Malga Panna |
Il
nostro sbudellarci davanti al fuoco della malga Panna. Lasciamo fare al
destino. La giornata della donna. Il colpo inferto sulla piaga dell'anima. Il
burrone interiore.
Gianni. In questi lunghi giorni di
solitudine ti ho pensata a lungo, ma non sempre bene.
Ifigenia. Lo so. L'ho capito dalla tua
telefonata. Mi ha tolto l'equilibrio. Io, dopo Ludwig, avevo trovato un ottimo
accordo con la tua immagine: con il tuo aspetto, il tuo pensiero, con tutta la
tua persona. Fino al pomeriggio di ieri l'altro, ti amavo di nuovo. Ma poi, con
quella uscita da pazzo, hai fatto impazzire anche me.
Gianni. Spiegati meglio; che cosa vuoi
dire?
Ifigenia. Adesso la mia anima non è più
completamente indirizzata e impegnata ad amarti. Io sento degli strattoni che
mi fanno vacillare. Provo interessi nuovi, molto forti, e non so conciliarli
con l'amore per te. L'ho sentito dopo la telefonata. Con la tua possessività
esigente, ansiosa, mi hai fatto paura. Se vuoi, te ne posso dare un'immagine
attraverso una metafora semplice ed evidente.
Gianni. Va bene.
Ifigenia. Nella mia testa c'è un tarlo
che rode, scava, e tende a distruggere il nostro amore.
Gianni. Puoi dargli un nome?
Ifigenia. Sì. E' l’assillo del maestro.
Gianni. Vuoi dire che sei ancora
innamorata, o ti sei innamorata di nuovo, del maestro di danza?
Ifigenia. No, non di lui. E' un fatto
più generale. Gennaro però mi ha dato coscienza del problema. Capisci? E tu,
per quale ragione non pensi bene, o non soltanto bene di me? Il tuo assillo
qual è?
Esitai un momento prima di darle la
cruda risposta. La osservavo: i bagliori del fuoco le illuminavano cupamente la
parte sinistra del volto.
Gianni. Io sento il bisogno di amare una
ragazza dall’anima lucida e aperta, generosa, piena di slanci. Temo che tu l’abbia
già appesantita, ingombra di pregiudizi che te la annebbiano. Miri troppo al
successo.
Ifigenia. Tu dici? Io non credo.
Gianni. Ma tu, francamente, adesso hai
voglia di fare l'amore con il maestro di danza?
Ifigenia. No, ti ho detto di no; tuttavia
l’emozione provata per lui mi ha fatto capire che sento il problema del maestro
in generale. E' una cosa seria per me. Anche tu d'altra parte, provando un
sentimento forte per una ragazza non bellissima, non tanto intelligente,
nient'affatto schietta, pur mentre stavi con me, e io ero innamorata di te,
devi avere capito che vuoi una donna di altro formato dal mio. Non è così?
Gianni. Può essere. Ma adesso non ho in
mente nessuna in particolare. Tranne te voglio dire.
Ifigenia. Sì, perché insegni in una
quarta ginnasio e le tue alunne sono ancora troppo piccole per i tuoi gusti.
Aspetta che siano cresciute e vedrai!
Gianni. Non credo che mi innamorerò di
un'allieva. E tu a quale maestro tendi ora, a Gimondi? E' lui il problema per
te?
Ifigenia. No. Ma solo perché non mi
piace fisicamente. Te l'ho detto. E' grasso. Però, se non avesse la pancia,
potrebbe essere un assillo anche lui. Capisci che cosa vuol dire? Il primo
regista bravo e di aspetto passabile, mi attirerà; probabilmente me ne innamorerò.
Forse adesso io devo stare sola. Tu ieri, con la tua scena matta, mi hai
terrorizzata. Il nostro amore a questo punto è inquinato. Io ho perso fiducia
in te. Credo che se tu avessi potuto fare l'amore con quella sciagurata
supplentucola senza cervello, mi avresti lasciata. Solo che lei, pur
lusingandoti, non ti ha dato l'occasione sufficiente. Durante la gita
scolastica a Roma, ti ho visto corteggiarla in modo così evidente e convinto
che se ti avesse contraccambiato solo a metà, vi sareste abbracciati davanti a
me. Io quando ero innamorata di te, ti sarei saltata in braccio mentre pregavi
in chiesa, se mi avessi incoraggiata in quella maniera. Ma Lucia non si è
mossa. Per questo, solo per questo, tu sei rimasto con me.
Gianni. Non è vero. Alla fine dell’anno
scolastico scorso, rispondendo a un bigliettino ambiguo che mi aveva infilato
in tasca, le scrissi che la storia di Ulisse e Nausica, ovvero la mia e la sua
secondo lei, non era una storia d'amore. Oppure era un amore fallito. E in gita
scolastica, in treno, di fronte a quella ragazzotta insignificante, io misi un
braccio sulla tua spalla per dire a entrambe che la mia donna comunque eri tu.
Ifigenia. Sì, questi particolari sono
veri. Però rimane il fatto d'insieme, e determinante, che Lucia non ti ha mai
dato l'occasione di cambiare me con lei. Sennò nei momenti più acuti della tua
emozione malata, l'avresti fatto. Ne sono sicura.
Gianni. Io no. E tu, l'occasione del
maestro di danza, l'avresti presa se te l'avesse data?
IIfigenia. Non lo so. So che non me l'ha
data.
Gianni. Non hai detto che una volta ti
ha offerto un passaggio in macchina e l'hai rifiutato?
Ifigenia. E' vero. Però era soltanto un
passaggio appunto, e se l'accettavo magari potevo finire a letto con lui, e
tale opportunità non è bastata a staccarmi da te, d'accordo; ma se Gennaro mi
avesse detto che era innamorato, che voleva stare con me, istruirmi, inserirmi
nell'ambiente del teatro, francamente non so se avrei rifiutato. Anche tu,
Gianni, non credo che avresti respinto Lucia se si fosse offerta di amarti, di
stimolarti a studiare, magari anche di tenerti la casa in ordine, di farti da
ancella, o che so io, quando ne eri innamorato. Ti tremava la voce quella sera
nel treno. Non hai idea di quanto mi hai fatto soffrire. Noi siamo rimasti
legati perché quei due non hanno contraccambiato le nostre emozioni. Non dico
solo per questo, ma anche per questo. Sai che cosa significa? Che mentre stiamo
insieme, cerchiamo l'amore in altre persone, ciascuno in una che gli assomigli
più di quanto io sono simile a te e tu a me: non abbastanza. Hai provato
attrazione per quella, proprio perché la trovavi più somigliante a te e alla
tua razza. Tanto nell'aspetto quanto nel carattere. Venivi a domandarmi:
"Ma Lucia è calvinista?" in quanto studiava molto, e si sentiva in
peccato mortale quando una lezione non le riusciva e gli allievi non
l’ascoltavano: proprio come fai tu. Poi dicevi che ti ricordava tua sorella.
Ebbene io avevo notato che somigliava anche a te, e alla più bella delle tue
zie in quelle foto di sessant' anni fa: sì alla Rina ventenne. Così attirava il
tuo narcisismo, la tendenza all'incesto, e chissà quante altre perversioni tue.
Del resto io pure, nel maestro di danza devo avere trovato qualche cosa di
simpatico, di congeniale o consustanziale a me stessa.
Gianni. Sei intelligente, tu. Hai
un'anima. Quando ti sento parlare così, mi assale la brama del tuo letto, anzi
quella delle nozze con te[1], e mi rimorde molto avere sciupato l'amore, la
stima che tu avevi per me. In quanto hai detto c'è della verità. Però bisogna
aggiungere che, nonostante le emozioni malate e passeggere per gli altri due,
noi siamo rimasti insieme, e non abbiamo perduto tempo, anzi, abbiamo fatto
diverse cose importanti, e ne stiamo facendo ancora. Non mi riferisco soltanto
alle nostre scopate, comunque arcibelle, numerosissime e sacrosante. Io ho
scritto un dramma, breve se vuoi, magari di interesse ristretto al popolo non
numeroso dei licei classici, o, se preferisci, alla gente grama del nostro
ginnasio, ed è fallito pure là dentro. Ma questo non vuol dire che sia brutto,
insignificante o non espressivo dei tempi; forse ho avuto fretta a concluderlo,
oltretutto in anticipo rispetto ai gusti della gente, come hai detto tu stessa.
Ma presto riprenderò a scrivere: intanto a commentare l'Edipo re con il mio
metodo comparativo e con una prospettiva europea, un lavoro al quale tu mi hai
incoraggiato e hai contribuito non poco, quindi porrò mano a un'opera grandiosa
dove confluiranno le mie esperienze, i miei studi, le mie gioie, i dolori, e
perché no, il cielo e la terra[2]. Anche questo lo dovrò a te, al nostro
rapporto variopinto per la varietà infinita di tutti i suoi aspetti. Perciò
vorrei che non finisse presto, anzi che non finisse mai.
Ifigenia. Ho capito. Tu scrivi. Ed io
secondo te quali capacità posso acquistare, o accrescere, se la nostra storia
continua?
Gianni. Tu ora stai preparando due esami
non facili. Da me, quanto meno, ricevi un metodo e un ritmo di studio. Per
l’abilitazione all’insegnamento prendi anche parecchie nozioni e idee. Poi,
quanto più si allarga la tua umanità, tanto più impàri e mi restituisci
moltiplicato. Quei due non ci hanno offerto il loro amore, è vero, però nemmeno
noi glielo abbiamo chiesto. Io almeno non l'ho fatto.
Ifigenia. Io nemmeno. Anche in quello
che dici tu c'è del vero. E tu pure, sicuramente hai un'anima non ordinaria.
Prima citavi l'Ifigenia in Aulide,
vero? "
Gianni. Sì.
Ifigenia. Vedi che bravo maestro sei
stato? Io probabilmente ti amo. Però l'anno prossimo, anzi, subito dopo l’esame
alla scuola di recitazione, cercherò di cambiare lavoro, andrò a vivere, in una
grande città dove nascono le idee, dove si crea cultura, dove si dà e si
riceve, si fa e si disfa il potere: a Roma, o a Milano. E voglio andarci senza
te. Per imparare a cavarmela da sola, o forse piuttosto per avere l'opportunità
di incontrare un altro maestro geniale, uno che mi aiuti a crescere nel campo
attoriale. Tu mi hai spinta a pensare, a studiare; mi hai donato la vita tua e hai
chiarito la mia a me stessa: te ne sono, te ne sarò grata sempre; ma presto
avrò bisogno di imparare delle cose che tu non puoi insegnarmi. Io sento la
necessità di recitare, come tu senti il bisogno di scrivere. Perciò è meglio se
ci lasciamo presto, o anche subito".
Le stavo seduto di fronte e avevo il
fuoco sul fianco destro, piuttosto vicino: sudavo, mi bruciavano gli occhi, mi
tremavano le mani al pensiero della fine anticipata del nostro rapporto. Per
fortuna non era destino. Ma allora non lo sapevo: dovevo mettercela tutta per
arrivare con lei fino al momento in cui avrei sentito la necessità di
cominciare a scrivere.
Ad un tratto un pezzo di fuliggine o
qualcosa del genere mi entrò nell'occhio destro: il più miope, il più debole, e
già aspreggiato sia dal fumo, sia dalla lente a contatto che portavo da
quindici ore. Cominciai a lacrimare. "Scusa – dissi – mi è entrato un
pezzo di non so che roba in un occhio".
Ifigenia mi accarezzò. La cameriera
grassotta ci osservava dal banco con i suoi piccoli occhi, affondati nella
carne copiosa, e protetti dalle scintille. Dovevo fare pietà anche a lei.
Ifigenia disse: "Che tragedia!".
"Perché tragedia? – domandai – Se
non vuoi più stare con me, puoi lasciarmi anche subito".
"Non è così semplice - rispose -
Nonostante tutto, io credo di amarti; o, quanto meno, mi sento ancora legata a
te".
Il pezzo di roba uscì dall'occhio
straziato che provò sollievo; asciugai la guancia lacrimosa e, recuperato un
poco di coraggio, dissi: "Io sono sicuro di amarti poiché ho plasmato il
tuo spirito e mi sono lasciato potenziare, raddrizzare, nel mio, debole e sghembo,
dalla tua forza di donna esemplarmente bella. I tarli, è vero, ancora purtroppo
ci sono, ma quale logica ci sarebbe nel lasciarci, prima che i sentimenti
positivi siano esauriti e sia compiuta l'opera di educazione reciproca? Pensa a
quante cose buone possiamo mettere insieme noi due. Aspettiamo di non avere
altro da costruire in comune, arriviamo almeno a superare i tuoi esami per i
quali sto studiando anche io, tanto che finora non ho trovato il momento
opportuno per cominciare la mia, la nostra creazione secondo lo spirito. Non
potrò più sopportare me stesso se non riuscirò a dimostrarti di sapere scrivere
un capolavoro ispirato da te e degno di me. Dammi questa possibilità di
redenzione e riscatto: vedrai che gli errori miei e tuoi, le nostre pene,
delusioni e sconfitte, troveranno una giustificazione estetica, nella bellezza
voglio dire, e noi ci innamoreremo di nuovo l'una dell'altro, come quando tu credevi
in una vita felice con me, e ci credevo quasi anche io. Poi è successo
qualcosa: un salto retrogrado nell'abisso degli antichi terrori, cioé del
nostro passato. Quasi un riflesso condizionato. Ma ora ne parliamo: ne stiamo
prendendo coscienza. Perché dobbiamo lasciarci, mentre la vicendevole
educazione non è compiuta, e la mia opera non è nemmeno avviata?".
Tirai il fiato. Ce l'avevo messa tutta,
non potevo aggiungere altro. La guardai attentamente cercando di piacerle, di
essere espressivo e non stralunato, nonostante soffrissi ancora lo strazio
della cornea colpita dalle faville ardenti. La studiavo: era bella, cupamente
bella; il suo volto veniva acceso e imbrunito piuttosto che illuminato dai
guizzi del fuoco."Se perdo una donna di questo formato - pensai - dove ne
trovo un'altra che non me la faccia rimpiangere per tutta la vita?"
Finalmente disse la sua sentenza:
"Va bene. Possiamo restare insieme. Non so quanto. Io adesso devo pensare
agli esami. Dopo si vedrà. Lasciamo fare al destino".
"Manco male" pensai, usando
un'espressione quasi apotropaica, raccolta dall’allegra brigata dei colleghi della
scuola media di Carmignano dei miei venticinque anni. "Certo – risposi –
come abbiamo fatto sempre, con la coscienza di essere cari agli dei, favoriti
da loro e dai nostri caratteri mai discordi con il volere del fato. Adesso
andiamo a dormire, ché è tardi".
Ci alzammo, pagai il conto alla grossa
signorina e tornammo alla Campagnola. Non mi sembrò il caso di fare altre
proposte, pur sacrosante.
Sicché ognuno andò direttamente in
camera sua. Quando mi trovai solo nel letto, dovetti fare i conti con sensi di
colpa e di inferiorità che, tutti sommati, davano angoscia. Cercavo di
trasformare i sentimenti in ragionamenti.
Pensavo: "E' vero che solo
attraversando il dolore si può andare oltre il dolore, che sono passato per
Esmeralda e le altre, prima di arrivare a Ifigenia, necessaria al mio scrivere,
come Päivi lo fu al mio studiare, la Sarjantola al mio sentirmi accettato dalle
donne e dalla vita stessa; ma in questo modo con le persone ho rapporti di
sfruttamento. Così i miei progressi, se pure ci sono, costano sofferenze
infernali, siccome non posso vivere me stesso e il prossimo mio con totale
chiarezza e piena fiducia. Ifigenia è stata una creatura mia, l'ho fatta
crescere io: è mia figlia più che se l'avessi messa al mondo: devo provare a
considerarla un fine, non un mezzo. Sì, ma se è lei che non vuole essere uno
scopo per me? E poi per quale ragione non deve volermi? Perché non le piaccio?
O non le convengo? Oppure non si fida di me? Dice che l'ho ingannata e delusa
con la storia di Lucia. Ma lei stessa prima mi aveva mentito promettendomi e
non scrivendomi quella lettera agognatissima! Quanto devo penare ancora per la
restaurazione del bene prezioso che ho adulterato? Quali altre sofferenze
dobbiamo infliggerci per riparare i danni della mutua ingiustizia? Dio, aiutami
tu!".
Mi addormentai tra questi tormenti.
La mattina mi svegliai di pessimo umore.
Il sole non c'era. Pensai subito male. "Ieri ho dovuto pregarla perché non
mi lasciasse subito, oggi stesso, otto marzo, giornata della femmina. L'ho
convinta solo del fatto che troppo presto non le conviene. L'ho indotta a
pensare che se mi pianta prima dell'esame di abilitazione, rischia la
bocciatura, somara qual è. Mi ha concesso tre, quattro mesi di proroga dunque,
la brava ragazza che per Capodanno volle brindare all'eternità del nostro
amore! Cialtrona! Ma se crede di sfruttarmi, di succhiare il mio sangue senza
darmi in cambio niente, o nient'altro che i suoi baci da Giuda, si sbaglia! Le
succhierò l'anima! La provocherò, la spingerò a manifestare le sue zone
estreme: le sublimi e le infime, le oscene e le sante, per metterle nella mia
storia e renderla più interessante. Te la faccio vedere io l'otto marzo, la
giornata della donna! Tu sei una femmina, passera sei, anzi porca sei! Come
l'amante, Sandra Milo, in Otto e mezzo di Fellini: ‘Ci vuole un trucco più da
porca! Fai la faccia da porca! Cammina molleggiando sui fianconi!’.
Dopo due anni e mezzo che mi sfrutti
impudicamente, che mi hai isolato per mungermi con mia consunzione quasi
totale, adesso ti accorgi che c'è poco altro da spremere e che ti conviene
cercartene uno più utile, più funzionale alla tua agognata carriera da istriona.
Ora vuole macellarmi la guitta, la mima volgare. Ma io non sono una mucca
imbecille: saprò capovolgere contro di te la tua intenzione malvagia. Ti
provocherò, ti punzecchierò, ti squarcerò fino a farti rovesciare tutto il
putridume che hai dentro. E su quella sanie, sul tuo dorso di belva costruirò
una storia d'amore rappresentativa di questa età malvagia e superba, nemica
della virtù[3].Non voglio che una commediante possa
diventare seduttrice di esseri genuini”.
Lo sbudellamento davanti al fuoco mi
aveva riempito l'anima di tali sentimenti cattivi e pensieri ridicoli. Ci
incontrammo nella sala della colazione. Per provocarla subito, le feci notare
che la cameriera era bella, bellissima, una meraviglia di donna, non inquinata
dai pensieri contorti che devastano le intellettuali gemebonde e le mime
ambiziose.
Reagì soltanto con un "non mi
piace", simulando indifferenza. Salimmo al rifugio Le Cune, sperando che
il sole rompesse le nubi, ma non eravamo degni della sua presenza lieta, e
rimase nascosto fino a sera. Eravamo cattivi e meschini. Lo vedemmo volare
basso e stanco solo pochi minuti prima che si annidasse tra i monti. Non osai
chiedere niente al dio corrucciato. A metà giornata ci sedemmo su una panchina
di ferro posta non lontana dal ciglio di una voragine aperta verso la
Marmolada. Eravamo cupi e imbronciati. Parlavamo di nuovo della nostra
situazione infelice aggirandoci attorno ai soliti temi: perversioni,
tradimenti, emozioni cattive, e così via. Cercavo di farle dire qualcosa di
nuovo, onde scriverlo tra gli appunti del capolavoro prossimo; ma quella
eludeva le domande, replicando con i luoghi comuni che avevamo codificato
insieme negli ultimi tempi a proposito del nostro connubio corrotto.
Ad un tratto però, quasi senza volere,
riuscii a colpirla in una debolezza essenziale, una zona critica e dolorosa
dell'anima, una piaga che, appena sfiorata, la faceva dubitare perfino della
sua identità. Dissi soltanto: "Ifigenia, sei più bella, giovane e
affascinante adesso di quando ti ho conosciuta. I quasi trent’anni ti
donano". Tutto qui. Ma lei, cadutale a terra la maschera di indifferenza
con cui si era protetta fin a quel momento, mi guardò con un'espressione di
terrore e di odio, poi disse: "Io non cerco nessuna consolazione del fatto
che non sono giovane quanto le ventenni delle quali senti bisogno tu per
eccitare i tuoi nervi stremati". Quindi si alzò e si avvicinò al ciglio del
precipizio. Provai compassione della sua debolezza e mi alzai per andare ad
accarezzarla, a dirle che se soltanto mi avesse voluto, non avrei desiderato
altro. Ma non potei farlo. Prima che arrivassi a toccarla, Ifigenia fuggì nel
rifugio.
Rimasi fermo. Poi la seguii adagio. La
raggiunsi. Piangeva. Le domandai perché.
"Ho creduto che tu volessi
ammazzarmi buttandomi giù", rispose.
La guardai costernato. Non potevo
spiegarle più niente. Dissi soltanto: "Ma va'!". Per tutto il giorno
non riacquistò la ragione. Il precipizio l'aveva dentro di sé la ragazza. Era
in bilico sul proprio inconscio, un baratro terrificante; oppure era in balia
del cavallo nero, contorto e massiccio, peloso fino alle orecchie, come quello
maligno della biga platonica.
giovanni ghiselli
g.ghiselli@tin.it
Il blog
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1 Cfr. Euripide, Ifigenia in Aulide,
1410
2 Cfr.
Dante, Paradiso, XXV,1-3.
3 Cfr.
G. Leopardi, Il pensiero dominante, 59 e sgg.
Mi piace molto
RispondiEliminaalessandro
Anche a me piace molto, solo mi chiedo: parlavate davvero così forbito nei momenti più intimi e anche durante le liti? Io non sono capace e provo un poco di invidia , quando sono molto arrabbiata o molto emozionata la lingua mi tradisce....e mi chiedo anche se sei ancora innamorato di lei ,non come allora....ma cosa è rimasto di quella battaglia del cuore ,oltre il romanzo voglio dire .Giovanna
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