Saturno che divora i suoi figli Francisco Goya |
Il mito. Hillman. Pluralità di significati di alcuni
personaggi mitici. G. B. Conte. Saturno. Eracle e Dioniso. Excursus su politeismo,
monoteismo e democrazia. Cacciari. Pasolini: l’espressione “democrazia
cristiana” è una contraddizione di termini. Freud: L’uomo Mosé e la religione monoteistica. Alfieri e Dostoevskij: critiche
al cattolicesimo. George Steiner: Nel castello di Barbablù. Vari significati
del mito. Nietzsche. Miti di origine: di nuovo Hillman. Il mito di Er. Morin, Pasolini e il film Medea. Cesare Pavese. Kundera: diversi miti antichi partono dalla
compassione di qualcuno che salva un bambino abbandonato. Mosè, Edipo, Cipselo
e altri casi di compassione. Il
film Orizzonti di gloria di Stanley
Kubrick: “ the noblest impulse of man,
his compassion for another”. Difficile e molto tardiva è la
distinzione tra mito e storia. Erodoto, Tito Livio, Curzio Rufo, Arriano. La
storia nasce dalla poesia. Vico e Pavese. S. Mazzarino a proposito del rapporto
tra le Storie di Polibio e la tragedia
storica romana (Clastidium di Nevio e
Decius di Accio). Calvino suggerisce
di prendere il mito alla lettera.
L'ambiguità si trova anche in
certi personaggi del mito che hanno un'immagine bipolare:"Saturno è allo
stesso tempo immagine archetipica del Vecchio Saggio… e anche del Vecchio Re,
l'orco castrato e castrante"[1].
Il mito infatti può avere
sottolineature diverse ed essere usato con significati vari, come una parola
del vocabolario.
Eracle, per esempio, si presta a essere
utilizzato nella poesia con funzioni differenti a volta addirittura opposte. E'
un'idea che viene precisata in un saggio in inglese di G. B. Conte[2].
Ne riferisco alcuni concetti, tradotti in italiano e con l’aggiunta di qualche
nota. Il professore della Normale di Pisa rileva che ogni mito (con le sue
varianti) possiede una pluralità di significati che si aggregano intorno a una
funzione tematica fondamentale. Ma quando un poeta utilizza un mito o un
carattere mitico, egli opera attraverso una selezione, riorientando la storia nella
direzione del suo testo. Eracle è stato impiegato dai poeti come eroe
civilizzatore, come maschio esuberante nelle faccende sessuali (fino al punto
di diventare lo schiavo di Onfale[3])
ma è anche un un insaziabile mangiatore[4]
e un intemperante bevitore di vino[5]; una figura tragica che impazzisce poi ammazza i
figli e la moglie[6]; il mitico progenitore dei re spartani e così via. Lo
studioso procede in quella che chiama enumeratio
chaotica , poi chiede: vi sareste aspettato che il sofista Prodico (come Senofonte
riferisce nei suoi Memorabili II. 1.
21-34) avrebbe un giorno inventato una favola[7] il cui protagonista era Eracle, ma questa volta come
esempio di saggezza e autocontrollo, come paradigma di virtù morale?
Prodico evidentemente
ha fatto una scelta tra i vari aspetti di Eracle.
Aggiungo qualche
considerazione.
Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, Eracle
non partecipa all’orgia bacchica e sessuale dell’isola di Lemno, e anzi
richiama i compagni al dovere dell’impresa (I, 855 sgg.), ma poco più tardi (I,
v. 1270 sgg) abbandona la spedizione per cercare il giovane Ila rapito da una
ninfa: “Nell’opera di Apollonio Eracle impersona il codice di comportamento
dell’epica arcaica: gli viene attribuito l’amore pederastico, tipico dell’etica
aristocratica, che lo esclude da questo matrimonio collettivo”[8].
Alessandro Magno, che
si considerava suo discendente[9],
recitava tutte queste parti dell’eroe dorico.
Non manca un Eracle perfino incestuoso e
pedofilo. Nella Storia dell'India
Arriano racconta che l'eroe giunse in quel paese lontano e gli Indiani lo
chiamano ghgeneva (8, 4), figlio della terra. Megastene[10]
e gli stessi Indiani sostengono che il suo costume era simile a quello
dell’Eracle tebano. Quindi gli nacquero molti figli maschi, da molte donne, e
una sola figlia femmina: Pandea. Eracle liberò mari e terre da bestie malefiche
e nel mare scoprì un nuovo tipo di ornamento femminile ossia to;n margarivthn dh;
to;n qalavssion (8, 9), la perla
marina. L'eroe le raccolse dall’intero Oceano per adornare sua figlia. Le donne
nel regno della figlia di Eracle si sposano a sette anni. C’è una leggenda per
spiegare questo: Eracle, essendogli la figlia nata tardi, e non trovando un
uomo degno di tanto padre cui darla in sposa, si unì a lei che aveva sette anni
("aujto;n
migh'nai th'/ paidiv eJptaevtei ejouvsh/", 9, 3) lasciando una discendenza di re indiani.
Annibale venerava e imitava Eracle
identificato con il dio punico Melqart: "Ciò che…credo di avere compreso
io per primo è la natura di Eracle-Melqart, in realtà il più universale dei
simboli….i suoi caratteri incarnano alcune istanze insopprimibili dell'animo
umano…La sua polivalenza nasceva dal tratto essenziale comune alle diverse
interpretazioni che vengono date di lui: sostanzialmente una forza giusta e riparatrice,
in grado di punire i malvagi e di proiettare l'uomo verso un'immortalità da
conquistarsi con l'esercizio costante della virtù…Il nume tutelare della
spedizione in Italia fu dunque, di volta in volta, il Melqart che parlava al
cuore dei Punici, o l'Eracle greco nelle sue diverse accezioni, l'Ogimos caro
al mondo celtico, il Makeris africano o la corrispondente figura iberica.
Comunque io lo proponessi, ogni membro della mia armata finiva per coglierne
un'identità diversa, quella a lui più cara; e di questa figura, multiforme e
unica a un tempo, io potei quindi costantemente servirmi come di una chiave,
capace di aprirmi tutte le porte"[11].
Altri imitatori di Eracle saranno Marco
Antonio e il suo bisnipote Nerone.
Possiamo quindi notare che il
Dioniso infantile dell’Iliade (Diwvnuso" de; fobhqeiv", 6,
135), o quello ridicolo delle Rane di
Aristofane[12],
è spaventato e tremante, mentre quello
delle Baccanti di Euripide è sicuro
di sé, impositivo (v. 34), e feroce[13].
Già nell’Odissea del resto viene menzionato come il dio che con le sue
accuse spinse Artemide a uccidere Arianna in Dia[14],
mentre Teseo la portava da Creta al sacro colle di Atene (XI, vv. 321-325). Qui
anche la figlia di Minosse ha un ruolo diverso rispetto alla ragazza
abbandonata dal perfido seduttore Teseo, quali li rappresenta Catullo nel carme
64. Da questi versi dell’Odissea
sembra che sia stata Arianna ad abbandonare un l’amante, probabilmente Dioniso.
Arriano sostiene che c’è un Dioniso diverso da quello tebano,
figlio di Semele; l’altro, nato da Zeus e da Core, è venerato dagli Ateniesi. L’inno
bacchico dei misteri è cantato per questo Dioniso ateniese, non per quello
tebano: “ kai; oJ [Iakco~ oJ mustiko;~ touvtw/ tw`/ Dionuvsw/,
oujci; tw`/ Qhbaivw/ ejpav/detai”[15].
“Egli è venuto in forma umana a
Tebe per portare amore (ma mica quello sentimentale e benedetto dalle
convenzioni!), e invece porta il dissesto e la carneficina. Egli è
l’irrazionalità che cangia,
insensibilmente e nella più suprema indifferenza, dalla dolcezza all’orrore.
Attraverso essa non c’è soluzione di continuità tra Dio e il Diavolo, tra il
bene e il male (Dioniso si trasforma, appunto, insensibilmente e nella più
suprema indifferenza, dal giovane pieno di grazia che era al suo primo apparire
in un giovane amorale e criminale. Sia come apparizione “benigna” che come
apparizione “maledetta”, la società, fondata sulla ragione e sul buon senso-che
sono il contrario di Dioniso, cioè dell’irrazionalità-non lo comprende. Ma è la
sua stessa incomprensione di questa irrazionalità che la porta irrazionalmente alla rovina (alla più
orrenda carneficina mai descritta in un’opera d’arte. Sono gli I. M. , per
citare Elsa Morante, gli Infelici Molti, ossia la maggioranza, o la media,
fondata sulla razionalità e sul buon senso, che non comprendono la grazia di
Dioniso, la sua libertà, e, perciò, finiscono atrocemente nella strage: di cui
peraltro la irrazionalità stessa è patrona. Quanti Péntei, nella nostra
società…I Pentéi italiani sono dei mediocri, dei meschini imbecilli, neanche degni
di essere dilaniati dalle Menadi ”[16].
Molto lontano da questa variabilità di uno dei
tanti dèi cangianti è il prescrittivo, monoteistico, talora persino
guerrafondaio: “Non avrai altro Dio all’infuori di me”. Ha detto bene Massimo
Cacciari in un intervento televisivo[17]:
la democrazia è strutturalmente politeistica.
“Ed è ugualmente indubitabile che
la seguente espressione “democrazia cristiana”, nonché non essere una
ripetizione, è addirittura una contraddizione di termini, se, semanticamente,
ossia se verificato geograficamente e storicamente qui in Italia, “cristiano”
ha valore di “cattolico”, con tutto il suo strascico dogmatico e gesuitico, che
ognuno conosce, salvo colui che vive appunto nell’accettazione abitudinaria del
dogma”[18].
Freud afferma che la religione monoteistica fu portata agli
Ebrei da Mosé, un Egiziano seguace
della religione voluta da Amenofi IV, che era “salito al trono
intorno al 1375 a. C.”[19]
e adorava “il sole (Atòn) non come
oggetto materiale ma come simbolo di un essere divino la cui energia si
manifestava appunto nei raggi”[20]
solari. Il faraone eretico si cambiò il nome in Ekhanatòn cancellando la
presenza del dio Amòn dalla propria persona
e da tutte le iscrizioni.
“Si trattava di un rigoroso monoteismo, il primo tentativo
del genere nella storia mondiale, per quanto ne possiamo sapere; e con la fede
in un unico dio nacque inevitabilmente l’intolleranza religiosa[21],
sconosciuta all’antichità prima di allora e per molto tempo dopo. Ma il regno
di Amenofi durò solo diciassette anni; subito dopo la sua morte, avvenuta nel
1358, la nuova religione fu spazzata via, e la memoria del re eretico
proscritta…Vorrei adesso arrischiare una conclusione: se Mosè fu Egizio e se
egli trasmise agli Ebrei la propria religione, questa fu la religione di
Ekhanatòn, la religione di Atòn”[22].
Freud cerca di avallare questa tesi con vari indizi : entrambe le religioni
“sono forme di rigido monoteismo”; inoltre “l’assenza nella religione ebraica
di una dottrina concernente l’aldilà e la vita ultraterrena, che pure, sarebbe
stata compatibile col più rigoroso monoteismo” corrisponde al rifiuto di tale
presenza anche nella religione di Ekhnatòn che “aveva bisogno di combattere la
religione popolare nella quale il dio dei morti
Osiride aveva forse una parte maggiore di quella di ogni altro dio del
mondo superiore”. Terzo indizio: Mosè introdusse presso gli Ebrei “la
consuetudine della circoncisione”. Ebbene: “Erodoto, il “padre della storia”,
ci informa che la consuetudine della circoncisione era da lungo tempo familiare
in Egitto”[23].
Dunque Mosè “non era ebreo ma egizio, e allora la religione mosaica fu
probabilmente una religione egizia” [24].
Aggiungo l’interpretazione di Steiner. Gli Ebrei sono visti
come gli inventori e i propagatori di ideali troppo duri e scomodi per i popoli
dell’Europa occidentale, insomma per noi. Il primo vulnus inferto all’Europa pagana fu quello del monoteismo.
Steiner cita Nietzsche: “ Nel politeismo consisteva la
libertà dello spirito umano, la sua poliedricità creativa. La dottrina di una
singola divinità…è “il più mostruoso di tutti gli errori unani” (“die ungeheuerlichste
aller menschlichen Verirrungen”)”[25].
Sappiamo che Nietzsche non si limitò a questo. Egli vide
negli Gli Ebrei un popolo sacerdotale, il “popolo della più latente sete di
vendetta sacerdotale”. E ancora: “Con gli Ebrei si inizia la rivolta degli
schiavi nella morale”.
C’è una ostilità culturale piuttosto che razziale-biologica,
come fa notare T. Mann: “Quando Socrate e Platone cominciarono a parlare di
verità e di giustizia egli dice una volta ‘non furono più greci, ma ebrei, o
che so altro’. Orbene, gli ebrei, grazie alla loro moralità, si sono dimostrati
buoni e tenaci figli della vita. Con la loro fede in un Dio giusto, essi sono
sopravvissuti ai millenni, mentre il piccolo, dissoluto popolo greco di esteti
e di artisti è presto scomparso dalla scena della storia. Ma Nietzsche, pur
lontano da ogni odio razziale antisemitico, vede nel giudaismo la culla del
cristianesimo e in questo, a ragione ma con aborrimento, il germe della
democrazia, della rivoluzione francese e delle odiate “idee moderne” che la sua
parola squillante marchia con il nome di ‘morale del gregge’…ciò che egli
disprezza e maledice in queste idee è ‘utilitarismo e l’eudemonismo, il loro
far della pace e della felicità terrena i beni più desiderabili ed alti, mentre
l’uomo nobile, tragico, eroico, calpesta questi valori molli e volgari”[26].
Steiner mette anche in rilievo il fatto che Freud cercò di
scagionare gli Ebrei dalla “colpa” del monoteismo : “In una delle sue ultime
opere, L’uomo Mosè e la religione
monoteistica, Freud attribuì questo “errore” a un principe e veggente
egiziano del casato disperso degli Ikhnaton. Molti si sono chiesti perché abbia
cercato di togliere dalle spalle del suo popolo quel supremo fardello di
gloria… Quando, durante i primi anni di regime nazista, Freud cercava di
scaricare su spalle egiziane la responsabilità dell’ “invenzione” di Dio, stava
facendo, pur forse senza averne piena coscienza, una disperata mossa propiziatoria,
sacrificale. Stava tentando di strappare il parafulmine dalle mani degli ebrei.
Troppo tardi. La lebbra della scelta di Dio-ma chi aveva scelto chi?-era troppo
visibile su di loro”[27].
Ma sentiamo ancora Steiner: “Uccidendo gli ebrei, la cultura
occidentale avrebbe sradicato quelli che avevano “inventato” Dio…L’Olocausto è
un riflesso, ancor più completo in quanto lungamente inibito, della coscienza
sensoriale naturale, degli istintivi bisogni politeistici e animistici”[28].
Al rigido monoteismo di Mosè si è poi aggiunto il cristianesimo che nella sua
fase nascente proponeva ideali e prescriveva regole sostanzialmente
impraticabili dai più, deboli e tutt’altro che buoni. Vero è che poi il
cristianesimo, e il cattolicesimo in particolare, ha recuperato non pochi
aspetti del politeismo e di quel grande apparato di potere che fu l’impero
romano. “Le chiese cristiane sono sempre state, tranne rarissime eccezioni, un
ibrido di ideali monoteistici e di pratiche politeistiche…Il Dio unico e
inimmaginabile-a rigore, “inconcepibile”-del Decalogo non ha nulla a che fare
con il pantheon triplice delle chiese, ampiamente tradotto in immagini”[29].
Ma i Vangeli rimangono, e questi raccomandano la povertà e
l’amore del nemico. In quale modo possono accettare questo gli uomini, fragili
e corrotti come per lo più sono ? Gli
imitatori di Cristo, quale Francesco di Assisi, sono sempre stati pochi.
La maggior parte dei sedicenti cristiani sono tartufi, falsi
devoti i quali vivono una vita che è l’antitesi di quella predicata da Cristo.
Si pensi a tanti dei nostri politici che si professano cristiani.
Ultimo schiaffo all’Europa occidentale: l’ideale marxista. “
Il terzo confronto tra l’esigente utopia e i ritmi ordinari della vita
occidentale coincide con l’avvento del socialismo messianico. Anche quando si
proclama ateo, il socialismo di Marx, di Trockij, di Ernst Bloch discende
direttamente dall’escatologia messianica. Nulla è più religioso, nulla si
avvicina al sacro furore di giustizia dei profeti, più della visione socialista
che contempla la distruzione della Gomorra borghese e la creazione per l’uomo
di una città nuova e pura…Monoteismo del Sinai, cristianesimo primitivo,
socialismo messianico: sono i tre momenti supremi in cui la cultura occidentale
viene posta di fronte a quello che Ibsen chiamava “pretese dell’ideale”…Tre
volte la sua eco si diffuse, e ogni volta dallo stesso centro storico. (Alcuni
politologi calcolano che la percentuale degli ebrei coinvolti nello sviluppo
ideologico del socialismo messianico e del comunismo si aggiri sull’80 per
cento). Tre volte il giudaismo lanciò un appello alla perfezione e cercò di
imporlo al corso normale della vita occidentale. Una profonda avversione si
radicò nel subconscio sociale, presero forma rancori omicidi…Il gemocidio…fu un
tentativo di livellare il futuro o, più precisamente, di rendere la storia
commisurata alla naturale barbarie, al torpore intellettuale e agli istinti
materiali dell’uomo non evoluto” [30].
Ebbene, per fortuna, il genocidio, quello fisico dei nazisti e quello culturale
di tempi più recenti, non ha annientato del tutto gli uomini evoluti, colti e
morali che capiscono l’altezza degli ideali proposti dagli Ebrei e ammirano la
spiritualità ebraica. Vivere nel peccato della barbarie significa vivere contro
lo spirito. Gli antisemiti sono ottusi refrattari alla ricettività nei
confronti dello spirito, umano e divino. La religiosità e l’umanesimo degli Ebrei sono aspetti
dell’intelligenza: l’ intelligenza dell’uomo e l’intelligenza di Dio.
Nel trattato Della tirannide
(del 1777) Vittorio Alfieri distingue la religione cristiana dalla pagana,
rilevando l’incompatibilità della prima con la libertà: “La religion pagana,
col suo moltiplicare sterminatamente gli dèi, e col fare del cielo quasi una
repubblica, e sottomettere Giove stesso alle leggi del fato[31],
e ad altri usi e privilegi della corte celeste, dovea essere, e fu infatti,
assai favorevole al vivere libero…La cristiana religione, che è quella di quasi
tutta la Europa, non è per se stessa favorevole al viver libero: ma la
cattolica religione riesce incompatibile quasi col viver libero…Ed in fatti,
nella pagana antichità, i Giovi, gli Apollini, le Sibille, gli Oracoli, a gara
tutti comandavano ai diversi popoli e l’amor della patria e la libertà. Ma la
religion cristiana, nata in popolo non libero, non guerriero, non illuminato e
già intieramente soggiogato dai sacerdoti, non comanda se non la cieca
obbedienza; non nomina né pure mai la libertà; ed il tiranno (o sacerdote o
laico sia egli) interamente assimila a Dio” (I, 8).
Anche nell’Idiota
di Dostoevskij si legge una stroncatura del cattolicesimo. Sentiamo il
protagonista lanciato in un’invettiva: “Anzitutto, non è una fede
cristiana!...Il cattolicesimo romano crede che, senza una potenza imperiale, la
fede cristiana non possa sussistere nel mondo, e grida al tempo stesso: Non possumus! Secondo me, il
cattolicesimo romano non è nemmeno una religione, ma è la continuazione
dell’impero romano, e tutto in esso è sottoposto a questa idea, cominciando
dalla fede. Il papa vi ha conquistato il trono terrestre ed ha alzato la spada.
Da quei tempi, ogni cosa prosegue in tal modo, solo che alle spade hanno
aggiunto la menzogna, la furberia, l’infingimento, il fanatismo, la
superstizione, la scelleratezza, trastullandosi coi più sacri, più sinceri, più
ardenti sentimenti, i migliori sentimenti del popolo. Ogni cosa è stata venduta
da Roma per denaro, per il vile potere temporale”[32].
Torniamo al
mito e ai suoi significati.
Sentiamo alcune parole del testo inglese di
Conte:"For poets, myth is like a
word contained in a dictionary: when it leaves the dictionary and enters their
texts, it retains only one of its possible meanings "[33], per i poeti
il mito è come una parola contenuta in un dizionario: quando essa lascia il dizionario
ed entra nel suo testo, mantiene soltanto uno dei suoi possibili significati.
Il Mito allora può essere modificato per
conformarsi al significato globale del discorso: la sua funzione è determinata
dal contesto.
Il mito è interpretabile come una "immagine concentrata
del mondo"[34]
che cerca le origini, e chi non le conosce non è cosciente della realtà.
Inoltre: "La nostra origine è nei miti: tutti i miti
sono di origine"[35].
Può trattarsi dell’origine di un’usanza, di un nome, di un
culto, di una città, come spesso nella poesia ellenistica, ma può riguardare
anche la nostra genesi di persone.
Il mito di Er dell’ultimo libro della Repubblica di Platone ci ricorda che prima di venire sulla terra ci
siamo scelti un daivmwn, che è carattere e destino. Eujdaimoniva, felicità è,
etimologicamente, l’accordo con il proprio daivmwn.
Se
non ricordiamo, non riconosciamo e non assecondiamo quel daivmwn liberamente scelto, saremo infelici e saremo
colpevoli della nostra infelicità: “aijtiva
eJlomevnou: qeo;~ ajnaivtio~” (Repubblica,
617e), responsabile è chi ha fatto la scelta, il dio non lo è. E’ quello del
resto che afferma già Omero, attraverso Zeus nel primo canto dell’Odissea: “ Ahimé, come ora davvero i
mortali incolpano gli dèi!/ da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi
essi stessi/per la loro stupida scelleratezza hanno dolori oltre il
destino" (vv. 32-34).
Durante la vita
terrena "ci resta accanto un
compagno, una specie di angelo custode o spirito guida: il Daimon, il modello
del nostro destino, che in qualche modo ci aiuta e indirizza al compimento di
quella scelta che inizialmente proprio noi avevamo fatto, ma che abbiamo
dimenticato. Poiché il mito di Er, come lei accennava prima, è alla base del
suo Codice dell'anima…Lei ha citato uno dei miti sul perché esiste il dolore:
il Daimon ci mette di fronte le richieste del destino e noi recalcitriamo"[36].
"Poiché la felicità alla sua antica fonte era eudaimonia,
cioè un daimon contento, soltanto un daimon che riceve ciò che gli
spetta può trasmettere un effetto di felicità all'anima"[37].
Quindi il mito ci dà indicazioni sulla nostra vita
psichica:"la psicologia mostra i miti in vesti moderne, mentre i miti
mostrano la nostra psicologia del profondo in vesti antiche"[38].
Altra considerazione sui grandi significati del mito si
trova nel libro di Morin già citato:"Il mito non è la sovrastruttura della
nazione: è ciò che genera la solidarietà e la comunità; è il cemento necessario
a ogni società e, nella società complessa, è il solo antidoto all'atomizzazione
individuale e all'irruzione distruttrice dei conflitti…L'antico
internazionalismo aveva sottostimato la formidabile realtà mitica"[39].
Il mito fa parte
della nostra vita, realmente: Pasolini nel film Medea fa dire al Centauro il quale istruisce il piccolo Giasone che
dovrà andare in cerca del vello d’oro “in un paese lontano al di là del mare.
Qui farai esperienze di un mondo che è ben lontano dall’uso della nostra
ragione, la sua vita è molto realistica come vedrai perché solo chi è mitico è
realistico e solo chi è realistico è mitico”[40].
Sentiamo anche C. Pavese:"Il mito greco insegna che si
combatte sempre contro una parte di sé, quella che si è superata, Zeus contro
Tifone, Apollo contro il Pitone. Inversamente, ciò contro cui si combatte è
sempre una parte di sé, un antico se stesso. Si combatte soprattutto per non
essere qualcosa, per liberarsi. Chi non ha grandi ripugnanze, non
combatte"[41].
La compassione.
Secondo Milan Kundera, la compassione è il motivo principale,
o il motore di tanti miti, come di certi amori:" Egli provò allora un
inspiegabile amore per quella ragazza sconosciuta; gli sembrava che fosse un
bambino che qualcuno avesse messo in una cesta spalmata di pece e affidato alla
corrente di un fiume perché Tomáš
lo tirasse sulla riva del suo letto… Di nuovo gli venne fatto di pensare che
Tereza era un bambino messo da qualcuno in una cesta spalmata di pece e
affidato alla corrente. Non si può certo lasciare che una cesta con dentro un
bambino vada alla deriva sulle acque agitate di un fiume! Se la figlia del
Faraone non avesse tratto dalle acque la cesta con il piccolo Mosè, non ci
sarebbero stati l’Antico Testamento e tutta la nostra civiltà. Quanti miti
antichi hanno inizio con qualcuno che salva un bambino abbandonato! Se Polibo
non avesse accolto presso di sé il giovane Edipo, Sofocle non avrebbe scritto
la sua tragedia più bella!"[42].
Nel quarto episodio dell’Edipo
re Sofocle contrappone la crudeltà dei genitori alla compassione del servo
tebano che non ha eseguito il loro ordine di uccidere il bambino "katoiktivsa" " (v. 1178), in
quanto ne ho avuto compassione, spiega.
P.P.
Pasolini nel suo film Edipo re sottolinea
questa risposta con un primo piano del vecchio pastore tebano che dice di non
avere fatto morire la creatura:"per
pietà".
Per lo
stesso motivo, e anche lui per grandi mali,
si salvò Cipselo, il bambino che sarebbe diventato tiranno di Corinto, e
padre di Periandro.
Erodoto
racconta che per sorte divina il piccolo sorrise all'uomo dei Bacchiadi che lo
aveva afferrato con l'intenzione di ammazzarlo. Questo se ne accorse, e un
qualche sentimento di compassione lo trattenne dall'ucciderlo (oi\kto~ ti" i[scei
ajpoktei'nai,V,92).
Del resto anche Enea viene salvato dalla compassione, quella
di Didone che pure non viene in alcun modo ricompensata dall’esule troiano.
La
misericordia non è virtù ignorata né trascurata dai classici e lo
sviluppatissimo senso estetico dei Greci non aveva atrofizzato quello
etico: è falso dunque che la morale
cattolica sia l'unica vera e buona come
afferma Manzoni, per esempio, quando sostiene che " essa è la sola santa e ragionata in
ogni sua parte"[43].
Già
Omero nel XIV dell'Odissea rappresenta Eumeo che, per compassione, aiuta
e onora Ulisse presentatosi come un pezzente:"aujtovn t j ejleaivrwn"(v.389),
perché ho compassione di te, gli dice.
Nelle Trachinie
Deianira prova una compassione piena di spavento (oi\kto~ deinov" , v.
298), anche per se stessa, vedendo le ragazze di Ecalia portate schiave da
Eracle, e pensando ai mutamenti della sorte. Quella che suscita in lei la pietà
più grande però è la splendidissima Iole poiché le sembra l'unica che abbia
coscienza del suo stato (vv. 311-312).
"Umana cosa è l'aver compassione degli afflitti"
sono le prime parole del Decameron.
Infatti Cleopatra prima di morire dice al suo tesoriere Seleuco che
l'ha denunciata a Ottaviano:"wert thou a man, thou wouldst have mercy
on me" [44], se tu fossi un uomo, avresti pietà di me.
Nello
splendido film di Stanley Kubrick, Paths
of glory, Orizzonti di gloria
(1957), l’avvocato difensore e comandante dei
soldati accusati ingiustamente di codardia, poi fucilati, conclude la
sua arringa indirizzando, invano, alla corte marziale questo appello: “I can’t believe that the noblest impulse of
man, his compassion for another, can be completely dead here. Therefore, I
humbley beg you, show mercy to these men”, io non posso credere che il più
nobile impulso dell’uomo, la compassione per il prossimo, sia completamente
morta qui. Perciò, vi prego umilmente, mostrate pietà verso questi uomini.
Difficile
e tardiva è la distinzione tra mito e storia: “l’età eroica, che coinciderebbe
press’a poco con l’età micenea dei nostri libri di storia, era caratterizzata,
secondo i Greci, da certi elementi divini, che nessun “razionalismo” poteva
eliminare. Ecateo[45]
stesso riferisce che gli Egiziani calcolavano ben 345 generazioni di soli
uomini, generazioni che non avevano avuto contatto con gli dèi. Ma non riusciva
a buttar via, per questo confronto egiziano, la sua convinzione che gli dèi
avessero avuto rapporti con gli uomini, in Grecia, fin verso un’epoca che
coinciderebbe, grosso modo, con il nostro 1100 a. C. (la fine dell’età
micenea-submicenea). Infatti, imperturbabile, continuava ad affermare, per
esempio: “A Danae si unisce Zeus”…questo “genealogo”, cioè studioso del mondo
eroico, non può negare il presupposto fondamentale di quella storia eroica
ch’egli tratta: il commercio, cioè, fra uomini e dèi. All’incirca nello stesso
tempo, l’ateniese Ferecide trattava anch’egli “genealogie”; esse arrivavano giù
fino alla piena età storica (per lo meno fino a Milziade, ecista del Chersoneso
verso il 540 a. C.); ma prendevano le mosse dall’età degli dèi, e difatti la
sua opera si chiamò anche Teogonia,
oltre che Storie. Al solito: fra mito
e storia non c’era distinzione. Persino Tucidide ricorderà, con rispetto,
tradizioni eroiche: per esempio, quella di Alcmeone colonizzatore delle
Echinadi, le isole derivate dai detriti dell’Acheloo”[46].
Nella Storia possono entrare i racconti semileggendari.
Della loro veridicità dubitano gli
stessi storiografi che li riferiscono. Vediamone alcuni esempi. Erodoto fa questa
dichiarazione metodologica a proposito della diceria secondo la quale le
ragazze indigene con penne di uccello spalmate di pece traevano pagliuzze d’oro
da un lago situato in un’isola posta davanti alla costa africana : “tau'ta eij
mh; e[sti ajlhqevw~ oujk oi\da, ta; de; levgetai gravfw” (4, 195, 2),
queste cose non so se sono vere, ma quello che si dice lo scrivo. E più avanti
a proposito di una raccontata intesa tra i Persiani e gli Argivi: “ejgw; de; ojfeivlw levgein tav legovmena,
peivqesqaiv ge me;n ouj pantavpasin ojfeivlw” (7, 152, 3), io sono
tenuto a dire le parole dette, a credere a tutte invece non sono tenuto.
Tito Livio nel suo
proemio scrive: “Quae ante conditam
condendamve urbem poeticis magis decōra fabulis quam incorruptis rerum gestarum
monumentis traduntur, ea nec adfirmare nec refellere in animo est. Datur haec
venia antiquitati, ut miscendo humana divinis primordia urbium augustiora
faciat ” (Praefatio, 6), i racconti
tramandati che risalgono al periodo di
poco precedente la fondazione della città e quelli addirittura anteriori alla
città da fondare, racconti che si addicono più alle narrazioni poetiche che ai
seri documenti storici, non ho intenzione di confermare né di smentire. Alle
antichità si concede questa licenza di rendere più venerabili i primordi delle
città mescolando l’umano con il divino.
Poi Curzio Rufo:“Equidem plura transcribo quam credo: nam nec
adfirmare sustineo, de quibus dubito, nec subducere, quae accepi” ( Historiae Alexandri Magni, 9, 1, 34),
per conto mio riporto più notizie di quelle cui presto fede: infatti non me la
sento di confermare notizie delle quali non sono sicuro, né di sottrarre quelle
che ho ricevuto.
Quindi lo storiografo
riferisce il racconto secondo il quale il cadavere di Alessandro giaceva nel
sarcofago da sei giorni, trascurato, e, nonostante il caldo dell’estate
babilonese, il corpo non era degenerato: “ Traditum
magis quam creditum refero” (10,
10, 12).
Ancora Arriano a
proposito della morte di Alessandro riporta una notizia alla quale non crede,
della quale anzi afferma che dovrebbero vergognarsi quanti l’hanno scritta: che
il macedone, sentendosi morire, voleva gettarsi nell’Eufrate per sparire
accreditando la fama di una sua assunzione in cielo, in quanto nato da un dio.
Glielo impedì Rossane ed egli le disse che lo privava della gloria di essere
nato dio. Ebbene lo storiografo di Nicomedia precisa che ha riportato queste
notizie wJ" mh; ajgnoei'n dovxaimi
perché non sembri che io le ignori, più che per il fatto che esse sembrino pista; ej" ajghvghsin, (Anabasi di Alessandro, 7, 27, 3)
credibili a raccontarle.
La storia dunque è intarsiata di miti, non senza le
iridescenti bugie di cui scrive Pindaro[47],
tant’è vero che è preceduta e anzi, in un certo senso, “nasce” dalla poesia
epica, e i fatti storici, come hanno rilevato studiosi di levatura ed estimazione europea, sono stati cantati, o
raccontati, prima dai poeti che dagli storiografi di professione.
Giambattista Vico afferma
che "la storia romana si cominciò a scrivere da' poeti", e
inoltre, utilizzando un passo di Strabone (I, 2, 6) sulla continuità tra
l'epica ed Ecateo, :"prima d'Erodoto, anzi prima d'Ecateo milesio, tutta
la storia de' popoli della Grecia essere stata scritta da' lor poeti"[48].
Nevio (270-201): Bellum
poenicum e la praetexta Clastidium
sulla vittoria del console Marcello contro i Galli Insubri.
Ennio (239-169)
Annales
Accio (170-85) la praetexta Decius con la devotio di Decio al Sentino (295)
Un giudizio
apprezzato anche da Pavese:"Ciò che si trova di grande in
Vico-oltre il noto-è quel carnale senso che la poesia nasce da tutta la vita
storica; inseparabile da religione, politica, economia; "popolarescamente"
vissuta da tutto un popolo prima di diventare mito stilizzato, forma mentale di
tutta una cultura"[49].
Storia e poesia insomma sono intrecciate insieme.
Questo però si può dire per l’epica e il dramma. Molto meno
per la lirica
Quintiliano indica il
nesso tra storia e poesia: “historia…est
enim proxima poetis et quodam modo carmen solutum est et scribitur ad
narrandum, non ad probandum, totumque opus non ad actum rei pugnamque
presentem, sed ad memoriam posteritatis et ingenii famam componitur”[50],
la storia infatti è vicinissima ai poeti e in un certo modo una poesia in prosa
e viene scritta per narrare, non per provare,
ed è opera rivolta non ad un agire pratico e a una contesa in corso, ma
per il ricordo della posterità e per la fama dell’ingegno.
L'autore de Il Pensiero
Storico Classico [51]
esamina il rapporto tra l'opera di Polibio e la tragedia storica
romana:"In Roma la tragedia era sorta con Nevio, il poeta storico-epico
del Bellum Poenicum . In particolare,
la tragedia storica, o "pretesta", dei Romani si connetteva con la
più tipica manifestazione del loro senso della storia e della morte:"
quando muore un uomo di famiglia insigne, portano al funerale le imagines " (consistenti in
maschere) "dei suoi maggiori. Con tali maschere coprono il viso di uomini
che presentano particolari somiglianze, per l'altezza e per il resto, con
quegli avi. I mascherati indossano toghe preteste" (orlate di porpora)
"se il morto che rappresentano fu console o pretore; abiti di porpora, se
fu censore; inaurati, se ebbe il trionfo, o simili. Vanno innanzi su carri,
preceduti da fasci, scuri ed altre insegne delle magistrature che quei nobili
morti avevano ricoperto. Infine, arrivati ai rostri, seggono su selle d'avorio.-E
chi non potrebbe essere colpito alla vista di queste immagini di uomini
illustri e palpitanti?". Sono parole di Polibio[52]stesso:
rendono l'impressione che lo storico straniero riceveva a quello spettacolo
abbastanza frequente, in cui la storia delle virtù gentilizie veniva
rappresentata, come per generazioni disposte in fila, nella sua attualità
continua. La storia diventava processione di venerate maschere...Se
confrontiamo l'opera di Polibio con i frustoli di preteste che pervennero sino
a noi, il carattere delle sue Storie si potrà illuminare anche meglio. Delle lotte
fra Romani e Galli, due vittorie furono celebrate con preteste: quella di
Clastidium, riportata da Marcello nel 222 a. C.; e quella di Sentinum, del 295
a. C., in cui il console Decio Mus, che comandava l'ala sinistra contro i Galli
(alleati dei Sanniti), s'era consacrato, col rito della devotio , agli dèi della terra e, gettandosi contro i nemici, aveva
asicurato la sua morte e la vittoria. La battaglia di Clastidium era stata
portata sulle scene da Nevio stesso, che certo poté seguire con ansia, come
contemporaneo, quella vicenda in cui Claudio Marcello, allora il più insigne
esponente del ramo plebeio dei Claudii, aveva vinto in duello il celtico
Virdumaro, e riportato il trionfo.
La battaglia di Sentinum fu celebrata in una pretesta di
Accio, Aeneadae o Decius
; a differenza del Clastidium di Nevio ( in cui si doveva sentire la
passione del contemporaneo), qui c'era il ricordo di una vittoria riportata
quasi due secoli prima...Polibio tratta (II 18-35) le guerre romane contro i
Galli; perciò anche (II 19, 6) le vicende del 295 e più tritamente (II 34)
quelle del 222. Ma non accenna alla devotio di Decio nel 295; e non tocca il duello di
Claudio Marcello con Virdumaro. Quei due consoli plebei non commuovono
particolarmente la sua fantasia storica, la quale si limita a ricordare la
distruzione e la fuga delle truppe galliche a Sentino, il successo strategico
di Marcello a Clastidium. Si direbbe che, in entrambi questi casi, Polibio abbia
voluto evitare la memoria di una devotio e di un duello, argomenti cari ai poeti
tragici-tanto più che si trattava della devotio
di un plebeo, Decio Mus, il cui nome gentilizio era portato, al tempo di
Polibio, da uno dei più accaniti sostenitori della tendenza graccana (il
tribuno P. Decio); e del duello affrontato da un altro plebeo, Marcello, che
non fu mai caro alla tradizione degli Scipioni.
Tuttavia sarebbe errato pensare che Polibio non apprezzasse
la virtù romana che si esaltava in quei racconti sui plebei Decio Mus e
Marcello. La battaglia di Sentino, con la devotio di Decio Mus, aveva già avuto
una larga eco nel mondo ellenico: Duride, tiranno di Samo, storico di tendenza
aristotelica, aveva ricordato la devotio di quel grande console, suo contemporaneo.
Era impossibile che Polibio, uomo d'arme, ignorasse quella storia di religione
e di morte; o che non ne intendesse-nei limiti definiti dal suo razionalismo-il
misterioso fascino. La sua differenza da Duris è, piuttosto, in ciò: egli non
riteneva opportuno dedicare a Decio Mus una digressione, od anche un cenno,
particolare; per lui, simili imprese individuali, affascinanti per se stesse,
possono essere oggetto di rievocazione tragica, non di storia pragmatica.
Perciò la devotio di Decio a Sentinum, già ricordata dallo
storico 'tragico' Duris, fu celebrata poi dalla tragedia storica di Accio;
secondo la forma mentis di Polibio potrebbe rientrare nell'anonima
descrizione delle virtù romane. "Ci furono molti romani i quali
volontariamente si batterono in duello per la decisione delle battaglie; e non
pochi scelsero morte sicura, alcuni in guerra per la salvezza degli altri, e
taluni in pace per la sicurezza pubblica"(VI 54). Polibio scrive queste
parole non in particolare, a proposito di questa o quella vicenda della storia
romana; ma in genere, nella sua sintesi sui caratteri dello stato romano, nel
VI libro"[53].
Concludiamo il discorso sul mito con
Italo Calvino che suggerisce di prenderlo alla lettera“ Ma so che ogni
interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna aver
fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su
ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini.
La lezione che possiamo trarre da un mito sta nella letteralità del racconto,
non in ciò che vi aggiungiamo noi dal di fuori“[54].
[1] J. Hillman, Puer aeternus, p. 80.
[2] Aristaeus,
Orpheus, and the Georgics: Once Again , in
Poets And Critics Read Vergil, Yale University Press., p. 50 ss.
[3] Ricordata nelle Trachinie
di Sofocle, dove Eracle è un donnaiolo e il marito assenteista e infedele della povera Deianira. Nell' Hercules
Oetaeus, di dubbia attribuzione senecana, Deianira descrive il marito come
un antico don Giovanni: egli avrebbe compiuto i suoi agoni acerrimi per
conquistare le ragazze:"virginum thalamos petit " (v. 420) ,
cerca i letti delle vergini. A volte si accontenta delle spose:"nuptas
ruinis quaerit" (v. 422), cerca le spose con i suoi macelli.
Comunque:" causa bellandi est amor " (v. 425), la causa della
guerra è l'amore. L'amore dopo tutto sarà la somma fatica di Ercole:"amorque
summus fiet Alcidae labor" (v. 475).
[4] Nella commedia Lino
di Alessi (380-270 a .
C., autore della commedia di mezzo, zio o maestro di Menandro) l’autore narra
che il mitico citarista dava lezioni a Eracle e voleva spingerlo a leggere i
poeti, ma lo scolaro, spinto dalla voracità, prese dalla biblioteca L’arte di cucinare di un certo Simo (fr.
140 K. –A.).
[5]Funzione
assunta nell'Alcesti di Euripide.
[6]Nell'Eracle
di Euripide.
[7]Quella
di Eracle al bivio.
[8]
Guido Paduano e Massimo Fusillo (a cura di) Apollonio
Rodio Le Argonautiche, p. 185
[9] Plutarco racconta che è una tradizione cui tutti
prestano fede quella secondo la quale Alessandro discendeva da Eracle
attraverso Carano e Filippo, e da Eaco attraverso Neottolemo e Olimpiade (Vita, 2).
[10]
Ambasciatore inviato in India dal re Seleuco I Nicatore (355 ca. 280 a . C.) presso il re Sandracotto, scrisse Indikà in quattro libri dei quali ci
sono giunti frammenti per via indiretta.
[11]
G. Brizzi, Annibale, p. 50
[12] Aristofane nelle Rane rappresenta Dioniso che, terrorizzato da
Empusa, fugge tra le braccia del suo
sacerdote (v. 297). Più avanti viene apostrofato dal servo Xantia in questo modo:
"
w\ deilovtate qew'n
su; kajnqrwvpwn (v. 486), oh tu, davvero il più vigliacco degli dèi e
degli uomini! . Il dio se l'era voluta, cacandosi addosso dalla paura (v. 479).
[13]
Consiglio a questo proposito il commento di Fulvio Molinari: Euripide, Baccanti, Loffredo, 1998.
[14]
Isola dell’Egeo.
[15]
Arriano, Anabasi di Alessandro, 2,
16, 3.
[16]
Pasolini, Saggi sulla politica e sulla
società,p p. 1142-1143
[17]
Del gennaio 2006.
[18]
P. P. Pasolini, Democrazia senza
attributi? (gennaio 1948) In Pasolini saggi sulla politica e sulla società,
p. 58. In
un articolo successivo (I due proletariati, in “Il mattino del popolo” del 12 maggio 19 48
Pasolini menziona un “discorsetto di De Gasperi” del 21 aprile, 19 48,
“imporporato vagamente ma minacciosamente dal fuoco degli autodafè” (Op. cit., p. 70).
[19]
S. Freud, L’uomo Mosè e la religione
monoteistica, , secondo saggio
(del 1937) p. 349. Il
terzo saggio è del 1938. E’ l’ultimo libro di Freud, insieme con il Compendio di psicoanalisi , anche questo uscito nel 1938, del resto
incompiuto.
[20] S. Freud, Op. cit., p. 350.
[21] Leopardi nello Zibaldone (3833-3834)
afferma invece che il culto del sole rende più umano e più civile chi lo
pratica :"Quando gli Europei scoprirono il Perù e i suoi contorni,
dovunque trovarono alcuna parte o segno di civilizzazione e dirozzamento, quivi
trovarono il culto del sole; dovunque il culto del sole, quivi i costumi men
fieri e men duri che altrove; dovunque non trovarono il culto del sole, quivi
(ed erano pur provincie, valli, ed anche borgate, confinanti non di rado o
vicinissime alle sopraddette) una vasta, intiera ed orrenda e spietatissima
barbarie ed immanità e fierezza di costumi e di vita. E generalmente i tempii
del sole erano come il segno della civiltà, e i confini del culto del sole, i
confini di essa (5
Nov. 18 23.). Ndr.
[22]
S. Freud, Op. cit., secondo
saggio, p. 353.
[23] Nelle Storie
leggiamo che “Colchi, Egiziani e Etiopi si circoncidono dal tempo più antico”
(II, 104, 2). Ndr.
[24]
S. Freud, Op. cit., p. 355
[25] G. Steiner Nel
castello di Barbablù Note per la riedifinizione della cultura, p. 39.
[26]
Nobiltà dello spirito.
[27]
Gerorge Steiner, Nel castello di Barbablù,
p. 41
[28]
Op. cit., p. 41.
[29]
Op. cit., p. 39.
[30] Steiner, Op. cit, pp. 43 sgg.
[31] Il predominio del fato non risparmia nessuno: il
Prometeo di Eschilo, afferma consolandosi del suo martirio, che nemmeno Zeus
"potrebbe in alcun modo sfuggire
alla parte che gli ha dato il destino (th;n peprwmevnhn)"(Prometeo
incatenato, v. 518). Ndr.
[32] L’Idiota, p. 687.
[33] Gian Biagio Conte, Aristaeus, Orpheus, and the Georgics: Once
Again , in Poets And Critics Read Vergil, ,
p. 52.
[34]
Nietzsche, La nascita della tragedia, p. 151.
[35] J. Hillman, Il piacere di
pensare, p. 52.
[36]
James Hillman, Il piacere di pensare. conversazione con Silvia Ronchey,
pp. 53-54.
[37]
J. Hillman, Il codice dell'anima , p. 112.
[38] J. Hillman, Variazioni su
Edipo, p. 76.
[39] E. Morin, La testa ben fatta,
p. 69.
[40]
P. P. Pasolini, Medea in Il vangelo
secondo Matteo, Edipo re, Medea, p. 545-
[41]Il
mestiere di vivere, 28 dicembre 19 47.
[42] L'insostenibile
leggerezza dell'essere (del 1984),
p. 14 e p.19.
[43]
Osservazioni sulla morale cattolica (del 1819), Prefazione
[44]
Shakespeare, Antonio e Cleopatra, V, 2.
[45] Ecateo di Mileto, il primo logografo, nato verso il
550, scrisse Genealogie che volevano contrapporre una visione
razionale a quella tradizionale :"Ecateo di Mileto dice così: scrivo
queste storie come a me sembrano vere; infatti le tradizioni dei Greci sono
molte e, a parer mio, anche ridicole ("oiJ ga;r JEllhvnwn lovgoi polloiv te kai; geloi'oi,
wJ" ejmoi; faivnetai, eijsivn",
fr. I Jacoby).
L’altra
opera è Perihvghsi"
gh'" (o Perivodo" gh'" ), comunque una Descrizione
della terra con una carta allegata.
Era una descrizione etnica e geografica del
mondo conosciuto divisa in due libri: uno dedicato all'Europa, l'altro all'Asia
(ndr).
[46]
S. Mazzarino, Il pensiero storico
classico, I, pp. 78-79.
[47]
Olimpica I, 29.
[48]La
Scienza Nuova , Pruove filologiche, III e VIII.
[49]Il mestiere di vivere , 30 agosto 19 38.
[50]
Institutio oratoria, X, 1, 31.
[51]II,
1, p. 149 e sgg.
[52]Tratte
da VI 53 e tradotte liberamente. E' la maggior trattazione che possediamo sui
funerali degli uomini illustri con le laudationes
funebres che falsificavano la
storia.
[53]S.
Mazzarino, Il Pensiero Storico Classico
, II, 1, p. 152.
[54] I. CALVINO, Leggerezza, in Lezioni,
americane. Sei proposte per il prossimo millennio, p. 8-9.
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