Procedo con il commento del recentissimo libro di Remo Bodei
Immaginare altre vite
Realtà, progetti, desideri.
Feltrinelli, Milano, 2013
Vediamo alcuni paragrafi del V capitolo: Il potere e la
gloria (pp. 95-110).
“Le nostre esperienze sono filtrate attraverso modelli,
schemi e archetipi culturali di lunga durata, che nel passato non erano così
numerosi, mediati e di provenienza globale, come lo sono oggi, specie dal
momento in cui abbiamo cominciato a essere circondati dall’onniprvasiva
“mediasfera”, l’’ambiente dominato dai media elettronici (p. 94).
I modelli una volta erano gli eroi. “Si distinguevano per il reale possesso o per
l’attribuzione di qualità straordinarie, che li facevano apparire circondati
dall’aureola della gloria”
Si tratta di personaggi eccezionali, uomini quali si trovano
nei poemi epici, o nelle biografie di Plutarco che proponeva queste vite di
uomini “straordinari” come modelli, e pure contromodelli, non solo ai suoi
lettori, ma anche a se stesso: nel proemio alle vite di Timoleonte
ed Emilio Paolo egli dichiara: “
all'inizio mi è capitato di mettere mano a scrivere le vite per gli altri, ma
oramai continuo e insisto anche per me stesso, poiché, scrutando attraverso la
storia come in uno specchio (" w{sper
ejn ejsovptrw/ th'/ iJstoriva/ peirwvmenon") mi avviene in qualche
modo di adornare e uniformare la vita
alle virtù di quegli illustri personaggi ("kosmei'n
kai; ajformiou'n pro" ta;" ejkeivnwn ajreta;" to;n bivon")
.
Quindi Plutarco cita un frammento di Sofocle[1]: "feu' feu', tiv touvtou cavrma mei'zon a]n
lavboi"", ah, ah, quale gioia potresti prendere maggiore di
questa, e, aggiunge, “quale più efficace per il raddrizzamento dei costumi?”.
E’ una concezione che ricorda in qualche modo la catarsi
attribuita da Aristotele alla tragedia.
Tale purificazione avviene non solo assimilando il valore,
ma anche respingendo i vizi, e questo accade imitando la virtù degli uomini
grandi e buoni, il cui esempio aiuta a respingere quella dose di pochezza
(" ti fau'lon") o
malvagità ("h] kakovhqe"")
o volgarità ("h] ajgennev"",
) che le compagnie di coloro con i quali si deve vivere
insinuano ("aiJ tw'n sunovntwn
ejx ajnavgkh" oJmilivai prosbavllousin"[2]). Gli uomini
grandi e cattivi dunque vanno presi quali contromodelli.
Già Tito
Livio aveva scritto che la
conoscenza della tradizione storica fornisce a chi la possiede il grande
strumento dei modelli positivi da imitare e di quelli negativi da
respingere:"Hoc illud est praecipue in cognitione rerum salūbre ac
frugiferum, omnis te exempli documenta in inlustri posita monumento intuēri:
indi tibi tuaeque rei publicae quod imitēre capias, inde foedum inceptu, foedum
exitu quod vites"[3],
questo soprattutto è salutare e produttivo nella conoscenza della storia, che
tu consideri attentamente esempi di ogni tipo situati in una tradizione
illustre: di qui puoi prendere modelli da imitare per te e per il tuo Stato, di
qui quello che è da evitare in quanto turpe nel movente, turpe nel risultato.
Salendo più indietro, Polibio nel proemio alle sue Storie scrive che per gli uomini non c'è nessuna correzione (diovrqwsi~)
più disponibile della conoscenza dei fatti passati (I, 1).
Fa molto bene dunque Bodei a mettere in successione gli eroi di questo V
capitolo e Gli uomini infami del VI .
Partiamo da primo paragrafo intitolato Un ventaglio di tipologie (p. 95-96)
Gli eroi positivi dunque possono
essere eroi di guerra, eroi che liberano la terra dei mostri, come Eracle, o la
purificano dal peccato, come Gesù; eroi segnalati per benemerenze verso la patria come quelle
raccomandate dall’anima di Scipione l’Africano al nipote adottivo Scipione Emiliano
nel Somnium Scipionis di Cicerone che istituisce un paradiso per i patriotti:"bene meritis de patria quasi limes ad caeli
aditum patet " [4]
per coloro che hanno ben meritato della patria si apre come una via per
l'accesso al cielo.
Quindi Bodei ricorda i fondatori
di religioni e di sètte, i santi, i martiri, gli asceti (come Padre Pio e Madre
Teresa di Calcutta), poi gli eroi anonimi caduti in guerra o protagonisti della
lotta politica, e infine le “celebrità, persone che hanno successo nell’ambito
degli affari, del tempo libero (sport, cinema, televisione), della bellezza, della
prestanza fisica o del gossip” (p.
96).
A proposito di gossip, può essere interessante notare
che il pettegolezzo femminile contribuì alla fama di Scipione Emiliano che pure
fu un benemerito della patria..
Sentiamo come. Polibio racconta
che quando morì Emilia, la moglie del nonno adottivo, Scipione Africano
Maggiore, il nipote ricevette in eredità
grandi ricchezze che la donna era solita sfoggiare nella magnificenza di cui
circondava la sua persona. Scipione Emiliano allora regalò lo splendido corredo
ereditato a sua madre Papiria che era separata dal marito ed era meno facoltosa
di quanto si addicesse alla sua nobiltà. Papiria quindi si recò ad un solenne
pubblico sacrificio con il fastoso abbigliamento e i sacri utensili di Emilia
suscitando entusiasmo per la generosità del figlio, veramente eccezionale e
stupefacente a Roma dove assolutamente nessuno dà niente a nessuno dei propri
averi senza fare dei conti (" aJplw'"
ga;r oujdei;" oujdeni; divdwsi tw'n ijdivwn uJparcovntwn eJkw;n oujdevn",
XXXI 26, 9).
Polibio conclude il XXXI capitolo mettendo in rilievo che la
fama della nobiltà morale dell'Emiliano andò crescendo grazie alle donne che
chiacchierano fino alla nausea su qualsiasi argomento nel quale si siano gettate ("a{te tou' tw'n gunaikw'n gevnou" kai; lavlou kai;
katakorou'" o[nto", ef j o{ ti
a]n oJrmhvsh XXXI, 26, 10)
Vediamo il secondo paragrafo: Eroi della vittoria e della sconfitta (pp. 96-98)
Bodei parte dagli eroi di guerra. Questi vengono glorificati
sia dalla “estetica della bella morte” sia “da un’etica della sacralità
dell’immolarsi per il proprio popolo, che va dall’oraziano dulce et decorum est pro patria mori fino al proliferare, tra
Ottocento e Novecento, dei monumenti ai caduti e delle tombe del Milite ignoto”
(p. 96).
Monumenti al soldato sconosciuto si trovano anche nella
poesia: da Euripide a Brecht.
Nell’Andromaca,
Peleo critica il fatto che nei trofei
venissero iscritto solo il nome dello stratego il quale“oujde;n plevon drw'n eJno;" e[cei pleivw lovgon” (Andromaca,
v. 698), non facendo niente più di uno solo, ottiene una fama maggiore.
Curzio Rufo racconta
che Clito, per sminuire le vittorie di Alessandro, il quale poi per
rappresaglia lo uccise, recitò ai convitati i
versi dell’Andromaca di
Euripide con il biasimo di Peleo “quod
tropaeis regum dumtaxat nomina inscriberent ” ( Historiae Alexandri Magni, 8, 1, 29), il fatto che nei trofei scrivessero solo i nomi dei re.
Bertolt Brecht fa
eco a questa critica: “Il giovane Alessandro conquistò l’India./Da solo?/Cesare
sconfisse i Galli./Non aveva con sé nemmeno un cuoco?”[5].
“Pur nella sua crudeltà, la guerra esercita una sua fatale
attrazione” (Immaginare altre vite, p.
96).
“La guerra è eccitante persino se implica il rischio di
perdere la vita e grandi sofferenze fisiche. Considerando che la vita della
persona media è noiosa, tutta routine e senza avventure, l’atteggiamento di chi
è pronto ad andare in guerra deve essere inteso anche come il desiderio di mettere
fine al noioso tran-tran della vita quotidiana, di lanciarsi nell’avventura,
l’unica avventura, in realtà, che la persona media può aspettarsi nella sua
vita (the only adventure, in fact, the
average person may expect toh ave in his life)”[6].
In particolare è noiosa la vita del militare inattivo in
tempo di pace: si può pensare a Il
deserto dei Tartari di Buzzati.
L’eroe prende aspetti diversi nelle diverse epoche e nei
diversi autori.
“Per Omero, l’eroe è l’individuo nobile o che ha assunto lo
stile della persona ben nata e agisce in maniera esemplare rispetto al compito
specifico cui è chiamato, al combattimento. E ciò indipendentemente dalla
vittoria e dalla sconfitta, come mostra Ettore quando, nel congedarsi da
Andromaca e nel tornare senza esitazioni sul campo di battaglia, sa bene che la
morte è in agguato” (p. 96).
Bodei commenta questo episodio del VI canto dell’Iliade facendo notare che “Nei nostri
tempi-dove molti sono accecati dall’idea di un successo effimero-stentiamo a
comprendere cosa abbia rappresentato la potente volontà di rendere immortale il
proprio nome, di generare sentimenti di ammirazione, entusiasmo o gratitudine
negli altri e di dignità e autostima in se stessi” (p. 97).
Vediamo come si presentava la volontà di rendere immortale
il proprio nome in altri tempi.
Nelle Troiane di Euripide, Cassandra consola
la madre e se stessa affermando che la sorte dei Troiani vinti è meno triste di
quella degli Elleni vincitori: “ i morti troiani avevano l’abbraccio della
terra peribola;~
ei\con cqonov~ (v. 389) e le
esequie fatte dai familiari.
Ed Ettore è morto
quale a[risto~
ajnhvr (v. 395), mentre senza la guerra il suo
valore sarebbe rimasto sconosciuto (397), forse anche inespresso.
Chi è assennato
deve evitare la guerra, ma se questa viene imposta, allora è una corona non
vergognosa kalw`~
ojlevsqai ( Troiane, v. 402), morire nobilmente per
la patria, mentre è infamante morire non nobilmente (mh; kalw`~, v. 402).
Foscolo che si
sente chiamato ad evocar gli eroi[7]
non dimentica di rendere onore a Ettore[8]
che ha versato il sangue per la patria.
L’eroe troiano
nell’Iliade dice che l’auspicio
supremo è “ajmuvnesqai
peri; pavtra~ (Iliade, XII, 243), combattere in difesa
della patria. Morire in tale nobile lotta significa acquistare la gloria.
Non solo gli uomini
ma anche la donne e le ragazze aspirano a tale forma di immortalità.
Nell’ultima parte dell’Ifigenia in
Aulide, la figlia di Agamennone
affronta volentieri, addirittura con entusiasmo, il sacrificio della propria
vita per favorire la guerra dei Greci contro i Troiani e la vittoria della
civiltà sulla barbarie
Leggiamo alcune
parole attribuite da Euripide a questa eroina: “ divdwmi sw`ma toujmo;n J
Ellavdi (1397), offro il mio corpo per l’Ellade, quvet j, ejkporqei`te Troivan ( 1398), sacrificate,
distruggete Troia.
Questo sarà il mio monumento perenne, questi i figli, le
nozze, la fama [9].
Macaria negli Eraclidi
(v. 534) vuole eujklew`~ lipei`n bivon,
lasciare gloriosamente la vita
La gloria e la
fama derivano più dalle parole scritte,
scritte molto bene, che dai monumenti funebri i quali fanno comunque una loro
parte non trascurabile per rendere duratura la memoria.
Con questo, torno a
Bodei: “I poeti, più di altri, decretano e perpetuano la gloria propria e
altrui (concetto espresso molto prima del noto verso di Hölderlin in Andenken: "Was bleibet aber, stiften die Dichter"[10], ma ciò che rimane, lo fondano i poeti). Cicerone ricorda, ad esempio, due
versi di Ennio relativi all’epitaffio di un poeta suo contemporaneo, che
affermava orgogliosamente: “Sono vivo e volo sulla bocca degli uomini”.
Di Orazio si cita
sempre l’elogio reso alla sua opera: Exegi
monumentum aere perennius, ma vale la pena vederne il contesto[11].
Veniamo al
paragrafo successivo: Genealogia della
gloria (pp. 98-100).
“La gloria
trasmessa dalla letteratura e dalla storiografia è contagiosa”
Bodei ricorda che
Alessandro aveva preso come modello l’Achille dell’Iliade, Cesare voleva
emulare Alessandro, Napoleone imitava sia Alessandro sia Cesare. Alessandro vedeva
nel padre un modello e un rivale.
Per quanto la disposizione
non amorevole di Alessandro nei confronti
del padre, Plutarco scrive che quando Filippo, nel 336, fu assassinato,
la colpa maggiore fu attribuita a Olimpiade, ma qualche accusa sfiorò anche
Alessandro:" e[qige dev ti" kai;
jAlexavndrou diabolhv" (Vita
di Alessandro, 10, 5).
Plutarco spiega che Olimpiade
fu accusata di avere sobillato e aizzato Pausania a uccidere Filippo il quale
si era innamorato di Cleopatra, la ragazza che il re intendeva sposare. Il
giovane nobile macedone era stato oltraggiato da Attalo e dalla stessa
fidanzata di Filippo senza ottenere giustizia. Alessandro diede adito al
sospetto di non essere del tutto estraneo all’attentato, poiché, quando
incontrò Pausania, vedendo che questo si
lamentava per l’offesa, gli citò un verso della Medea di Euripide: “to;n dovnta kai; ghvmanta kai; gamoumevnhn”[12].
Nel caso di Alessandro chi ha dato la nuova sposa, Cleopatra,
a Filippo era Attalo, zio della ragazza, chi l’ha presa in sposa è Filippo, e
la sposata Cleopatra.
“Oltre Achille,
Alessandro aveva un altro un modello da superare: suo padre. Si decise alla
conquista dell’impero persiano perché geloso delle sue gesta” (p. 99).
Sentiamo le parole
che, su questo argomento, gli vengono attribuite da Plutarco.
“ ‘Ogni
qualvolta veniva annunciato che Filippo aveva preso una città famosa o aveva
vinto una battaglia celebrata, non era affatto raggiante nell'udirlo, ma ai
coetanei diceva: ragazzi, il padre mio si prenderà tutto e a me non lascerà
nessuna impresa grande e splendida da compiere con voi’.
Infatti non agognando piacere né ricchezza, ma virtù e
gloria, riteneva che quanto più avrebbe preso dal padre, tanto meno sarebbe
riuscito da sé. Perciò, ritenendo che per l'accrescersi delle imprese esse si
sarebbero esaurite in quello, voleva ereditare un regno che avesse non
ricchezze né lussi e godimenti, ma agoni e guerre e onori"[13].
“ Dopo la conquista dell’impero persiano, che comprendeva
allora anche l’Egitto, egli, come è noto, si inserì agevolmente nella
tradizionale auto-glorificazione tipica dei “re dei re” e dei faraoni,
attribuendosi una discendenza da Zeus e intimando che ci si prostrasse davanti
a lui” (p. 99).
Probabilmente
Alessandro sapeva di non essere figlio di un dio, ma da una parte assecondava
la madre Olimpiade, la menade epirota che detestava Filippo e gli negava la
paternità del giovane eroe, dall’altra pensava che la fama di una discendenza
dagli dèi fosse politicamente e militarmente utile: dopo la scoperta della seconda congiura: quella “dei
paggi”[14] il conquistatore macedone affermò che
ricevere il nome di figlio di Giove aiuta a vincere le guerre: “Famā
enim bella constant, et saepe etiam, quod falso creditum est, veri vicem
obtinuit” ( Curzio Rufo, Historiae Alexandri
Magni 8, 8, 15), Le guerre sono fatte
di quello che si fa sapere, e spesso anche quanto si è creduto per sbaglio, ha
fatto le veci della verità[15].
“Il perseguimento della
gloria e la scelta, incompiuta a causa della morte, di conquistare tutto l’orbe
terracqueo erano in Cesare politicamente più complessi e razionalmente più
elaborati” (p. 100).
In effetti Cesare come
storiografo esclude il mito.
“Tra Cesare e Alessandro Magno c’è una differenza, che è
anche un segno dei tempi. A differenza del giovane Alessandro, questo maturo
eroe romano dagli occhi neri, epilettico e indomito tuttavia, non prendeva le
mosse da una concezione mitica della vita; si rifaceva ad un’idea razionale
dell’uomo e della storia: distingueva, come Tucidide, tra la calcolata
deliberazione e lo scrupolo religioso, che secondo Tucidide rovinò Nicia.
Ma…non poteva contentarsi di opporre ragione a superstizione: doveva opporre
una sua religione, quella del monarca dio, alle mordenti critiche della classe
degli ottimati, contro cui aveva combattuto sempre…un’altra e più profonda differenza
tra Cesare pensatore e Cesare uomo politico. Nella sua opera sulla Guerra civile, questo condottiero non fa
cenno a quell’ispirazione divina a cui i suoi contemporanei ricondussero la sua
grande decisione della notte fra il 10 e l’11 gennaio: il passaggio del
Rubicone. Il Cesare di tutti noi, è, ancor oggi, l’uomo che disse allora: “il
dado è tratto”; questo non è il Cesare del Bellum
civile, ma il Cesare delle Historiae
scritte dal suo ufficiale più “indipendente” e acuto: Asinio Pollione.
Nel suo racconto Cesare aveva voluto esporre le ragioni
storico-giuridiche della decisione presa, “condensate” in un’arringa ai soldati
(B. C. I, 7)”[16].
Torniamo a Immaginare
altre vite: “Per ottenere il consenso nel mezzo dei conflitti che
laceravano la tarda repubblica romana, egli si preoccupava di rendere partecipi
dei propri progetti anche i suoi soldati facendoli sentire copratogonisti di
imprese gloriose che avrebbero avvantaggiato e reso illustri loro e la patria[17].
Come primo motore, Cesare attribuisce, tuttavia, la fame insaziabile di gloria
solo a se stesso” (p. 100). Quindi Bodei cita un passo molto interessante della
Vita scritta da Plutarco dove il
biografo sostiene che Cesare veniva spinto a superarsi sempre da un pathos il quale non era altro
che invidia di sé, quasi fosse un altro “to;
me;n pavqo~ oujde;n h\n e{teron h] zh`lo~ auJtou` kaqavper a[llou” (58).
Alessandro e Cesare sembrano uomini predestinati a
effettuare un compito storico: l’estensione della civiltà greca a oriente
l’uno, di quella latina a occidente l’altro.
In questo modo Tolstoj in Guerra e pace interpreta i successi
dell’ “uom fatale"[18].
Napoleone secondo il
grande romanziere russo era un uomo che “doveva” guidare "il movimento di carattere militare dei
popoli europei da oriente a occidente…Lui solo, con l’ideale di gloria e di
grandezza che ha elaborato in Italia e in Egitto, con la sua folle venerazione
di se stesso, con la sua spavalderia nei delitti, con la sua capacità di
mentire, lui solo può giustificare ciò che deve accadere…Il caso, milioni di
casi gli danno il potere e tutti, come per un tacito accordo, collaborano al
consolidamento di quel potere "[19].
Poi “doveva” esserci il movimento inverso:
allora"improvvisamente, al posto di quei casi e di quella genialità , che in modo così progressivo
lo hanno guidato finora, con una serie ininterrotta di successi, verso lo scopo
prestabilito, si profilano una quantità incalcolabile di casi contrari, dal
raffreddore di Borodino al gelo e alla scintilla che incendia Mosca; e invece
della genialità , appaiono una
stupidità e una viltà senza ragioni"[20].
Nel paragrafo successivo, Vite esemplari (pp. 100-102), Bodei ricorda la fortuna del
poligrafo di Cheronea presso gli scrittori italiani: “Di Plutarco nel Medioevo
si preferivano i Moralia e fu solo
l’arrivo dei dotti greci in Italia, dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453,
a rilanciare la lettura delle Vite
Parallele, che divennero da allora in poi il suo principale testo di
riferimento. Si pensi soltanto a Machiavelli, che ne acquistò una copia in
traduzione latina a Bologna nel 1502 e ne trasse ispirazione per la sua intera
opera (per inciso le famosissime immagini della “golpe” e del “lione” derivano,
in particolare, dalla vita di Lisandro[21]
di Plutarco), oppure a Montaigne o a Shakespeare[22]
che se ne servono abbondantemente” (p. 100).
“Sul piano dell’educazione delle classi dirigenti, intere
generazioni sono quindi cresciute nel culto degli eroi di Plutarco, avendo come
vite esemplari da esecrare quelle dei tiranni o dei violenti come Silla e da
imitare quelle di Alessandro Magno, Agide e Cleomene, Caio e Tiberio Gracco,
Catone Uticense, Cesare e Bruto e, come ideali, ancora una volta, la gloria, il
potere, la virtù” (p. 101).
Bodei ricorda anche anche “difficoltà e opposizioni”
incontrate dalla diffusione delle biografie di Plutarco
“Hobbes, ad esempio, considerava nel Leviatano l’imitazione di quei modelli, nella letteratura e nella
storiografia, fonte di vanagloria e, nel Behemoth
in particolare, esempi che incitano all’anarchia. Nel primo testo, dice che
“quando uno si immagina di esser un Ercole
o un Alessandro (cosa che capita
spesso a coloro che sono molto presi dalla lettura dei romanzi)”, si cade nella
vanagloria, “che consiste nel fingere o nel supporre in noi stessi delle
abilità, che sappiamo di non avere”. Tale atteggiamento “si riscontra più nei
giovani e si nutre delle storie e delle narrazioni di eroi (gallant persons), ed è spesso curato dall’età e dalle occupazioni”.
Nel secondo, il rifiuto delle virtù “eroiche”, tanto
ammirate dagli antichi, è netto e argomentato. Hobbes è, infatti, è uno dei
primi autori moderni a presentare come causa di sovversione politica non sette
religiose o singoli filosofi, ma gruppi intellettuali che si ispirano agli
ideali repubblicani del mondo classico” (p. 101).
Per quanto riguarda la reputazione di Alessandro, non mancano
denigratori già nel mondo antico.
Tito Livio sostiene che qualora Alessandro si fosse
incontrato con uomini grandi quanto i consoli romani Manlio Torquato, Valerio
Corvo, i Deci, Papirio Cursore, o con i senatori, avrebbe detto che non aveva
più a che fare con Dario, praedam verĭus
quam hostem… Mulierum ac spadonum
agmen trahentem, re di uno stuolo di
donne e di castrati, oneratum fortunae
apparatibus suae, appesantito dallo sfarzo della sua fortuna. Alessandro
non osò altro che disprezzare opportunamente quella vanità: nihil aliud quam bene ausus vana contemnere
(9, 17, 16).
Inoltre: era altra cosa l’Italia dall’India per quam temulento agmine comisabundus incessit
(9, 17, 17) attraverso la quale passò gozzovigliando con uno stuolo di
ubriachi.
In età neroniana Lucano
presenta Alessandro come un re pazzo e un bandito che ha avuto successo:
"proles vesana
Philippi, / felix praedo" (Pharsalia, X, 20-21). Generato quale
esempio non utile al mondo di come tante terre si trovino sotto il dominio di
uno solo: "non utile mundo editus
exemplum, terras tot posse sub uno esse viro"[23]
(26- 27). Venuto dalle spelonche della Macedonia, disprezzò Atene vinta dal
padre, e si precipitò tra i popoli d'Asia humana
cum strage (Pharsalia, X , 31),
mescolò fiumi sconosciuti con il sangue: con quello dei Persiani l'Eufrate, con
il sangue degli Indiani il Gange, lui terrarum
fatale malum (34), sidus iniquum gentibus (35-36), stella infausta per i popoli. Infine fu la natura a
imporre il termine della morte al re pazzo: vaesano
…regi (v. 42).
Infine ricordo Seneca che nel De beneficiis [24] presenta Alessandro come un vesanus
adulescens il quale seguiva le orme
di Ercole e di Libero (Herculi Liberique
vestigia sequens) ma con Ercole non aveva nulla in comune. Ercole infatti
non vinceva per sé (Hercules nihil sibi
vicit) : il figlio di Alcmena era malorum
hostis, bonorum vindex, terrarum marisque pacator. Alessandro invece fu "a pueritia latro gentiumque vastator, tam
hostium pernicies quam amicorum, qui summum bonum duceret terrori esse cunctis
mortalibus" (I, 13, 3).
Ma torniamo a Immaginare altre vite. Bodei nota che “la diffusione dell’opera
plutarchea raggiunse lo zenit tra gli ultimi decenni del Settecento e l’età
napoleonica” (p. 101)
Quindi ricorda il “ trasporto di
grida, di pianti, e di furori”[25]
con il quale Alfieri leggeva alcune di quelle vite.
In Francia “le Vite parallele avevano talmente
infiammato i giovani da renderli pronti
a passare con entusiasmo dai collegi e dalle aule universitarie ai campi di
battaglia e alle assemblee. Inserendosi in questa tendenza, i giacobini, in
particolare Saint-Just e Robespierre, le presero poi come esempio per
tratteggiare l’immagine del politico virtuoso e per progettare-esattamente come
Plutarco l’aveva descritta-una riforma agraria basata su quelle ideate dai due
re spartani Agide e Cleomene nel III secolo a. C. e dai due fratelli Tiberio e
Caio Gracco nella seconda metà del II secolo a. C….Anche Napoleone si era
ispirato agli eroi delle Vite parallele,
che aveva letto, su consiglio dello zio Giuseppe Fesch, genovese originario di
Basilea, fino dall’età di nove-dieci anni
in luoghi solitari alla periferia di Ajaccio, dove poteva fantasticare
su Alessandro, Cesare e su Pascal Paoli, da lui inizialmente considerato un
eroe plutarchesco… Con Napoleone ogni soldato è indotto a credere di portare nel
proprio zaino il bastone di maresciallo
” (p. 102).
Per questo aspetto si può
pensare al modello costituito da Mario, l’homo
novus che “nato da genitori assolutamente oscuri, povera gente che viveva
del proprio lavoro”[26],
invece delle immagini o dei monumenti
funebri degli antenati mostrava le
cicatrici sul petto[27], e se ne
vantava[28].
Del resto anche Alessandro,
re figlio di un re, prima della battaglia di Gaugamela[29], mise in mostra la cosmesi (o l’anticosmesi)
costituita dalle cicatrici, quali
garanzia delle sue parole e altrettante decorazioni del corpo: “spondere pro se tot cicatrices, totĭdem
corporis decŏra”, e, aggiunse, sono
l’unico a non prendere parte del bottino.
Concludo il paragrafo del libro di Bodei: “Le vite immaginate non sono
più appannaggio delle élite o espressione di esistenze mancate: si aprono
ormai, circondate da aloni di opportunità più o meno concrete, a chiunque
sappia farsi faber fortunae suae” (p.
103).
Per ora mi fermo qui, ma riprenderò e porterò avanti il commento di
questo volume poiché, dum lego, dum
scribo, disco. E, forse, dum disco,
doceo.
Giovanni ghiselli
Il blog http://giovannighiselli.blogspot.it/ è arrivato a 122492
15 dic 2013
[1]Fr. 579 Nauck, v. 1.
[3] Storie , Praefatio, 10.
[4] De Republica
, VI, 26.
[5]
Domande di un lettore operaio, vv. 16-19,
da Poesie di Svendborg, 1939, ,in Brecht, Poesie, p. 157.
[6] War is exciting,
even if it entails risks for one’s life and much physical suffering ( Erich Fromm, The Anatomy of human destructiveness, pp. 241-242
[7]
Cfr. Dei sepolcri, v. 228
[8]
Cfr. Dei sepolcri, v 292.
[9]
Ifigenia in Aulide, vv. 1398-1399.
Altrettanto Macaria negli Eraclidi: “tavd j ajnti; paidwn
ejstiv moi keimhvlia (591), questi saranno i ricordi della mia vita
invece dei figli.
[10] La poesia fonda la sua potenza sulla compressione.
Poeta in tedesco si dice Dichter,
colui che rende le cose dicht
(spesse, dense, compatte). L’immagine poetica comprime in un’istantanea un
momento particolare caratteristico di un insieme più vasto, catturandone la
profondità, la complessità, il senso e l’importanza” Hilman, La forza del carattere, p. 70
[11]“ La poesia conclude le Odi e costituisce una rivendicazione non solo della propria opera,
a anche, indirettamente, dell’arte poetica”.
Mi permetto di
presentare la mia traduzione
Ode III, 30.
Ho compiuto un monumento più duraturo del bronzo
e più alto della mole regale delle piramidi,
che la pioggia
corrosiva, né l'Aquilone sfrenato
non possano abbattere, o l'innumerevole
serie degli anni, e la fuga delle età.
Non tutto morrò, anzi gran parte di me
eviterà Libitìna: continuamente io crescerò
rinnovandomi di fama futura, finché il pontefice
salirà il Campidoglio con la vergine silenziosa.
Si dirà per dove strepita l'Ofanto violento
e dove Dauno povero d'acqua regnò
su genti agresti, che io, da umile potente,
per primo ho trasferito la poesia Eolica nei ritmi
Italici. Assumi
l'orgoglio
guadagnato con i
meriti e cingimi
propizia, la chioma, Melpomene, con l'alloro delfico.
Ora torno alla nota di Bodei: “Sulla gloria attribuita dai
poeti, cfr. anche Ovidio, Ex Ponto,
II, 7, 47”.
[12] Creonte, il re di Corinto, dice a Medea: “Poi sento
dire che tu minacci, a quanto mi riferiscono,/di fare qualcosa di male a chi ha dato la sposa, a chi l'ha presa in
sposa/e alla sposata (Medea, vv.
287-289).
[13]
Vita di Alessandro, V, 4-6.
[14] Della primavera del 327 a. C, in Sogdiana, Uzbekistan
[15] Curzio Rufo attribuisce questo pensiero anche a Dario III il quale prima della battaglia di
Isso, dice “famā bella stare” 3, 8, 7. Come nelle Eumenidi di Eschilo, le parti in conflitto hanno un pensiero
comune.
Nelle Storie di
Livio, il console Claudio Nerone, in rapida marcia contro Asdrubale, che verrà
sconfitto poco dopo, sul fiume Metauro (tra Fano e Senigallia, 207 a. C.)
arringa brevemente i soldati dicendo: “Famam
bella conficere, et parva momenta in spem metumque impellere animos” (27,
45), quanto si dice decide le guerre e circostanze anche piccole spingono gli
animi alla speranza e alla paura. Nella Germania di
Tacito, i capi sono assai reputati, afferma l’autore “si numero ac virtute comitatus emineat”, se il loro seguito si
distingue per numero e per valore; in questo caso: “expetuntur enim legationibus et muneribus ornantur et ipsā plerumque
famā bella proflīgant” (13, 3), vengono infatti richiesti attraverso
ambascerie e vengono onorati con doni e con la stessa fama per lo più
determinano l’esito delle guerre.
[16] S. Mazzarino, Il
pensiero storico classico, 2, p. 199-200.
[17] Si veda Cesre, De
bello gallico, VII, 50, 7, dove dice di averli portati in mezzo ai pericoli
spinto dal desiderio di gloria (cupiditate
gloriae adductus).
[19] Tolstoj, Guerra
e pace, epilogo, parte prima, III.
[20] Tolstoj, Guerra
e pace, epilogo, parte prima, III.
[21]
Lisandro concluse la guerra del
Peloponneso sconfiggendo gli Ateniesi: egli se la rideva di quanti stimavano
che i discendenti di Eracle dovessero sdegnare di vincere con il tradimento e
raccomandava sempre:" o{pou ga;r hJ
leonth' mh; ejfiknei'tai prosraptevon ejkei' th;n ajlwpekhvn" dove
di fatto non giunge la pelle del leone, bisogna cucirle sopra quella della
volpe" (Plutarco, Vita di Lisandro, 7, 6).
[22]
Faccio un solo esempio relativo a Shakespeare: la bellezza e la dignità della
morte vengono anteposte alla degradazione della vita da Cleopatra, l'ultima dei
Tolomei: lo capisce l'ancella Carmione la quale, al soldato che, vedendo il
cadavere della regina, le ha domandato : "kala;
tau'ta Cavrmion ;" è bello questo?, risponde con il suo ultimo
fiato: "kavllista me;n ou\n kai;
prevponta th'/ tosouvtwn ajpogovnw/ basilevwn" (Plutarco, Vita di Antonio, 85, 8), è bellissimo e
si confà a una donna che discende da re tanto grandi. Lo stesso personaggio dell'Antonio e Cleopatra di Shakespeare,
all'ottuso guardiano (First Guard)
che le ha posto la medesima domanda retorica (Charmian, is this well done?) , replica : "It is well done, and fitting for a
princess-Descended of so many royal kings. Ah, soldier! (5, 2)", è ben
fatto e adatto a una sovrana discesa da tanti nobili re. Ah soldato!
[23] "I versi di Lucano esprimono un
giudizio forse esasperato e unilaterale, che però, riferito alla reputazione
postuma di Al., è fin troppo vero" (Bosworth, Alessandro
Magno, p. 199).
[24] In sette libri completati nel 64 d. C.
[25]
Vita scritta da esso , Epoca terza,
cap. VII. Alfieri viene preso da furori plutarchei nel vedere Metastasio a Schoenbrunn nei giardini
imperiali fare a Maria Teresa la genuflessioncella d’uso, con una faccia sì
servilmente lieta e adulatoria, ed io giovenilmente plutarchizzando, mi
esagerava talmente il vero in astratto, che io non avrei consentito mai di
contrarre né amicizia né familiarità con una Musa appigionata o venduta
all’autorità despotica da me sì caldamente aborrita” (Vita, 3, 8).
[26] Plurarco, Vita
di Mario, 3
[27]
Cfr.
Mario nel Bellum Iugurthinum di Sallustio dove dice che non può ostentare i ritratti degli
antenati, ma trofèi di guerra “praeterea
cicatrices advorso corpore” (85) e in più le cicatrici sul petto.
Le ferite spesso
parlano: non sempre sono " dumb mouths "(Shakespeare, Giulio
Cesare , III, 2) , bocche mute, come quelle di Cesare assassinato.
"Una ferita è anche una bocca. Una qualche parte di noi sta cercando di
dire qualcosa. Se potessimo ascoltarla! Supponiamo che queste "intensità
sconvolgenti siano una sorta di messaggio: sono "cicatrici", ferite,
che segnano la nostra vita" ( J. Hillman, Il piacere di pensare ,
p. 66)
[28] Plutarco, Vita
di Mario, 9.
Sicuramentre a me insegni. Mi fa molto piacere questa seconda puntata. Per Natale leggerò questo interessante libro che potrò utilizzare a scuola dove insegno greco e latino.
RispondiEliminaAlessandro