don Lorenzo Milani |
Ambiguità (oJmwnumiva)
di novmo". Antigone e
Creonte. Callicle nel Gorgia. Don
Lorenzo Milani. Antifonte sofista,
Giocasta delle Fenicie di Euripide e
l’uguaglianza come legge cosmica.
Significati diversi può avere la parola novmo".
"Può trattarsi
di un'ambiguità nel vocabolario, corrispondente a ciò che Aristotele chiama homōnymiva
(ambiguità lessicale); questo tipo di ambiguità è reso possibile dalle
oscillazioni o dalle contraddizioni della lingua[1].
Il drammaturgo gioca su queste per esprimere la sua visione tragica di un mondo
in urto con se stesso, lacerato dalle contraddizioni. In bocca ai diversi
personaggi, le stesse parole acquistano significati differenti od opposti,
perché il loro valore semantico non è lo stesso nella lingua religiosa,
giuridica, politica, comune[2].
Così, per Antigone, novmos
designa il contrario di ciò che Creonte, nelle circostanze in cui è posto,
chiama anche lui novvvmos [3].
Per la fanciulla il termine significa
"norma religiosa"; per Creonte, "editto promulgato dal
capo dello Stato". E in realtà il campo semantico di novmos è sufficientemente esteso per
comprendere, con altri, ambedue i sensi. L'ambiguità traduce allora la tensione
fra certi valori avvertiti come inconciliabili nonostante la loro omonimia. Le
parole scambiate sullo spazio scenico,
anziché stabilire la comunicazione e l'accordo fra i personaggi, sottolineano
viceversa l'impermeabilità degli spiriti, il blocco dei caratteri; segnano le
barriere che separano i protagonisti, fanno risaltare le linee conflittuali.
Ciascun eroe, chiuso nell'universo che gli è proprio, dà alla parola un senso
ed uno solo. Contro questa unilateralità urta violentemente un'altra
unilateralità"[4].
Secondo il sofista Callicle del Gorgia di Platone i novmoi della povli" democratica sono innaturali in quanto
costituiscono la barriera difensiva che gli ajsqenei'"
, i deboli, e oiJ polloiv, i più,
erigono per sé e per il loro utile (suvmferon),
onde difendersi dalla legittima pre-potenza dei forti i quali vogliono, secondo
la natura del diritto, kata; fuvsin th;n
tou' dikaivou e secondo la legge della natura, kata; novmon ge to;n th'" fuvsew", stare
meglio di loro, e vengono invece inceppati, incantati e stregati da questi
vincoli contrari alla natura (para; fuvsin).
Ma è giusto che il
più forte prevalga sul più debole, e l'uomo davvero forte lo dimostrerà
spezzando tutti i vincoli e facendo brillare to;
th'" fuvsew" divkaion, il diritto della natura ( 483 b sgg)[5].
Don Lorenzo Milani, al contrario di Callicle, sostiene che le leggi degli uomini sono
giuste"quando sono la forza del debole." Quando invece esse
"sanzionano il sopruso del forte", è bene "battersi perché siano
cambiate"[6].
Schierato per il rifiuto delle leggi scritte dagli uomini
troviamo Antifonte sofista[7]:"
e[sti de;
pavntw" tw'nde e{neka touvtwn hJ skevyi", o{ti ta; polla; tw'n kata;
novmon dikaivwn polemivw" th'/ fuvsei kei'tai" (Della verità , fr. B 44 D. K.), per
queste ragioni soprattutto si svolge la
nostra indagine: che la maggior parte di quanto è giusto secondo la legge si
trova in contrasto con la natura.
Sono state emanate leggi per gli occhi, su ciò che devono
vedere e non vedere, per le orecchie, su ciò che devono sentire e non sentire,
e per la lingua, su quanto deve dire e non deve dire e così via. Fino alla
mente su quello che deve desiderare e quello che no. Fatti
di natura, continua Antifonte, sono il vivere e il morire, e il vivere per gli
uomini deriva da ciò che è utile (kai; to; me;n zh'n aujtoi'" ejstin ajpo; tw'n
xumferovntwn) la morte da ciò che è dannoso. Ebbene riguardo all'utile
le prescrizioni sottoposte alla legge sono ceppi per la natura (ta; me;n uJpo; tw'n novmwn
keivmena desma; th'" fuvsewv" ejsti), mentre ciò che è
prescritto dalla natura è libero (ta; d j uJpo; th'" fuvsew" ejleuvqera).
E certamente quello che addolora non giova alla natura, secondo la retta
ragione, più di quello che rallegra.
La legge istituita dunque non è giusta né utile poiché non
incrementa ma danneggia la vita. Antifonte giunge a conclusioni opposte
rispetto a Callicle, denunciando come innaturali le differenze che le leggi e
le usanze stabiliscono tra gli uomini: "quelli che provengono da una
casata non illustre non li rispettiamo né onoriamo. In questo ci comportiamo
come barbari gli uni verso gli altri. Infatti per natura in tutto tutti siamo
costituiti per essere uguali barbari ed
Elleni…tutti di fatto inspiriamo nell'aria attraverso la bocca e le narici e
tutti mangiamo con le mani "[8].
Nelle Fenicie di Euripide troviamo un contrasto fra Eteocle
che sostiene il proprio potere assoluto, e Giocasta che gli fa notare la
presenza dell’uguaglianza nel cosmo.
"Eteocle
incentra tutto il suo elogio della tirannide sul "di più"[9],
Giocasta obietta:"tiv d j e[sti to; plevon; o[nom j
e[cei monon:/ejpei; tav g j ajrkounq
j iJkana; toi'" ge swvfrosin",
vv. 553-554, che cosa è il più? ha soltanto un nome; poiché il necessario basta
ai saggi. Le ricchezze non sono proprietà privata dei mortali, noi
amministriamo quelle ricevute dagli dèi: quando vogliono, a turno, ce le portano via di nuovo.
Ma Giocasta,
dicevo, propugna l'uguaglianza più in
generale:"kei'no kavllion,
tevknon,-ijsovthta tima'n" (Fenicie,
vv. 535-536), quello è più bello,
figlio, onorare l'uguaglianza; infatti essa è legge cosmica:"nukto;" t
j ajfegge;" blevfaron hJlivou te fw'"-i[son badivzei to;n
ejniauvson kuvklon" ( vv. 543-544), l'oscura palpebra della notte e
la luce del sole percorrono uguale il ciclo annuo. Ora se il sole e la notte si
assoggettano a queste misure[10],
domanda la madre, tu non tollererai di avere una parte uguale del palazzo (su; d j
oujk ajnevxh/ dwmavtwn e[cwn i[son, v. 547) e di attribuire l'altra a
tuo fratello? E dov'è la giustizia? Perché tu la tirannide, un'ingiustizia fortunata (tiv th;n turannivd j, ajdikivan eujdaivmona, v. 549), la
onori eccessivamente e pensi che sia un gran che?
Pensi che essere guardati sia segno di valore? E' cosa vuota
(kenovn, v. 551) di fatto. O vuoi
avere molte pene con molte cose nella casa? -
“Euripide fa pronunciare a Giocasta un atto di fede
nell’organizzazione democratica ed egualitaria della città, messa a repentaglio
dall’incontrollata filotimiva
di chi cerca il potere personale anche a
scapito del bene collettivo…Se Eteocle preferirà il potere, esporrà Tebe al
rischio della distruzione e le sue concittadine a quello della schiavitù e
della violenza. La ricchezza che sta tanto a cuore a Eteocle si rivelerà così
un plou'to~ dapanhrov~, una “ben
dispendiosa ricchezza” (v. 566)…Le parole conclusive di Giocasta saranno
suonate nel teatro di Dioniso come un accorato monito a una generazione di
politici ateniesi così vicini ai due fratelli del mito: mevqeton to; livan, mevqeton (“abbandonate l’eccesso,
abbandonatelo”, v. 584).
Ed è un monito diretto a entrambe le parti: alla parte
oligarchica, perché si renda conto che la ricerca del potere porta alla rovina
della città; alla parte democratica, perché capisca che anche con la ragione
dalla propria parte non si può praticare la violenza all’interno della polis senza danno per tutti. Non c’è
nulla di peggio della somma di due ajmaqivai
contrapposte”[11].
Le Fenicie vennero scritte intorno al periodo del colpo di Stato oligarchico
del 411, ma il rifiuto dell’eccesso e della dismisura è una posizione topica
molto diffusa.
[1] "I nomi sono in
numero finito, mentre le cose sono infinite. Quindi è inevitabile che un nome
unico abbia più sensi": Aristotele, Confutazione dei sofisti I,
165a 11.
[2] Cfr. Euripide, Fenicie,
409 sgg.:" Se la stessa cosa fosse ugualmente per tutti bella e saggia,
gli umani non conoscerebbero la controversia delle contese. Ma per i mortali
non esiste nulla di simile o di uguale, salvo nelle parole; la realtà è tutta
diversa".
[3] La stessa ambiguità
appare negli altri termini che occupano un posto di rilievo nella trama
dell'opera: divkh,
fivlo" e filiva, kevrdo" , timhv, ojrghv, deinov" .
[4]J. P. Vernant,
Ambiguità e rovesciamento in Mito e
tragedia nell'antica Grecia , p. 89. L 'interpretazione della tragedia come
collisione tra due unilateralità risale all'Estetica di Hegel la quale
fu pubblicata nel 1836-1838 , dopo
la sua morte (1831), dai discepoli sugli appunti delle lezioni tenute dal
maestro tra il 1817 e il 1829.
[5]Socrate confuta Callicle, ma non senza averne
apprezzata la parrhsiva, la franchezza non ignobile. La conclusione del
maestro di Platone nel Gorgia indica dikaiosuvnh e swfrosuvnh, giustizia e temperanza, come i bersagli cui deve
mirare l'uomo buono che vuole essere felice, non permettendo che le passioni
divengano sfrenate (507d-e). E tra commettere ingiustizia e subirla, il male
minore è subirla (mei'zon
mevn famen kako;n to; ajdikei'n, e[latton de; to; ajdikei'sqai, 509c).
[6]L'obbedienza
non è più una virtù
, p.38
[7]
Vissuto ad Atene nella seconda metà del V secolo.
[8]
Oxyrh. Pap. XI Fragmetum I
[9]Lanza,
op. cit., p. 53.
[10] Il consiglio di seguire la natura, in particolare
osservando l'alternarsi del dì e della notte, per prendere decisioni
equilibrate lo dà anche Seneca a Lucilio "cum rerum natura delibera:
illa dicet tibi et diem fecisse et noctem" (Ep. 3, 6), prendi
decisioni osservando la natura: quella ti dirà che ha fatto il giorno e la
notte.
I mortali non possiedono le ricchezze come
cose proprie, esse sono degli dèi e noi le amministriamo, continua Giocasta (Fenicie, v. 555-556). Seneca echeggia
questo topos in Ad Marciam de consolatione (del 37d.C.) :"mutua
accepimus. Usus fructusque noster est" (10, 2), abbiamo ricevuto le
cose in prestito. Nostro è l'usufrutto.
[11]
E Medda, (a cura di) Euripide, Le Fenicie,
p. 46.
Nessun commento:
Posta un commento