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sabato 28 dicembre 2013

Remo Bodei, Immaginare altre vite, parte III




Procedo con il commento del recentissimo libro di Remo Bodei Immaginare altre vite
Realtà, progetti, desideri.
Feltrinelli, Milano, 2013

La fine di un’illusione? (pp. 103-108)
In questo paragrafo del II capitolo  (Potere e la gloria), Bodei considera come il desiderio di gloria declini o cambi aspetto dopo l’età napoleonica.

Quale epigrafe a questa mia terza visitazione di  Immaginare altre vite cito alcuni versi di Gozzano del tutto disincantato rispetto all’illusione del monumentum aere perennius.
“Oimé! La Gloria!  un corridoio basso- tre ceste, un canterano dell’Impero,-la brutta effigie incorniciata in nero-e sotto il nome di Torquato Tasso!”[1].

“ Quando la Santa Alleanza impone il mantenimento dello status quo alle potenze europee restaurate, le aspirazioni dei popoli alla gloria attraverso le guerre di liberazione vengono soffocate: restano sporadiche insurrezioni presto represse da interventi di polizia internazionale” (p. 103).
Leopardi e Stendhal sono tra i testimoni “dell’appassire dei sogni di gloria”.

Sentiamo intanto Leopardi il quale “vede nella gloria una generosa aspirazione del passato”.
La gloria per il Recanatese è una di quelle illusioni che cadono “all’apparir del vero”. Bodei cita alcune frasi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani (del 1824) : “la gloria è un’illusione troppo splendida e un nome troppo alto perché possa durare dopo la strage delle illusioni, e la conoscenza della verità e realtà delle cose, e del loro peso e valore” .

Leopardi individua nella storia un ritorno ritmico di questo scadere delle illusioni. Riferisco, dalle prime pagine dello Zibaldone,  un pensiero che risale all’agosto del 1820: “La più gran nemica della barbarie non è la ragione ma la natura: (seguìta però a dovere) essa ci somministra le illusioni che quando sono nel loro punto fanno un popolo veramente civile, e certo nessuno chiamerà barbari i Romani combattenti i Cartaginesi, né i Greci alle Termopile, quantunque quel tempo fosse pieno di ardentissime illusioni, e pochissimo filosofico presso ambedue i popoli…Cicerone era il predicatore delle illusioni. Vedete le Filippiche principalmente, ma poi tutte le altre sue Orazioni politiche; sempre sta in persuadere i Romani a operare illusamene, sempre l’esempio de’ maggiori, la gloria, la libertà, la patria, meglio la morte che il servizio; che vergogna è questa: Antonio un tiranno… Cicerone predicava indarno, non c'erano più le illusioni d'una volta, era venuta la ragione, non importava un fico la patria la gloria il vantaggio degli altri dei posteri ec. eran fatti egoisti, pesavano il proprio utile...l’esempio de’ maggiori era una frivolezza in quei tempi tanto diversi…E la ragione facendo naturalmente amici dell'utile proprio, togliendo le illusioni che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società, e inferocisce le persone"[2].

Quindi Stendhal.
“La scomparsa  dell’aspirazione alla gloria militare dopo il Congresso di Vienna trova la sua massima espressione ne La certosa di Parma e ne Il rosso e il nero. Nella prima opera, l’intero tessuto narrativo mira a mostrare, attraverso il suo aspirante eroe, Fabrizio del Dongo, come gli ideali si trasformino nella finale accettazione della prosa del mondo” ( Immaginare altre vite, p. 105).
 “Anche un altro personaggio del romanzo, il conte Mosca, che aveva combattuto in Spagna con le truppe francesi, prova un analogo disinganno e, in cinica connivenza con l’esistente, comincia a pensare alla propria carriera e ai propri interessi” (p. 106).

Il rosso e il nero  mostra Jiulien Sorel che “vuole imitare Napoleone (di cui conserva, nascondendolo, il ritratto), che imitava Cesare, che imitava Alessandro, che imitava Achille” (p. 107).

Certi personaggi della letteratura, come i loro autori sono connessi nella  catena delle mimesi.
Robert Musil attraverso il suo protagonista Ulrich, il quale gioca sempre al ribasso, parla ironicamente di una  "catena di plagi"[3] che lega le grandi figure del mondo artistico l'una all'altra.

 Ora vediamo il paragrafo successivo : Il contributo dei sergenti (pp. 108-110)
“La medesima delusione nei confronti della gloria si manifesta molti decenni dopo anche in Tolstoj, proprio da parte di uno dei personaggi di Guerra e pace da cui meno la si aspetterebbe: dal principe Andrej Bolkonskij” (p. 108)
 Questo aristocratico russo nella guerra contro Napoleone sente l’obbligo del nobile la cui funzione politica e militare è trovarsi sempre in prima fila: “la sola idea che potesse avere paura bastò a rinfrancarlo. “Io non posso avere paura”, pensò e scese lentamente da cavallo in mezzo ai cannoni”[4].

A proposito degli obblighi della nobiltà, nel XII canto dell'Iliade  Sarpedon spinge Glauco a rischiare la vita ricordandogli che in Licia tutti concedono speciali privilegi e onori ad alcuni " ejpei; Lukivoisi mevta prwvtoisi mavcontai"(v.321), poiché tra i primi Lici combattono.
Così avviene anche tra i Germani di Tacito:"et duces exemplo potius quam imperio, si prompti, si conspicui, si ante aciem agant, admiratione praesunt " (Germania , 7, 1) e i capi piuttosto con l'esempio che con il grado di comandante, se sono capaci, se si mettono in luce, se stanno davanti alla schiera, comandano poiché sono ammirati. E più avanti (14):" Cum ventum in aciem, turpe principi virtute vinci ", ogni volta che si è giunti alle armi, è vergognoso per il capo essere superato in valore.

Il giorno prima della battaglia di Austerlitz il principe Andrei dice a se stesso: “che cosa posso fare io se non amo che la gloria e l’amore degli uomini. La morte, le ferite, la perdita della famiglia: nulla mi fa paura! E per quanto dilette mi siano tante persone, mio padre, mia sorella, mia moglie, ossia le persone che mi sono più care, per quanto terribile e innaturale questo possa sembrare, le sacrificherei tutte all’istante per un minuto di gloria, di trionfo sugli uomini, per conquistarmi l’amore di uomini che non conosco e non conoscerò mai: per l’amore, ecco, di questi uomini”, pensava, prestando ascolto al chiacchiericcio nel cortile del palazzotto abitato da Kutuzov”[5].   

Ma poi, quando  viene ferito a morte nella battaglia di Borodino, Andrei Bolkonskij pensa: “Possibile che sia la morte?...io non posso, non voglio morire, io amo la vita, amo questa erba, la terra, l’aria”[6].
L’amore per la vita  al di sopra di tutto è anche l’approdo dell’eroe omerico Achille che nella Nevkuia  dice a Odisseo il quale lo ha elogiato per la supremazia conservata nell’oltretomba: " non consolarmi della morte, splendido Odisseo./Io preferirei essendo un uomo che vive sulla terra servire un altro,/presso un uomo povero, che non avesse molti mezzi per vivere,/piuttosto che regnare su tutti i morti consunti"(Odissea , XI, 488-491).
E' il ribaltamento della sapienza silenica[7]:  essere vivi diventa il valore supremo.

Torniamo al  libro di Bodei: “Andrej, come più tardi Pierre Bezukov, ha capito che la guerra non è condotta solo da grandi personaggi che si spartiscono la gloria (imperatori, monarchi, generali), ma che è un’impresa collettiva, dove intervengono anonimamente, con il loro indispensabile contributo individuale, centinaia di migliaia di uomini. Senza l’apporto dei sergenti, Napoleone non avrebbe potuto vincere le sue battaglie: solo le imprese dei senza nome, che rimangono ignote, rendono possibili le gesta memorabili dei grandi” (Immaginare altre vite, p. 108).

Si ricorderanno i versi dell’Andromaca di Euripide (698) e la poesia di Brecht (Domande di un lettore operaio)  citati in precedenza.  Li riporto in nota[8].

 Non tutti gli scrittori hanno tale considerazione e rispetto per la truppa dei militi ignoti
Alfieri nel 1770 tornò a Berlino e andò a vedere il luogo dove si svolse una battaglia della guerra dei sette anni (1756-1763): "Passando per Zorendorff, visitai il campo di battaglia tra’ russi e prussiani, dove tante migliaia dell’uno e dell’altro armento rimasero liberate dal loro giogo lasciandovi l’ossa. Le fosse sepolcrali vastissime, vi erano manifestamente accennate dalla folta e verdissima bellezza del grano, il quale nel rimanente terreno arido per sé stesso ed ingrato vi era cresciuto misero e rado. Dovei fare allora una trista, ma pur troppo certa riflessione; che gli schiavi son veramente nati a far concio” (3, 9).
La riflessione impietosa, quasi empia, non annulla la positività della vita che trionfa sulla morte dalla quale rinasce sempre, in forme rinnovate, nella folta e verdissima bellezza del grano.

Il culto degli eroi risorge,“almeno come ispirazione” , in  Thomas Carlyle.
La sua opera,  Gli eroi. Il culto degli eroi e l’eroico nella storia, del 1840,  distingue sei tipi di eroi e “lamenta la loro scomparsa e il declino del loro culto nelle società contemporanee, in un periodo che non solo nega l’esistenza dei grandi uomini, ma non li desidera” (p. 109).
Tra le varie forme eroiche esistono dei nessi “tutti gli eroi partecipano della medesima stoffa e grandezza” [9], e il nesso è più forte nel caso di poeti, preti e profeti.

Si ricorderà che Platone attribuisce a innamorati,  poeti, profeti e fondatori di religioni una pazzia divina che è più saggia della saggezza del mondo.
Platone assimila la follia erotica ad altre manie: nel Fedro   ricorda che il tema dell'irrazionalità della passione amorosa è stato già trattato da Saffo e Anacreonte ed elenca quattro modi di essere fuori di sé: quello dei profeti come la Pizia di Delfi, quello dei fondatori di religione, quello dei poeti, e quello degli innamorati. C'è da notare che maivnomai, "sono pazzo", maniva, "follia" e mavnti", “profeta”, hanno la radice comune man(t) -/mhn-.
 I beni più grandi derivano da una mania data dagli dèi ( Fedro, 244a): infatti la profetessa di Delfi, quella di Dodona e la Sibilla procurano benefici agli uomini quando si trovano in stato di mania, mentre in stato di senno non ne procurano alcuno. Gli antichi che hanno coniato i nomi hanno chiamato manikhv la più bella delle arti che prevede il futuro. Sono stati i moderni, ajpeirokavlw~, con ignoranza del bello, che mettendoci dentro una tau, mantikh;n ejkavlesan (244c),  l’hanno chiamata mantica.
A proposito della follia dei profeti, Cicerone  nel De divinatione  fa derivare divinatioa divis ” e mantikhv  ut Plato interpretatur , a furore” (1, 1) secondo la spiegazione di Platone, da pazzia, rivendicando la superiorità dei Romani nel denominare quest’arte prestantissima.

Vediamo dunque alcune affermazione di Carlyle traendole dal capitolo L’eroe come poeta Dante-Shakespeare. La parola “vate significa nello stesso tempo  profeta e poeta; e veramente, in ogni tempo, profeta e poeta ben compresi hanno una grande affinità di significato…essi hanno penetrato tutti e due il sacro mistero dell’universo, quello che Goethe chiama “il segreto aperto”…
Se altri può vivere nell’apparenza delle cose, egli sente la naturale necessità di vivere nell’intimo delle cose...si tratta di un uomo che prende sul serio l’universo, mentre tutti gli altri non farebbero che prenderlo a gioco. Egli è un vate, prima di tutto in virtù della sua sincerità. In tale misura poeta e profeta, che partecipano al “segreto aperto”, formano uno solo. Quanto poi alla loro  distinzione, il vate profeta, potremmo dire, ha colto questo mistero sacro piuttosto dal lato morale, come Bene e Male, Dovere e Proibizione; il vate  poeta dal lato che i tedeschi chiamano estetico, come Bello e altre simili cose…sono la sincerità e la profondità di visione di un uomo quello che lo fanno poeta.
La grandezza di Dante  è “concentrata in profondità e in energia di fuoco; egli è grande come il mondo, non perché sia vasto come il mondo, ma perché è profondo come il mondo…Dante, l’uomo italiano, è stato inviato nel nostro mondo per incarnare musicalmente la religione del medioevo…Shakespeare incarna per noi la vita esteriore della nostra Europa, come era sviluppata allora, con la sua cavalleria, la sua cortesia, i suoi malumori, le sue ambizioni, la maniera pratica di pensare, agire, considerare il mondo che avevano allora gli uomini. Come in Omero  possiamo ancora ricostruire la vecchia Grecia, così in Shakespeare e in Dante, dopo migliaia d’anni, sarà ancora leggibile quello che era la nostra moderna Europa, come fede e come pratica. Dante ci ha dato la fede o l’anima, Shakespare, in maniera non meno nobile, ci ha dato la pratica o il corpo”[10].

Torniamo a Immaginare altre vite: “Attorno agli anni della pubblicazione del libro di Carlyle, con il fiorire della “primavera dei popoli”, gli eroi intesi come padri della patria e libertadores, soldati dell’ideale, ritorneranno e verranno esaltati con statue, quadri, monumenti, strade e piazze” (p. 109). Bodei ricorda Mazzini e Garibaldi citando anche le loro parole.
Più tardi torna di moda la spersonalizzazione dell’eroe la quale “culmina nel periodo immediatamente successivo alla Prima guerra mondiale…proprio allora nasce il culto del Milite Ignoto e si innalzano innumerevoli monumenti ai caduti (i cui nomi sono scolpiti anche nei sacrari, sui campi di battaglia o sui luoghi del ricordo), riflesso diretto del moderno conflitto di massa, in cui la tecnologia riduce il margine degli atti di coraggio individuale, colpendo a caso i combattenti  mediante cannoni, bombe o gas. Eppure, accanto agli eroi anonimi, hanno continuato a esserci quelli che, con il proprio nome, servono da esempio agli altri, come Ernst Jünger” (p. 110).
Se mi chiedessero di nominare un eroe vivente, oggi indicherei Gino Strada.

Giovanni Ghiselli

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28 dicembre 2013 . Buon anno a tutti.


[1] La signorina Felicita, 163-168
[2]Zibaldone , 22-23.
[3]L'uomo senza qualità , p. 270.
[4] Guerra e pace I,  2, 20
[5] Guerra e pace I,  3, 12
[6] Guerra e pace III, 2,  36
[7] Questa  considera primo bene non essere nati, poi, come secondo, morire appena nati.
[8] Nell’Andromaca, Peleo  critica il fatto che nei trofei venissero iscritto solo il nome dello stratego il quale“oujde;n plevon drw'n eJno;" e[cei pleivw lovgon” (Andromaca, v. 698), non facendo niente più di uno solo, ottiene una fama maggiore.  
Curzio Rufo racconta  che Clito, per sminuire le vittorie di Alessandro, il quale poi per rappresaglia lo uccise, recitò ai convitati i  versi dell’Andromaca di Euripide con il  biasimo di Peleo  “quod tropaeis regum dumtaxat nomina inscriberent” ( Historiae Alexandri Magni, 8, 1, 29), il fatto che nei trofei  scrivessero solo i nomi dei re.
Bertolt Brecht fa eco a questa critica: “Il giovane Alessandro conquistò l’India./Da solo?/Cesare sconfisse i Galli./Non aveva con sé nemmeno un cuoco?”. 
[9] Immaginare altre vite, p. 227, nota 40.
[10] T. Carlyle, Gli eroi, trad. it. Dall’Oglio, Milano, 1962.

1 commento:

  1. Carissimo professore ho già cominciato a leggere su sua segnalazione il libro del professor Bodei e lo trovo interessante e ricco di spunti, condivido il suo entusiasmo e quando avrò completato lo studio di immaginare altre vite spero di trovare altre indicazioni sul suo blog e di scoprire altri libri e autori altrettanto interessanti. Giovanna

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