Procedo con il commento del recentissimo libro di Remo Bodei
Immaginare altre vite
Realtà, progetti, desideri.
Feltrinelli, Milano, 2013
La fine di
un’illusione? (pp. 103-108)
In questo paragrafo del II capitolo (Potere
e la gloria), Bodei considera come il desiderio di gloria declini o cambi
aspetto dopo l’età napoleonica.
Quale epigrafe a questa mia terza visitazione di Immaginare
altre vite cito alcuni versi di Gozzano del tutto disincantato rispetto
all’illusione del monumentum aere
perennius.
“Oimé! La Gloria! un
corridoio basso- tre ceste, un canterano dell’Impero,-la brutta effigie
incorniciata in nero-e sotto il nome di Torquato Tasso!”[1].
“ Quando la Santa Alleanza impone il mantenimento dello
status quo alle potenze europee restaurate, le aspirazioni dei popoli alla
gloria attraverso le guerre di liberazione vengono soffocate: restano
sporadiche insurrezioni presto represse da interventi di polizia
internazionale” (p. 103).
Leopardi e Stendhal sono tra i testimoni “dell’appassire dei
sogni di gloria”.
Sentiamo intanto Leopardi il quale “vede nella gloria una
generosa aspirazione del passato”.
La gloria per il Recanatese è una di quelle illusioni che
cadono “all’apparir del vero”. Bodei cita alcune frasi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani (del
1824) : “la gloria è un’illusione troppo splendida e un nome troppo alto perché
possa durare dopo la strage delle illusioni, e la conoscenza della verità e
realtà delle cose, e del loro peso e valore” .
Leopardi individua nella storia un ritorno ritmico di questo
scadere delle illusioni. Riferisco, dalle prime pagine dello Zibaldone, un pensiero che risale all’agosto del 1820:
“La più gran nemica della barbarie non è la ragione ma la natura: (seguìta però
a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno
un popolo veramente civile, e certo nessuno chiamerà barbari i Romani
combattenti i Cartaginesi, né i Greci alle Termopile, quantunque quel tempo
fosse pieno di ardentissime illusioni, e pochissimo filosofico presso ambedue i
popoli…Cicerone era il predicatore delle illusioni. Vedete le Filippiche principalmente, ma poi tutte
le altre sue Orazioni politiche; sempre sta in persuadere i Romani a operare illusamene,
sempre l’esempio de’ maggiori, la gloria, la libertà, la patria, meglio la
morte che il servizio; che vergogna è questa: Antonio un tiranno… Cicerone
predicava indarno, non c'erano più le illusioni d'una volta, era venuta la
ragione, non importava un fico la patria la gloria il vantaggio degli altri dei
posteri ec. eran fatti egoisti, pesavano il proprio utile...l’esempio de’
maggiori era una frivolezza in quei tempi tanto diversi…E la ragione facendo
naturalmente amici dell'utile proprio, togliendo le illusioni che ci legano gli
uni agli altri, scioglie assolutamente la società, e inferocisce le
persone"[2].
Quindi Stendhal.
“La scomparsa dell’aspirazione alla gloria militare dopo il
Congresso di Vienna trova la sua massima espressione ne La certosa di Parma e ne Il
rosso e il nero. Nella prima opera, l’intero tessuto narrativo mira a
mostrare, attraverso il suo aspirante eroe, Fabrizio del Dongo, come gli ideali
si trasformino nella finale accettazione della prosa del mondo” ( Immaginare altre vite, p. 105).
“Anche un altro
personaggio del romanzo, il conte Mosca, che aveva combattuto in Spagna con le
truppe francesi, prova un analogo disinganno e, in cinica connivenza con
l’esistente, comincia a pensare alla propria carriera e ai propri interessi”
(p. 106).
Il rosso e il nero mostra Jiulien Sorel che “vuole imitare
Napoleone (di cui conserva, nascondendolo, il ritratto), che imitava Cesare,
che imitava Alessandro, che imitava Achille” (p. 107).
Certi personaggi della letteratura, come i loro autori sono
connessi nella catena delle mimesi.
Robert Musil attraverso il suo protagonista Ulrich, il quale
gioca sempre al ribasso, parla ironicamente di una "catena di plagi"[3] che
lega le grandi figure del mondo artistico l'una all'altra.
Ora vediamo il
paragrafo successivo : Il contributo dei
sergenti (pp. 108-110)
“La medesima delusione nei confronti della gloria si
manifesta molti decenni dopo anche in Tolstoj, proprio da parte di uno dei
personaggi di Guerra e pace da cui
meno la si aspetterebbe: dal principe Andrej Bolkonskij” (p. 108)
Questo aristocratico
russo nella guerra contro Napoleone sente l’obbligo del nobile la cui funzione
politica e militare è trovarsi sempre in prima fila: “la sola idea che potesse
avere paura bastò a rinfrancarlo. “Io non posso avere paura”, pensò e scese
lentamente da cavallo in mezzo ai cannoni”[4].
A proposito degli obblighi della nobiltà, nel XII canto
dell'Iliade Sarpedon spinge Glauco a rischiare la vita
ricordandogli che in Licia tutti concedono speciali privilegi e onori ad alcuni
" ejpei; Lukivoisi mevta prwvtoisi
mavcontai"(v.321), poiché tra i primi Lici combattono.
Così avviene anche tra i Germani di Tacito:"et duces exemplo potius quam imperio, si
prompti, si conspicui, si ante aciem agant, admiratione praesunt " (Germania , 7, 1) e i capi piuttosto con
l'esempio che con il grado di comandante, se sono capaci, se si mettono in
luce, se stanno davanti alla schiera, comandano poiché sono ammirati. E più
avanti (14):" Cum ventum in aciem,
turpe principi virtute vinci ", ogni volta che si è giunti alle armi,
è vergognoso per il capo essere superato in valore.
Il giorno prima della battaglia di Austerlitz il principe
Andrei dice a se stesso: “che cosa posso fare io se non amo che la gloria e
l’amore degli uomini. La morte, le ferite, la perdita della famiglia: nulla mi
fa paura! E per quanto dilette mi siano tante persone, mio padre, mia sorella,
mia moglie, ossia le persone che mi sono più care, per quanto terribile e
innaturale questo possa sembrare, le sacrificherei tutte all’istante per un
minuto di gloria, di trionfo sugli uomini, per conquistarmi l’amore di uomini
che non conosco e non conoscerò mai: per l’amore, ecco, di questi uomini”,
pensava, prestando ascolto al chiacchiericcio nel cortile del palazzotto
abitato da Kutuzov”[5].
Ma poi, quando viene
ferito a morte nella battaglia di Borodino, Andrei Bolkonskij pensa: “Possibile
che sia la morte?...io non posso, non voglio morire, io amo la vita, amo questa
erba, la terra, l’aria”[6].
L’amore per la vita
al di sopra di tutto è anche l’approdo dell’eroe omerico Achille che
nella Nevkuia dice a Odisseo il quale lo ha elogiato per la
supremazia conservata nell’oltretomba: " non consolarmi della morte,
splendido Odisseo./Io preferirei essendo un uomo che vive sulla terra servire
un altro,/presso un uomo povero, che non avesse molti mezzi per
vivere,/piuttosto che regnare su tutti i morti consunti"(Odissea , XI, 488-491).
E' il ribaltamento della sapienza silenica[7]: essere vivi diventa il valore supremo.
Torniamo al libro di
Bodei: “Andrej, come più tardi Pierre Bezukov, ha capito che la guerra non è
condotta solo da grandi personaggi che si spartiscono la gloria (imperatori,
monarchi, generali), ma che è un’impresa collettiva, dove intervengono
anonimamente, con il loro indispensabile contributo individuale, centinaia di
migliaia di uomini. Senza l’apporto dei sergenti, Napoleone non avrebbe potuto
vincere le sue battaglie: solo le imprese dei senza nome, che rimangono ignote,
rendono possibili le gesta memorabili dei grandi” (Immaginare altre vite, p. 108).
Si ricorderanno i versi dell’Andromaca di Euripide (698) e la poesia di Brecht (Domande di un lettore operaio) citati in precedenza. Li riporto in nota[8].
Non tutti gli
scrittori hanno tale considerazione e rispetto per la truppa dei militi ignoti
Alfieri nel 1770 tornò a Berlino
e andò a vedere il luogo dove si svolse una battaglia della guerra dei sette
anni (1756-1763): "Passando per Zorendorff, visitai il campo di battaglia tra’ russi e prussiani, dove tante
migliaia dell’uno e dell’altro armento rimasero liberate dal loro giogo
lasciandovi l’ossa. Le fosse sepolcrali vastissime, vi erano manifestamente
accennate dalla folta e verdissima bellezza del grano, il quale nel rimanente
terreno arido per sé stesso ed ingrato vi era cresciuto misero e rado. Dovei
fare allora una trista, ma pur troppo certa riflessione; che gli schiavi son
veramente nati a far concio” (3, 9).
La
riflessione impietosa, quasi empia, non annulla la positività della vita che
trionfa sulla morte dalla quale rinasce sempre, in forme rinnovate, nella folta
e verdissima bellezza del grano.
Il
culto degli eroi risorge,“almeno come ispirazione” , in Thomas Carlyle.
La
sua opera, Gli eroi. Il culto degli eroi e l’eroico nella storia, del
1840, distingue sei tipi di eroi e
“lamenta la loro scomparsa e il declino del loro culto nelle società
contemporanee, in un periodo che non solo nega l’esistenza dei grandi uomini,
ma non li desidera” (p. 109).
Tra
le varie forme eroiche esistono dei nessi “tutti gli eroi partecipano della
medesima stoffa e grandezza” [9], e il
nesso è più forte nel caso di poeti, preti e profeti.
Si
ricorderà che Platone attribuisce a innamorati, poeti, profeti e fondatori di religioni una
pazzia divina che è più saggia della saggezza del mondo.
Platone assimila la follia erotica ad altre manie: nel Fedro
ricorda che il tema dell'irrazionalità della passione amorosa è stato
già trattato da Saffo e Anacreonte ed elenca quattro modi di essere fuori di
sé: quello dei profeti come la Pizia di Delfi, quello dei fondatori di
religione, quello dei poeti, e quello degli innamorati. C'è da notare che maivnomai, "sono pazzo", maniva, "follia" e mavnti", “profeta”, hanno la radice
comune man(t) -/mhn-.
I beni più grandi
derivano da una mania data dagli dèi ( Fedro,
244a): infatti la profetessa di Delfi, quella di Dodona e la Sibilla procurano
benefici agli uomini quando si trovano in stato di mania, mentre in stato di
senno non ne procurano alcuno. Gli antichi che hanno coniato i nomi hanno
chiamato manikhv la più bella delle
arti che prevede il futuro. Sono stati i moderni, ajpeirokavlw~, con ignoranza del bello, che mettendoci dentro
una tau, mantikh;n ejkavlesan
(244c), l’hanno chiamata mantica.
A proposito della follia dei profeti, Cicerone nel De
divinatione fa derivare divinatio “ a divis ” e mantikhv “ut
Plato interpretatur , a furore”
(1, 1) secondo la spiegazione di Platone, da pazzia, rivendicando la
superiorità dei Romani nel denominare quest’arte prestantissima.
Vediamo dunque alcune affermazione di Carlyle traendole dal
capitolo L’eroe come poeta
Dante-Shakespeare. La parola “vate
significa nello stesso tempo profeta e
poeta; e veramente, in ogni tempo, profeta e poeta ben compresi hanno una
grande affinità di significato…essi hanno penetrato tutti e due il sacro
mistero dell’universo, quello che Goethe chiama “il segreto aperto”…
Se altri può vivere nell’apparenza delle cose, egli sente la
naturale necessità di vivere nell’intimo delle cose...si tratta di un uomo che
prende sul serio l’universo, mentre tutti gli altri non farebbero che prenderlo
a gioco. Egli è un vate, prima di
tutto in virtù della sua sincerità. In tale misura poeta e profeta, che
partecipano al “segreto aperto”, formano uno solo. Quanto poi alla loro distinzione, il vate profeta, potremmo dire, ha colto questo mistero sacro
piuttosto dal lato morale, come Bene e Male, Dovere e Proibizione; il vate poeta dal lato che i tedeschi chiamano
estetico, come Bello e altre simili cose…sono la sincerità e la profondità di
visione di un uomo quello che lo fanno poeta.
La grandezza di Dante
è “concentrata in profondità e in energia di fuoco; egli è grande come
il mondo, non perché sia vasto come il mondo, ma perché è profondo come il
mondo…Dante, l’uomo italiano, è stato inviato nel nostro mondo per incarnare
musicalmente la religione del medioevo…Shakespeare incarna per noi la vita
esteriore della nostra Europa, come era sviluppata allora, con la sua
cavalleria, la sua cortesia, i suoi malumori, le sue ambizioni, la maniera pratica
di pensare, agire, considerare il mondo che avevano allora gli uomini. Come in
Omero possiamo ancora ricostruire la
vecchia Grecia, così in Shakespeare e in Dante, dopo migliaia d’anni, sarà
ancora leggibile quello che era la nostra moderna Europa, come fede e come pratica.
Dante ci ha dato la fede o l’anima, Shakespare, in maniera non meno nobile, ci
ha dato la pratica o il corpo”[10].
Torniamo a Immaginare
altre vite: “Attorno agli anni della pubblicazione del libro di Carlyle,
con il fiorire della “primavera dei popoli”, gli eroi intesi come padri della
patria e libertadores, soldati
dell’ideale, ritorneranno e verranno esaltati con statue, quadri, monumenti,
strade e piazze” (p. 109). Bodei ricorda Mazzini e Garibaldi citando anche le
loro parole.
Più tardi torna di moda la spersonalizzazione dell’eroe la
quale “culmina nel periodo immediatamente successivo alla Prima guerra
mondiale…proprio allora nasce il culto del Milite Ignoto e si innalzano
innumerevoli monumenti ai caduti (i cui nomi sono scolpiti anche nei sacrari,
sui campi di battaglia o sui luoghi del ricordo), riflesso diretto del moderno
conflitto di massa, in cui la tecnologia riduce il margine degli atti di
coraggio individuale, colpendo a caso i combattenti mediante cannoni, bombe o gas. Eppure,
accanto agli eroi anonimi, hanno continuato a esserci quelli che, con il
proprio nome, servono da esempio agli altri, come Ernst Jünger” (p. 110).
Se mi chiedessero di nominare un eroe vivente, oggi
indicherei Gino Strada.
Giovanni Ghiselli
28 dicembre 2013 . Buon anno a
tutti.
[1] La signorina
Felicita, 163-168
[4] Guerra e pace
I, 2, 20
[5] Guerra e pace
I, 3, 12
[6] Guerra e pace III, 2, 36
[7] Questa considera primo bene non essere nati, poi,
come secondo, morire appena nati.
[8] Nell’Andromaca, Peleo critica il
fatto che nei trofei venissero iscritto solo il nome dello stratego il quale“oujde;n plevon drw'n eJno;" e[cei pleivw
lovgon” (Andromaca, v. 698), non facendo niente più di uno solo, ottiene una
fama maggiore.
Curzio Rufo racconta
che Clito, per sminuire le vittorie di Alessandro, il quale poi per
rappresaglia lo uccise, recitò ai convitati i
versi dell’Andromaca di
Euripide con il biasimo di Peleo “quod tropaeis regum dumtaxat nomina
inscriberent” ( Historiae Alexandri Magni,
8, 1, 29), il fatto che nei trofei
scrivessero solo i nomi dei re.
Bertolt Brecht fa eco a questa critica: “Il giovane
Alessandro conquistò l’India./Da solo?/Cesare sconfisse i Galli./Non aveva con
sé nemmeno un cuoco?”.
[9] Immaginare altre vite, p.
227, nota 40.
[10] T. Carlyle, Gli
eroi, trad. it. Dall’Oglio, Milano, 1962.
Carissimo professore ho già cominciato a leggere su sua segnalazione il libro del professor Bodei e lo trovo interessante e ricco di spunti, condivido il suo entusiasmo e quando avrò completato lo studio di immaginare altre vite spero di trovare altre indicazioni sul suo blog e di scoprire altri libri e autori altrettanto interessanti. Giovanna
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