo nel naufragio della mia sorte. La
mattina appena sveglio, sentii un gran desiderio di Ifigenia che prevedevo
radiosa come il sole, quando sorge in primavera, né presto né tardi, dai monti
del passo San Pellegrino ancora innevati. Infatti apparve, luminosamente, nella
sala da pranzo dove l'aspettavo da alcuni minuti. Dopo la colazione salimmo
all'Alpe di Lusia. La ragazza sedette su una panchina di ferro, davanti al rifugio
Le Cune nell'aria ghiaccia ma luminosa, per abbronzarsi; io feci alcune discese
fino a mezzogiorno, quindi tornai da lei.
Il vento soffiava sempre sbuffi gelati. Stare lì fermi era una pena.
D'altra parte, siccome il sole era alto, ci rimordeva perderlo, rinunciando
a non poco colore, per entrare nel rifugio scaldato dai termosifoni. Preferimmo
rimanere a patire nel gelo, un freddo arrabbiato ma pieno di luce. Parlammo
poco: dovevano essere assiderate pure le lingue. Le cattiverie che avevamo da
dirci le tenemmo in serbo per la sera. Ricordo soltanto una mia osservazione
che a lei piacque. A un certo momento soffrivamo l'aria raggelante al punto che
pregavamo le nuvole di nasconderci il sole e darci l'autorizzazione a entrare
nel rifugio senza rimorso. Ma quelle, pur assediandolo, non arrivavano a
coprirlo, e il dio luminoso continuava a irradiare proprio soltanto nel luogo
dove eravamo seduti noi, senza intiepidirci del resto.
Dissi: "Questo sole, come il nostro amore è algido, scontato e noioso
siccome c'è da tanto tempo e sembra che non voglia sparire. Ma se dovesse
eclissarsi o tramontare, ci lascerebbe sotto un povero cielo senza colori, in
un buio infernale privo di vita. Se non ci fosse lui, a stare alle altre stelle
sarebbe sempre notte[10]. Ifigenia trovò interessante la mia osservazione.
Disse che ci avrebbe pensato sopra. La sera andammo alla malga Panna. Sedemmo
vicino al focolare e alle fiamme che, mentre si contorcevano nel caminetto, si
riflettevano metallicamente sui rami e i ferri appesi alle pareti, sulle
bottiglie, i bicchieri e i piatti dei tavoli, sui nostri occhi arrossati, immillandosi
in un luccicore febbrile. Ci fronteggiavamo.
Un anno più tardi Ifigenia avrebbe ricordato la sera del sette marzo
1981 come quella del nostro sbudellarci davanti al fuoco diabolicamente
bizzarro. Cerco di ricostruire il dialogo riferendo, se posso, le parole
precise che dicemmo, e, dove la memoria non basta, ricostruendo quanto ciascuno
avrebbe potuto dire in modo confacente al suo carattere e alla situazione
disgraziata nella quale ci eravamo cacciati.
giovanni ghiselli
Il blog http://giovannighiselli.blogspot.it/è arrivato a 122989.
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[1] Cfr. Eraclito: “ejdizhsavmhn
ejmewutovn” (fr. 126D), ho indagato me stesso.
[2] Cfr. Gozzano, La signorina Felicita, 259.
[3] Cfr. D’Annunzio, Laudi; Maia, Le donne.
[4] Cfr. Gozzano, La signorina Felicita, 260.
[5] Cfr. N. T., Luca, VII, 4 7.
[6] Eneide, VII, 53
[7] Cfr. Seneca, Ep. 121, 8
[8] Guerra e pace IV, 2, 17.
[9] "Ha perduto la sua passione". Cfr. T. S. Eliot, Gerontion, 61.
[10] Cfr. Eraclito, fr.44 Diano
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