Ovidio |
Si consegue
l’originalità moltiplicando i modelli: Quintiliano, Leopardi, Eliot. Originalità
e novità (Murray)
Il ragazzo, per giungere all'originalità, deve conoscere
diverse teorie. Posso "autorizzare" questa mia convinzione con
l’appoggio di autori diversi.
Orazio nell’Ars
poetica prescrive: “vos exemplaria
Graeca/nocturna versate manu, versate diurna” (vv. 268-269), voi leggete e
rileggete i modelli greci, di notte e di giorno.
Quintiliano afferma che Demostene è “longe perfectissimus Graecorum”, di gran lunga il più perfetto dei
Greci. Tuttavia, aggiunge, in qualche cosa, in qualche luogo si esprimono
meglio altri, pur se in moltissime il più bravo è lui (aliquid tamen aliquo in loco melius ali, plurima illei). Quindi arriviamo al punto: “Sed non qui maxime imitandus, et solus
imitandus est”, non deve essere imitato in esclusiva quello che più di
tutti deve essere imitato. Così tra il latini non basta Cicerone quale modello:
“ Plurium bona ponamus ante oculos, ut
aliud ex alio haereat, et quod cuique loco conveniat aptemus”[1],
mettiamoci davanti agli occhi i gioielli di diversi modelli, perché ci rimanga
qualche cosa dall’uno e dall’altro, e noi possiamo applicare ciò che si confà a
ciascuna opera.
con una riflessione
di Leopardi il quale dichiara di "aver contratta, a forza di moltiplicare
i modelli, le riflessioni ec. quella specie di maniera o di facoltà, che si chiama originalità. (Originalità quella che si contrae? e che
infatti non si possiede mai se non s'è acquistata? Anche Mad. di Staël dice che
bisogna leggere più che si possa per divenire originale. Che cosa è
dunque l'originalità? facoltà acquisita, come tutte le altre, benché questo
aggiunto di acquisita ripugna dirittamente al significato e valore del suo nome.)"[2].
Qualche cosa di simile nel saggio già citato[3]
di Eliot: " Se noi ci accostassimo a un poeta senza alcun pregiudizio, spesso
ci accorgeremmo che le parti non solo migliori ma anche le più personali della
sua opera sono forse quelle in cui i poeti scomparsi, i suoi antenati, dimostrano
con maggior vigore la loro immortale maturità".
Non bisogna confondere l’originalità con la novità.
“La pura e semplice novità è una cosa esterna e accidentale.
E’ solo questione di date. Col tempo, si offusca. Ad esempio, l’Ippolito sembra sia stata la prima
tragedia d’amore della letteratura europea. In quel senso essa era nuova, ma la
sua novità si è via via offuscata nel giro di duemila trecento anni. Però la
sua originalità è tuttora viva e la si avverte ancora. Origo significa sorgente, uno sgorgare di acque…Noi chiamiamo
originale un’opera d’arte quando essa genera l’impressione di una fonte vivente,
tanto da farci dire. ‘Ecco la bellezza o la saggezza allo stato sorgivo e non
incanalate in tubi o raccolte in secchi’. Questo carattere di freschezza
sorgiva e di mobilità non ha niente a he fare con la novità, e pertanto non può
mai invecchiare…Essenziale è l’intensità fantastica”[4].
La critica
contrastiva. Il giudizio dissacratore di Des Esseintes su Virgilio. Più
difficile è trovare interpretazioni contrastanti della storia: gli storiografi
santificano il successo
Poco tempo fa era di moda la “traduzione contrastiva”;
ebbene io credo che la critica contrastiva sia non meno importante al fine di
sviluppare l'intelligenza degli allievi. Si può dare un esempio[5]
indicando la biblioteca di Des Esseintes il quale su alcuni classici, usualmenti
celebrati come sommi, il solitario esteta dà giudizi dissacratòri, tanto da
ribaltare quelli canonici, che il giovane può così vedere capovolti, trovando
magari autorizzata la sua antipatia per questo o quell'altro autore
universalmente consacrato.
Vediamone uno. "Virgilio…gli appariva non solo uno dei
più esosi pedanti, ma anche uno dei più sinistri rompiscatole che l'antichità
abbia mai prodotto. I suoi pastori, usciti pur mo' dal bagno e azzimati di
tutto punto, che si scaricano a vicenda sul capo filastrocche di versi
sentenziosi e gelati; il suo Orfeo ch'egli paragona a un usignolo in lacrime[6];
il suo Aristeo che piagnucola per delle api; il suo Enea, questo personaggio
indeciso e ondeggiante che si muove come un'ombra cinese, con mosse da
marionetta"[7].
E’ molto più difficile trovare interpretazioni in contrasto
dei fatti storici poiché le opere che parteggiano per chi ha perso le guerre
vengono annientate oppure oscurate. Filino di Agrigento che raccontò la prima
guerra punica con ottica filocartaginese lo conosciamo solo attraverso i
biasimi di Polibio favorevole ai Romani, e così pure Cherea, Sosilo e Sileno, gli
storici annibalici che vengono criticati come storiografi tragici.
Un poeta
“contrastivo”: Ovidio e la polemica libertina con i poeti augustèi ortodossi. L’adulterio
e le leggi di Augusto: “corruptissima
republica plurimae leges”
Ovidio ingaggia una
garbata polemica con Virgilio il quale aveva santificato il suo pio eroe: abbiamo
visto (16, 3) che il poeta peligno nell'Ars amatoria (III 39-40) menziona
Enea tra gli amanti infedeli.
Il Sulmonese in
effetti opera un rovesciamento nei confronti di alcune parti dell'etica
propugnata dai poeti augustei ortodossi.
Si possono indicare alcuni aspetti della polemica libertina di
Ovidio con gli autori che organizzavano il consenso alla volontà moralizzatrice
di Augusto: si pensi al Carmen saeculare di Orazio[8]
nel quale il poeta di Venosa celebra il nuovo secolo di prosperità e virtù
morali ritrovate: "Iam Fides et Pax et Honor Pudorque/priscus et
neglecta redire Virtus/audet, apparetque beata pleno/Copia cornu"[9],
già la Fede e la Pace e l'Onore e il Pudore antico e la Virtù messa da parte
osa tornare, e appare felice l'Abbondanza con il corno pieno.
Tali beni derivano dalle
preghiere e dalle vittorie di Augusto, discendente del “castus Aeneas” (Carmen saeculare, v. 42), “clarus Anchisae Venerisque
sanguis” (v. 50) puro sangue di Anchise e di Venere, “bellante prior, iacentem/lenis in hostem" (vv. 51-52), vincente sul nemico in
armi, mite con il nemico caduto. Questo eroe senza machia e senza paura nelle
intenzioni degli autori dovrebbe prefigurare Augusto.
Ebbene, secondo Ovidio Enea non è castus né pius[10],
e Roma non è la città del Pudore ma dell’amore libero.
“Negli Amores è la stessa impostazione di
giuoco sofistico[11]
che toglie aggressività all'irrisione della rusticitas:
cito, per esempio, un passo di III 4 (37 sgg.), l'elegia dove si vuole
dimostrare che è meglio lasciare le puellae
senza sorveglianza: Rusticus est nimium
quem laedit adultera coniunx, /et notos mores non satis Urbis habet, /in qua
Martigenae non sunt sine crimine nati, /Romulus Iliades Iliadesque Remus
" [12],
e' davvero rozzo quello che una
moglie adultera offende, e non conosce bene i costumi di Roma nella quale i
figli di Marte non sono nati senza colpa, Romolo figlio di Ilia e il figlio di
Ilia Remo.
Insomma il marito che, tradito, si adonta, è
un ignorante integrale.
"Per Ovidio Roma non è la regina
delle città che detta legge al genere umano: è invece principalmente la città
dell'amore. Tutto invita ad amare: strade, piazze, portici offrono mille
bellezze giunte dai quattro punti cardinali per conquistare i loro vincitori…Persino
l'antico Foro diventa luogo di appuntamenti e tende trappole ai giureconsulti: "et
fora conveniunt-quis credere possit-amori"[13],
(Ars amatoria, I, 79.), anche i fori si confanno all'amore,
chi potrebbe crederlo?
Sappiamo che Ovidio con questo, o con un altro carmen, e con un altrettanto imprecisato
error irritò Augusto, il quale
tentava di porre un freno alla licentia a suon di leggi. Il poeta pagò a
caro prezzo la sua eterodossia rispetto alla volontà del principe e al coro dei
poeti organici al regime.
Vediamo le numerose e vane leggi dell’imperatore: “corruptissima republica plurimae leges”
(Tacito, Annales, 3, 27).
La lex Iulia de adulteriis
coercendis fu approvata nel 18 a. C.
Un’altra legge volta a frenare, o per lo meno a regolarizzare
e ordinare l’amore, fu la lex Iulia de
maritandis ordinibus, sempre del 18 a. C. Questa multava i celibi e
premiava gli ammogliati fecondi.
Cassio Dione[14]
racconta che Augusto sottopose a punizioni fiscali le categorie dei celibi e
delle nubili, mentre istituì dei premi per il matrimonio e la procreazione (54,
16).
Della lex Iulia, che mirava a combattere la licenza
sessuale e la diminuzione della natalità, si trova un’eco in una delle strofe
saffiche del Carmen Saeculare di Orazio: “Diva, producas subolem patrumque / prosperes decreta super iugandis /
feminis prolisque novae feraci / lege marita” (vv. 17-20), Dea[15]
fa crescere la prole e da’ successo ai decreti del senato sulle donne da unire
in matrimonio e sulla legge nuziale feconda di nuova prole.
La lex Iulia de
maritandis ordinibus poi venne ribadita e inasprita dalla lex Papia Poppaea (del 9 d. C.) che, tra
l’altro, concedeva agevolazioni fiscali e legali a chi avesse almeno tre figli
(ius trium liberorum). Tacito ci fa
sapere che Augusto già piuttosto vecchio (senior) l’aveva ratificata
dopo le leggi Giulie[16]
incitandis caelibum poenis et augendo aerario (Annales 3, 25),
per aggravare le pene contro i celibi e per impinguare l’erario.
Non per questo, continua lo storico, i matrimoni e le
nascite dei figli divenivano più frequenti, praevalida orbitate, tanto
si era affermato il costume di non avere famiglia. Questa legge del resto favorì
la delazione e suscitò il terrore: “Acriora ex eo vincla, inditi custodes et
lege Papia Poppaea praemiis inducti ut, si a privilegiis parentum cessaretur, velut
parens omnium populus vacantia teneret” (Annales 3, 28), più aspri
da quel momento divennero i vincoli, furono imposti custodi, e con i premi
promessi dalla legge Papia Poppea furono incoraggiati a che il popolo, come
padre comune, occupasse i beni rimasti liberi, se qualcuno rinunciava ai
privilegi di padre di famiglia.
Lo storiografo
continua denunciando l’invadenza degli inquisitori nella vita privata dei
cittadini terrorizzati.
Cassio Dione afferma che Augusto nel 18 a. C. sottopose a
punizioni fiscali le categorie dei celibi e delle nubili, mentre pose dei premi
(a\qla e[qhken) per il matrimonio e
la procreazione (54, 16). E siccome nella nobiltà c’erano più maschi che femmine,
consentì a chi lo desiderava, tranne che ai senatori, di sposare delle liberte
con nozze legittime.
Più avanti lo storiografo racconta che l'imperatore nel 9 d.
C. parlò agli sposati e ai celibi. Elogiò i primi, meno numerosi, dicendo che
erano cittadini benemeriti e fortunati: infatti ottima cosa è una donna
temperante, casalinga, buona amministratrice e nutrice dei figli ("a[riston gunh; swvfrwn oijkouro;"
oijkovnomo" paidotrovfo" " (LVI, 3, 3) ed è una grande
felicità lasciare il proprio patrimonio ai propri figli; inoltre anche la
comunità riceve vantaggi dal grande numero (poluplhqiva,
3, 7) di lavoratori e di soldati.
Quindi Augusto parlò con parole di biasimo ai non sposati
che erano molto più numerosi. Voi, disse in sostanza, siete gli assassini delle
vostre stirpi e del vostro Stato. Voi tradite la patria rendendo deserte le
case e la radete al suolo dalle fondamenta: "a[nqrwpoi gavr pou povli" ejstivn, ajll' oujk oijkivai oujde; stoai; oujd' ajgorai;
ajndrw'n kenaiv" (LVI, 4, 1), gli uomini infatti probabilmente
costituiscono la città, non le case né i portici né le piazze vuote di uomini.
Augusto seguita il suo discorso ricordando le leggi
moralizzatrici, o presunte tali, che abbiamo menzionato sopra, quindi accusa i
celibi di essere simili ai briganti e alle fiere selvatiche: voi, dice, non è
che volete vivere senza donne, visto che nessuno di voi mangia o dorme solo: "ajll' ejxousivan
kai; uJbrivzein kai; ajselgaivnein e[cein ejqevlete" (LVI, 4, 6-7),
ma volete avere la facoltà della dismisura e dell'impudenza. Poi il Princeps
ammette che nel matrimonio e nella procreazione ci sono aspetti sgradevoli (ajniarav tina), ma, aggiunge, non mancano
i vantaggi. Ci sono i premi promessi dalle leggi: "kai; ta; para; tw'n
novmwn a\j'qla", 8, 4).
Ancora la dissacrazione
virgiliana di Huysmans, quindi la detrazione di Hegel, poi, contrastivamente, Eliot
che considera il Mantovano quale classico supremo. Il vizio italico, e mafioso
della raccomandazione (I Bucolica). Altri
autori smontati da Huysmans (Ovidio, Orazio, Cicerone, Cesare, Tito Livio, Seneca,
Svetonio). Pirandello e la stroncatura di Cicerone (“Nojoso più d’un
principiante di violino!”
Ma torniamo alla dissacrazione di Huysmans: Virgilio avrebbe per giunta compiuto
"impudenti plagi[17] a spese di Omero, di Teocrito, di Ennio,
di Lucrezio"; la metrica sarebbe stata "tolta in prestito alla
perfezionata officina di Catullo". In conclusione: "quella miseria
dell'epiteto omerico che torna ogni momento e non dice nulla, non evoca nulla;
tutto quell'indigente vocabolario sordo e piatto, lo mettevano alla
tortura".
Anche Hegel dà,
nell’Estetica, un giudizio non
positivo su Virgilio: “ Per citare un altro paio di esempi, ricordiamo
l'episodio tragico di Didone, che è di colore così moderno da spingere Tasso ad
imitarlo, anzi a tradurlo in parte letteralmente, e da suscitare ancor oggi
l'ammirazione dei francesi. E tuttavia che differenza con l'umana ingenuità, verità
e spontaneità degli episodi di Circe e Calipso![18]
Lo stesso si può dire della discesa[19]
di Ulisse nell'Ade. Questa oscura e crepuscolare dimora delle ombre appare in
una nube tetra, in una mescolanza di fantasia e realtà, che ci incanta e
stupisce. Omero non fa scendere il suo eroe in un mondo sotterraneo bello e
pronto; ma Odisseo stesso scava una fossa, in cui versa il sangue dell'ariete
che ha ucciso, poi invoca le ombre che sono costrette ad affollarsi intorno a
lui ed egli chiama le une a bere il sangue vivificante, perché gli parlino e
gli possano dare notizie, mentre scaccia con la spada le altre che si affollano
intorno a lui assetate di vita. Tutto accade qui in modo vivo ad opera
dell'eroe stesso, che non si comporta umilmente come Enea o Dante. In Virgilio
invece Enea discende ordinatamente agli Inferi, e le scale, Cerbero, Tantalo e
tutto il resto acquistano l'aspetto di una casa ben tenuta, come in un freddo
manuale di mitologia"[20].
Dopo questa smontatura di Virgilio si riprenda in mano Eliot
che nel saggio Che cos'è un classico? [21]
attribuisce al poeta di Enea la posizione centrale "del classico supremo;
è lui il centro della civiltà europea, in una posizione che nessun altro poeta
può condividere o usurpare"[22].
Ebbene, proprio per il fatto che questo grande classicista angloamericano può essere
un maestro per noi che ci occupiamo di lettere antiche, i suoi giudizi non
devono essere presentati come dogmatici e intoccabili, anzi, dato il loro peso,
vanno messi a confronto con critiche di altro colore.
Possiamo commentare un elogio eliotiano di Virgilio con una
critica nostra nei confronti di un mal costume tipicamente italico, il
favoritismo, il clientelismo, la raccomandazione mafiosa[23],
raccontato senza alcun biasimo dal poeta stesso che ne ha fruito e riempie di
sperticati elogi il proprio padrino. T. S. Eliot indica alcuni requisiti necessari
all’alto grado della classicità: maturità della mente[24]
assenza di provincialismo[25],
raffinatezza di costumi[26],
e comprensività. Tutte qualità presenti in Virgilio. Vediamo dunque che cosa è
secondo Eliot la “comprensività”: “entro i propri limiti formali, il classico
deve esprimere il massimo possibile dell’intera gamma di sentimenti che
costituiscono il carattere nazionale dei parlanti la sua lingua. Egli
rappresenterà tali sentimenti come meglio non si potrebbe…[27]”.
Ebbene la prima Bucolica rappresenta
al meglio il sentimento legato alla raccomandazione, una pratica tanto presente
in Italia da essere emblematica del costume degli Italiani, un proprium et peculiare vitium [28]
della nostra gente.
Sentiamo che cosa è un classico secondo Nietzsche
Aesthetica
Per essere un CLASSICO, si deve:
avere tutte le doti e i desideri forti, apparentemente
contraddittori; ma in modo che si intreccino sotto un solo giogo;
venire al tempo giusto,
per portare all’ultima perfezione un genus
di letteratura o arte politica (non dopo
che ciò è già avvenuto) ;
rispecchiare nelle più intime profondità della propria anima
uno stato complessivo (si tratti di un popolo o di una cultura), in un tempo
in cui esso sussista ancora e non sia mai oscurato dall’imitazione di ciò che è
straniero…essereuno spirito non reattivo, ma che concluda e guidi in avanti, uno spirito che dica sì in tutti i casi, anche col suo odio”[29].
“Il gusto classico: è la volontà di semplificazione, rafforzamento,
di rendere visibile la felicità; la volontà di terribilità, il coraggio della nudità psicologica (la semplificazione è
conseguenza della volontà di rafforzare; il rendere visibile la felicità, e
parimenti la nudità, è conseguenza della volontà di terribilità”[30].
Ovidio non è trattato meglio da Huysmans: le sue "cacate"
esercitavano sullo schifiltoso anacoreta di Controcorrente
un fascino "dei più modesti e sordi".
"Una sconfinata avversione provava per le grazie
elefantesche di Orazio, per il balbettio di questo insopportabile centochili
che fa lo smorfioso con lazzi di vecchio saltimbanco infarinato".
Cicerone, "il
Cece" lo annoiava per "la greve compattezza del suo stile carnoso, ben
nutrito ma degenerato in grasso, privo d'osso e di midolla…né molto più di
Cicerone lo entusiasmava Cesare, famoso pel suo laconismo; perché l'eccesso
contrario diventava in questo aridità da caporalmaggiore, secchezza da appunto,
stitichezza incredibile e sconveniente". Sallustio, pur sopravvalutato dai
"falsi letterati" era "meno sbiadito degli altri; Tito Livio, patetico
e pomposo; Seneca, turgido e scialbo; Svetonio, linfatico ed embrionale"[31].
Su Cicerone e la retorica c'è pure questa stroncatura di
Pirandello. Parla il cavalier Tito Lenzi che sapeva fare bei discorsi: "io
odio la retorica, vecchia bugiarda fanfarona, civetta con gli occhiali…Cicerone
però, diciamo la verità, eloquenza, eloquenza, ma…Dio ne scampi e liberi, caro
signore! Nojoso più d'un principiante di violino!"[32].
[1]
Institutio oratoria, X, 2, 24-26.
[2]Zibaldone, 2185-2186.
[3] Tradizione e talento
individuale. Cfr. cap. 3.
[4]
G. Murray, L’origine dell’Epica greca,
p. 318 e p. 320.
[5] Almeno di un esempio ha bisogno
chi vuole imparare concretamente.
[6]
Cfr. Georgica IV: "qualis
populea maerens philomela sub umbra/amissos queritur fetus… " (vv. 511-512),
quale l'usignolo addolorato, sotto l'ombra del pioppo, lamenta le creature
perdute.
[7] J. K. Huysmans, Controcorrente, p.
42.
[8]
Del 17 a. C.
[9]
Vv. 57-60. E' una strofe saffica formata da tre endecasillabi saffici e da un
adonio.
[10]
Cfr. Ars amatoria, III, vv. 39-40 e
Virgilio, Eneide I, vv. 8-11, già
citati in 16. 3. Cfr. anche Ars amatoria
I, vv. 605-606 citati in 17. 2.
[11] “Giuoco
sofistico” significa non riconoscere alcun valore oltre il successo e
utilizzare ogni mezzo, a partire dalla parola, per conseguirlo in ogni modo: in
questo caso chiamare in causa gli dèi per avallare licenza e trasgressione
sessuale. E' quello che fa il Discorso Ingiusto nelle Nuvole di
Aristofane quando consiglia a Fidippide: se ti sorprendono in adulterio, rispondi
al marito che non hai fatto niente di male, poi fai ricadere l'accusa su Zeus, di’
che anche lui è più debole di amore e delle donne ("kajkei'no" wJ" h{ttwn
e[rwtov" ejsti kai; gunaikw'n",
v. 1081). Il riferimento è ai tanti adultèri di Zeus che possono coonestare
quelli del giovane allievo istruito dall' a[diko" lovgo". "La sofistica ne approfitta, raccogliendo dal mito gli esempi
sfruttabili nel senso della dissoluzione e relativizzazione naturalistica
ch'essa fa di tutte le norme vigenti. Se la difesa in giudizio tendeva in
passato a provare che il caso era conforme alle leggi, ora si attacca la legge
e il costume stesso, cercando di dimostrarli manchevoli" (W. Jaeger, Paideia 1, p. 630). Nella
poesia erotica greca e latina chi ama, si appella topicamente agli amori di
Zeus. Faccio qualche esempio. Nell’VIII idillio di Teocrito il bovaro Dafni
canta: “w\ pavter
w\ Zeu', ouj movno" hjravsqhn: kai; tu; gunaikofivla"” (vv. 59-60), o padre Zeus, non mi sono innamorato
solo io: anche tu sei amante delle donne. Nel poema di Apollonio Rodio Era chiede a Teti
di salvare gli Argonauti da Scilla-Cariddi e dalle Plancte, e le ricorda
l’affetto che ha provato per lei da quando rifiutò le profferte amorose di Zeus:
“a quello infatti interessa sempre questa attività: passare la notte con donne,
mortali o immortali” (Argonautiche, 4,
794-795). Catullo
ricorda i plurima furta Iovis per combattere la propria gelosia e
accettare le scappatelle di Clodia: “Quae tamen etsi uno non est contenta
Catullo, /rara verecundae furta feremus erae, /ne nimium simus stultorum more
molesti. /Saepe etiam Iuno, maxima caelicolum, /coniugis in culpa flagrantem
cohibuit iram, /noscens omnivoli plurima furta Iovis” (68 A, vv. 135-140), se
Clodia però non si accontenta del solo Catullo, sopporterò i tradimenti rari
della riservata signora, per non essere troppo fastidioso, come sono gli stolti.
Spesso anche Giunone, la più grande tra le dèe del cielo, frenò l’ira che
bruciava davanti alla colpa del marito, ammettendo i moltissimi adultèri del
marito che vuole tutto.
[12] A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana, p.
186.
[13]
P. Grimal, L'amore a Roma, trad. it. Aldo Martello, Milano, 1964, p. 140.
[14]
Vissuto tra il II e il III sec. d. C., scrisse una Storia Romana in
greco. Constava di ottanta libri che andavano dalle origini al 229 d. C. Ne
restano 25 (dal 36 al 60) oltre alle epitomi di età bizantina.
[15] Ilitìa, identificata con Lucina, la dea romana dei
parti.
[16] De maritandis ordinibus e De adulteriis
coërcendis del 18 a. C.
[17] Si ricordi la "catena di plagi" (cap. 8) denunciata da
Musil.
[18]Voglio
fare allo studente-lettore un esempio di semplicità "verità e
spontaneità" che ha sempre colpito i miei studenti-uditori. Nel V libro
dell' Odissea dunque Odisseo che
convive con Calipso nell'isola di Ogigia piange in continuazione sospirando il
ritorno. Immaginate le chiacchiere che ci farebbe sopra un moderno, psicologo, romanziere
o azzeccagarbugli di qualsiasi parrocchia. Omero usa quattro parole per
indicare la causa più plausibile e vera in questo tristissimo caso, non
infrequente, di frequentazione obbligatoria: "ejpei; oujkevti h{ndane nuvmfh" (v. 153), piangeva
poiché la ninfa non gli piaceva più. Punto e basta.
[19]
Sic! Ndr.
[20]G.
W. F. Hegel, Estetica, pp. 1422-1423.
[21]
Del 1944.
[22]
Al convegno di Lamezia Terme (Scuola e cultura classica, 2 marzo 2004)
l'ispettore Luciano Favini ha definito Eliot "ierofante di Virgilio".
[23]
“Il rapporto clientelare si configura come un’organizzazione mafiosa che
garantisce l’omertà, e il successo dei disonesti”. (L. Perelli, La corruzione politica nell’antica Roma,
p. 31).
[24]
Per la quale, lo abbiamo già ricordato (cap. 6), secondo Eliot, è necessaria
“la consapevolezza della storia”
[25] “ E per provinciale intendo più di quanto trovo nelle
definizioni dei vocabolari…Intendo una stortura dei valori (escluderne alcuni
esagerandone altri), derivante non dall’aver poco viaggiato per il mondo, ma
dall’applicare all’intera esperienza umana criteri normativi acquistati in
un’area limitata; il che porta a scambiare il contingente con l’essenziale, l’effimero
con il durevole” T. S. Eliot, Op. cit,
p. 975.
[26] Mi sembra di percepire in Virgilio, più che in ogni
altro poeta latino (perché al confronto di lui Catullo e Properzio sembrano
tipacci, e Orazio un plebeo), una raffinatezza di costumi che deriva da una
delicata sensibilità, specie se guardiamo a quella pietra di paragone dei
costrumi che è il comportamento privato e pubblico fra i due sessi…ho sempre
pensato che l’incontro di Enea con l’ombra di Didone, nel libro VI, sia non
soltanto uno dei brani più commoventi, ma anche uno dei più civili che si
possano incontrare in poesia…Il punto, direi, non è che Didone non perdona (benché
sia importante che invece di ingiuriare Enea ella si limiti a ignorarlo-ed è
forse il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia) ; la cosa
più importante è che Enea non perdona a se stesso, sebbene ed è significativo, si
renda ben conto che tutto quanto ha fatto è stato per obbedire al destino…Ho
scelto questo brano quale esempio di maniere civili…” Che cos’è un classico, in T. S. Eliot, Opere, p. 967.
[27]
T. S. Eliot, Che cos’è un classico, in T. S. Eliot, Opere, p. 972.
[28]
Cfr. la citazione di Tacito in 19.
[29]
Frammenti postumi Autunno 1887, (116), 9, (166).
[30]
Frammenti postumi Autunno 1887 (310) 11 (31).
[31] Huysmans, Controcorrente, (del
1884) p. 42 ss.
[32]
Il fu Mattia Pascal (del 1904), p. 125.
Carissimo Gianni,hai il dono di far sembrare semplici concetti difficilissimi. Leggerti è sempre un grande piacere. Giovanna Tocco
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