NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

LE NUOVE DATE! Protagonisti della Storia Antica | Biblioteche Bologna   -  Tutte le date link per partecipare da casa:    meet.google.com/yj...

venerdì 31 luglio 2015

Metodologia per l'insegnamento del greco e del latino, parte XXXV

Francesco Salviati (Roma, XVI sec.)
Kairos, particolare di affresco

Cogliere l’occasione che è “calva di dietro”. Pindaro. Isocrate. Sofocle. Cicerone. Shakespeare, Marlowe, Nietzsche

La scuola classica deve insegnare pure a cogliere l'occasione, a individuare quello che è significativo in mezzo al turbinio di offerte insignificanti: il ragazzo impari a non fallire le opportunità favorevoli alla sua crescita. I nostri classici insistono su questo concetto.
L’intelligenza dell’occasione serve a capire la misura appropriata: “C’è una misura in tutto: e l’occasione è ottima a comprenderla” (Pindaro, Olimpica XIII, vv. 47-48).
 Isocrate[1] nel manifesto della sua scuola, Contro i sofisti [2] afferma che difficile non è tanto acquisire la conoscenza dei procedimenti retorici, quanto non sbagliarsi sul momento opportuno per usarli: "tw'n kairw'n mh; diamartei'n" (16).
Già Oreste nell'Elettra di Sofocle, dove si tratta di vita o di morte, conclude il suo primo discorso affermando che l'occasione è sovrana: "kairo;" gavr, o{sper ajndravsin - mevgisto" e[rgou pantov" ejst j ejpistavth"" (vv. 75-76), l'occasione infatti è appunto per gli uomini la più grande presidente di ogni agire.
Cicerone suggerisce di usare il vocabolo occasio per tradurre il greco eujkairiva che designa il tempus…actionis opportunum, il tempo opportuno di un'azione[3].
Nell’Antonio e Cleopatra Menas decide di non seguire più l’indebolita fortuna di Sesto Pompeo che ha perso l’occasione di sbarazzarsi dei suoi nemici: “Who seeks and will not take, when once ‘tis offer’d, -Shall never find it more” (II, 1), chi cerca e non prende qualcosa una volta che viene offerta, non la troverà mai più.
Né bisogna dimenticare che l'occasione "è calva di dietro"[4].
Marlowe risale forse a Fedro (V, 8) che ricorda come gli antichi foggiarono l’immagine del Tempo un uomo calvus, comosa fronte, nudo occipitio. Tale immagine (effigies) occasionem rerum significat brevem.

Infine Nietzsche: “Forse il genio non è affatto così raro: sono rare le cinquecento mani che gli sono necessarie per dominare il kairov~, “il momento opportuno”, per afferrare per i capelli il caso!”[5].


Il valore pratico della parola. Tucidide (I, 22, 2). La Medea di Euripide (v. 1064). Canfora. La parola retoricamente e politicamente organizzata. I personaggi della tragedia parlano non solo retoricamente ma anche politicamente. La condizione dell’impolitico per i Greci dell’età classica è innaturale e viziosa (Kierkegaard e Tucidide). Racconto mimetico, diegetico e misto (Platone, Repubblica)

Insomma il ragazzo deve trovare il riscontro delle lingue classiche in rebus ipsis.
Si può chiarire il valore pratico, oltre che estetico, della parola attraverso l'espressione di Tucidide ta; e[rga tw'n pracqevntwn (I, 22, 2), le azioni, tra i fatti. L'altra componente dei fatti sono le parole dette dai capi della guerra: sul modo di riferirle Tucidide dichiara le intenzioni e il metodo nella prima parte del capitolo metodologico (I, 22, 1).
Facciamo un altro esempio di parola che equivale ai fatti: la Medea di Euripide, dopo avere dichiarato il suo proposito di uccidere i propri nemici, e pure i propri figli, quando ancora nulla è stato compiuto, ma già deciso e detto a parole, assicura: “pavntw" pevpraktai tau'ta koujk ejkfeuxetai” (v. 1064), comunque questa è cosa fatta e non ci sarà scampo.
 "La mentalità greca arcaica-scrive Canfora- pone sullo stesso piano la parola e l'azione. Tale modo di concepire la parola come "fatto" è vivo anche nella tradizione storiografica, che rivela, anche in questo, la propria matrice epica. Vi è un assai noto passo di Tucidide, dove lo storico, nel descrivere il proprio lavoro e la materia trattata, adopera un'espressione quasi intraducibile: ta; e[rga tw'n pracqevntwn (I 22 2). Si dovrebbe tradurre "i fatti dei fatti", che in italiano non dà senso (...) Lì vi è invece una distinzione: la categoria generale degli "eventi" (ta; pracqevnta) comprende sia le "azioni" (e[rga) che le "parole" (lovgoi), delle quali si è appena detto nel periodo precedente (...) La parola infatti-scriverà secoli dopo Diodoro- la parola retoricamente organizzata, è l'elemento che distingue gli inciviliti dai selvatici, i Greci dai barbari"[6].
“Questa formula denota la concezione fattuale del parlare, che nell’epica è già un retaggio remoto”[7].
La parola “retoricamente organizzata” non esclude la sua dimensione politica.

Nella Poetica Aristotele sostiene che il pensiero (diavnoia) mette in grado di dire quanto è possibile e appropriato (ta; ejnovnta kai; ta; aJrmovttonta, 1450b, 5), e questo poi è il compito della politica e della retorica riguardo ai discorsi: infatti gli antichi rappresentavano personaggi che parlavano politicamente, i moderni invece retoricamente (1450b, 7-8).

Direi che i personaggi della tragedia parlano tutti sia politicamente, sia retoricamente. Infatti per l'uomo greco che viveva nella povli" democratica la condizione dell’impolitico è innaturale: "benché si muovesse liberamente, l' individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello stato, nella famiglia, nel fato "[8].

Tucidide, il creatore della storia politica, l’autore che ha dato alla storiografia quella svolta pragmatica la quale "è valsa ad affermare l'identificazione tra storia e politica"[9], fa dire a Pericle: "movnoi ga;r tovn te mhde;n tw'nde metevconta oujk ajpravgmona, ajll j ajcrei'on nomivzomen" (Storie, II 40, 2), siamo i soli a considerare non pacifico, ma inutile chi non partecipa alla vita politica.
Il dramma in effetti contiene più personaggi che parlano: è, spiega Socrate, la specie di poesia e mitologia che toglie le parole del poeta intercalate ai discorsi diretti lasciando solo le alterne battute (ta; ajmoibai'a) e dunque si esprime dia; mimhvsew~, per imitazione (Repubblica, 394 b-c).
Se non appaiono i personaggi parlanti abbiamo una narrazione semplice senza mimesi (a[neu mimhvsew~ aJplh' dihvghsi~), che si trova soprattutto nei ditirambi, specifica Platone attraverso Socrate, poi c’è la forma mista che è l’epica.


La priorità della parola: verba tene res sequetur. Tucidide e la potenza oratoria di Pericle. Omero e l’educazione di Achille. L’incipit del Vangelo secondo Giovanni. Le parole, come le cose, constano di elementa (stoicei'a), che sono tanto elementi primordiali quanto lettere dell’alfabeto, che si mettono insieme e si separano, si aggiungono e si tolgono. Ivano Dionigi rileva una coincidenza tra terminologia grammaticale e terminologia atomistica, con precedenza della prima. Lucrezio. Platone.

Tucidide nel presentare Pericle, che sta per pronunciare il primo dei suoi discorsi, lo definisce uomo che in quel tempo era il primo degli Ateniesi, il più capace di parlare e di agire (prw'to" w[nAqhnaivwn, levgein te kai; pravssein dunatwvtato", I, 139).
Per primeggiare dunque sono necessarie la potenza (duvnami") della parola (lovgo") innanzitutto, poi quella dell'azione (pra'gma).
Infatti più avanti leggiamo: “touv~ te lovgou~ o{sti~ diamavcetai mh; didaskavlou~ tw`n pragmavtwn givgnesqaiajxunetov~ ejstin” (III 42, 2), chiunque contesti che i discorsi siano maestri delle azioni è stupido.
Già nell'eroe dell'epica la capacità della mente, che si esprime attraverso la parola, deve precedere quella dell'azione.
Peleo manda Fenice a Troia con il figliolo perché gli insegni: "muvqwn te rJhth'r j e[menai prhkth'rav te e[rgwn"[10], a essere dicitore di parole ed esecutore di opere. Si vede bene la priorità della parola.
Insomma: "In principio erat Verbum"[11]. Ma il verbum deve diventare factum. Im Anfang war das Wort…Im anfang war die Tat[12].
Ivano Dionigi nel De rerum natura di Lucrezio accerta una "coincidenza di terminologia grammaticale e terminologia atomistica" e presume una "probabile mutuazione della seconda dalla prima" per cui "i fatti verbali vanno ritenuti prioritari non solo nell'esegesi filologica ma anche nella critica letteraria lucreziana a causa della omologia e connaturalità di lingua e realtà. E' come se il detto catoniano fosse invertito: verba tene, res sequetur"[13]. Ribaltare il motto di Catone "Rem tene, verba sequentur" (fr. 15 Jordan), tieni in pugno l'argomento, le parole seguiranno, significa affermare in qualche modo la priorità dei verba.
Nel Nuovo Testamento vediamo che Cristo pre-dice quasi sempre quello che sta per fare. “Il rapporto di antecedenza della parola rispetto all’evento importante (morte, guarigione, tradimento, ecc.) ci appare tanto abituale che ogni avvenimento di qualche peso, qualora non sia “spiegato” da una parola che lo precede, è destinato a essere percepito come anomalo e a provocare l’imbarazzo dei commentatori. Questo vale nel nostro testo per la caduta dei porci in mare”[14].
“Come l’equivalente greco stoicei'a (cfr. Epicuro, ep. Pyth. 86; ep. Men. 123), elementa ha il doppio senso di “elementi primordiali” e “lettere dell’alfabeto”. Sul parallelismo e addirittura sulla connaturalità di elementi naturali ed elementi linuistici, di realtà fisica e realtà verbale, di cosmo e testo, Lucrezio interverrà ripetutamente e intenzionalmente (I, 817-819; 2, 688-699 e 1007-1022 vd. note ad. loc.) ”[15].
Più avanti Dionigi commenta i versi lucreziani i quali presentano gli atomi, determinati corpi immutabili, per l’allontanarsi e il sopraggiungere dei quali, mutato l’ordine, le cose mutano natura e i corpi si trasformano: “certissima corpora quaedam/ sunt quae conservant naturam semper eandem, / quorum abitu aut aditu mutatoque ordine mutant/ naturam res et convertunt corpora sese ” (I, 677-678).
 “Le cause lucreziane della formazione dei corpi hanno una rspondenza evidente e significativa con le cause della formazione delle parole, quali troviamo puntualmente segnalate da Varrone (ling. Lat. 6, 2 qui omnes verba ex verbis ita declinari scribunt, ut verba litteras alia assumant, alia mittant, alia commutent, “ tutti costoro scrivono che le parole derivino da altre parole per assunzione, perdita e mutamento delle lettere) e codificate dall’autore della Rhetorica ad Herennium (4, 20, 29, dove tra le diverse cause dell’adnominatio, “paronomasia”, vengono elencate: litterarum additio, demptio, translatio, commutatio). Il ‘distaccamento’, l’’accostamento’, il ‘mutamento’ degli atomi convertono la natura delle cose nello stesso modo in cui l’ ‘omissione’, l’ ‘aggiunta’, il ‘mutamento’ delle lettere convertono l’identità delle parole”[16].
Lucrezio torna sull’argomento più avanti affermando che nei suoi versi si possono vedere molti elementi comuni a molte parole: “multa elementa vides multis communia verbis (I, 824), mentre versi e parole si differenziano.
Tantum elementa queunt permutato ordine solo (v. 827), tanto possono le lettere se viene mutato solo l’ordine. I primordia rerum possono impiegare un maggior numero di forme in quanto da essi si creano tutte le varie sostanze.
Elementum (stoicei'on) è dunque inteso come costituente originario sia dell'essere sia dell'alfabeto. Il maggior conforto sulla priorità del modello alfabetico viene da Platone il quale "teorizza chiaramente che la scrittura è il modello conoscitivo, anzi il modello del modello (to; paravdeigma paradeivgmato", Pol. 278 d ss.), e che le lettere e sillabe dell'alfabeto (ta; tw'n grammavtwn stoicei'a kai; sullabaiv) sono i modelli che, al pari di ostaggi in nostro possesso, garantiscono la teoria degli elementi primi (w{sper ga;r oJmhvrou" e[comen tou' lovgou ta; paradeivgmata, oi|" crwvmeno" ei\pe pavnta tau'ta, Theaet. 202e) "[17].


Il parere di Ovidio: prima viene la cupido poi, se questa c’è, seguiranno i verba: "fac tantum cupias, sponte disertus eris" (Ars amatoria, I, 608).

L'opinione che la parola venga prima di tutto non è assurda; sentiamo comunque un parere diverso.
Secondo Ovidio, ancora prima dei verba viene la cupido: il maestro di erotismo consiglia al corteggiatore l'audacia e la facondia che sarà nutrita dalla forza del desiderio: è il "rem tene verba sequentur " di Catone trasferito in campo erotico: "fac tantum cupias, sponte disertus eris " (Ars amatoria, I, 608), pensa solo a desiderarla, e sarai facondo senza sforzo. Tereo che arde di passione per la cognata Filomela è reso eloquente dallo stesso ardore amoroso: "Facundum faciebat amor " (Metamorfosi, VI, 469). A dire il vero non è un esempio felice perché poi il barbaro re violenterà la sorella della moglie, la principessa ateniese, così brutalmente forzata[18].
La cupido di Ovidio è un elemento della ragione, come il pathos di Hegel[19], ed è produttiva tanto di persuasione quanto di successo erotico.
E’ vero per essere eloquenti non basta conoscere l’argomento: bisogna altresì provare per lo menno interesse e simpatia per la persona alla quale si parla.


L’uomo è animale linguistico. Wilde. Steiner. Frasnedi

Io sostengo che il sicuro possesso dei verba potenzia l'azione, la quale del resto non può essere efficace se non è supportata da energie istintive.
La parola comunque è più duratura dell'azione: “Non c’è tipo di azione né forma di emozione che non condividiamo con gli animali inferiori. E’ soltanto attraverso il linguaggio che ci eleviamo sopra di loro o l’uno sull’altro; attraverso il linguaggio che è padre, non figlio del pensiero (It is only by language that we rise above them, or above each other-by language, which is the parent, and not the child, of thought”) [20].
"Da un punto di vista biosociale l'uomo è davvero un mammifero dalla vita breve, programmato per l'estinzione come ogni altra specie. Ma l'uomo è un animale linguistico, ed è questa singola caratteristica, più di ogni altra, a rendere sopportabile e feconda la nostra condizione effimera"[21]. Ancora: "Come essere irripetibile esisto anche nell'orizzonte del linguaggio. Sono un animale linguistico in quanto faccio mio lo strumento della lingua, secondo le modalità individuate dal Devoto con chiarezza suprema: o forzando la lingua, per costringerla a dire il mio mondo, o forzando il mio mondo, per costringerlo dentro gli strumenti che la lingua mi offre (1950[22]: 32, 43, 48) "[23]. Di conseguenza, quanti più strumenti verbali possiedo, tanto meno sono costretto a forzare il mio mondo, e tanto più sono capace di ascoltare: "L'intero processo dell'educazione linguistica ha per fine il radicarsi di questa coscienza, e, con essa, della consapevolezza che l'ascolto dell'altro non è mai un'operazione ovvia. Che ascoltare davvero, come leggere davvero, è sempre incessantemente tradurre"[24].


La povertà di linguaggio prelude alla violenza. Pasolini, Galimberti, Pirani e Auden citato da Sermonti. Menandro (il duvskolo~ tira le pietre invece di parlare) e Teofrasto. Di nuovo Pasolini: il genocidio culturale. L’ottimismo anomalo di Euripide nelle Supplici (del 422) dovuto ai doni divini: in primis l’intelligenza e la lingua, messaggera delle parole. Luperini: la capacità di linguaggio. Marco Lodoli e il bullismo (“carognismo”) nella scuola

La letteratura è un serbatoio di parole, a loro volta messaggere di idèe. Queste non di rado sono paradossali. Alcuni paradossi: la malattia riguarda solo gli stupidi e i viziosi (il vecchio Bolkonskij), l’inumanità della malattia (Settembrini e Hans Castorp), la malattia “altamente umana” e l’elogio della bastonatura (Naphta).
P. P. Pasolini aveva capito che la povertà del linguaggio è una forma di impotenza che prelude alla violenza: "Quando vedo intorno a me i giovani che stanno perdendo gli antichi valori popolari e assorbono i nuovi modelli imposti dal capitalismo, rischiando così una forma di disumanità, una forma di atroce afasia, una brutale assenza di capacità critiche, una faziosa passività, ricordo che queste erano le forme tipiche delle SS: e vedo così stendersi sulle nostre città l'ombra orrenda della croce uncinata"[25].
“Nel deserto della comunicazione emotiva che da piccoli non ci è arrivata, da adolescenti non abbiamo incontrato e da adulti ci hanno insegnato a controllare, fa la sua comparsa il gesto, soprattutto quello violento, che prende il posto di tutte le parole che non abbiamo scambiato né con gli altri per istintiva diffidenza, né con noi stessi per afasia emotiva”[26].
“Oggi, mentre il discorso pubblico, politicamente corretto, propone una lingua insignificante, insieme banale e incomprensibile, quello corrente, che i parlanti usano, è largamente influenzato dal linguaggio televisivo, “ridicolo, orrendo, miserabile e scadentissimo”, secondo la definizione di Sermonti…Ben a proposito è stato ricordato, sempre da Sermonti, un aforisma di Auden: “Quando la lingua si corrompe, la gente perde fiducia in quello che sente, e questo genera violenza”[27].

In effetti Cnemone, il Duskolo~[28] di Menandro, invece di parlare, tira pietre e zolle (v. 83) a chi gli si avvicina; e la Scortesia[29] di Teofrasto è ajphvneia oJmiliva~ ejn lovgoi~, rozzezza di relazione attraverso le parole.

Il discorso più generale di Pasolini è quello dello sviluppo senza progresso: " E' in corso nel nostro paese…una sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno avuto grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la televisione. Con questo non sostengo affatto che tali mezzi siano in sé negativi: sono anzi d'accordo che potrebbero costituire un grande strumento di progresso culturale; ma finora sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di spaventoso regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio culturale per due terzi almeno degli italiani"[30].
Il genocidio culturale parte sempre dall’impoverimento e imbarbarimento della lingua. La fiducia nel progresso della vita è fiducia nella lingua.
Euripide in uno dei suoi rarissimi momenti di fiducia nella vita, nelle Supplici scritte nel 422, quando si stava preparando la pur malsicura pace di Nicia, fa dire a Teseo parole di un ottimismo non solo pedagogico[31], ma più generale e ampio, relativo alla vita umana che ha ricevuto dagli dèi grandi benefici. Segue l’elenco di questi: i primi sono l’intelligenza e la lingua indispensabile per esprimerla. Vediamo la successione leggendo alcune parole del tragediografo: “ e[lexe gavr ti~ wJ~ ta; ceivrona-pleivw brotoi'sivn ejsti tw'n ajmeinovnwn. - ejgw; de; touvtoi~ ajntivan gnwvmhn e[cw, -pleivw ta; crhsta; tw'n kakw'n ei\nai brotoi'~. -eij mh; ga;r h\n tovd j, oujk a]n h\men ejn favei” (Supplici, vv. 196-200), un tale[32] infatti disse che il male supera il bene per i mortali. Io invece ho il parere contrario a questi: che sono più numerosi i beni dei mali per gli uomini. Se non fosse così infatti non vivremmo nella luce. Il "Pericle in vesti eroiche” procede lodando chi tra gli dèi ha dato ordine alla vita umana, un tempo bestiale e confusa, prima infondendo nell’uomo l’intelligenza, poi aggiungendo la lingua, messaggera delle parole (prw'ton me;n ejnqei;~ suvnesin, ei\ta d j a[ggelon -glw'ssan lovgwn douv~), in modo che distinguesse le voci, quindi il nutrimento dei frutti della terra, e la pioggia del cielo per farli crescere, e ha procurato difese dal freddo e dal caldo, ha insegnato a navigare per i mari e a scambiare i prodotti di cui è povera la terra.
“Il rilancio dell’insegnamento della letteratura…comporta altresì un interesse linguistico volto all’acquisizione-tanto nel discorso parlato quanto in quello scritto-di una capacità di linguaggio non soltanto corretto, ma anche astratto, culturale e problematico, volto alla formulazione di ipotesi logiche e all’argomentazione rigorosa e persuasiva”[33].
Marco Lodoli torna sull’argomento in seguito a episodi cosiddetti di bullismo, che “ sarebbe meglio chiamare carognismo”, nella scuola: “Sono vent’anni almeno che l’immaginario della nostra società si struttura attorno alla violenza, al denaro, al cinismo, alla brutalità, sono vent’anni almeno che gli insegnanti si trovano ad affrontare ragazzi ipernutriti da un cibo avariato che avvelena la mente, eccita a dismisura i desideri, accelera i tempi fino alla frenesia, cancella ogni pazienza ed esalta sempre e comunque una trasgressione senza scopi…Così umilia, perseguita, picchia il compagno più debole, ancora incastrato nella sua naturale fragilità, così calpesta il compagno handicappato, perché quella debolezza non trova alcuno spazio nel suo ordine di valori”[34].

Bisogna anche dire che la letteratura è ricca di personaggi, situazioni, caratteri. Insomma, se la lingua è messaggera delle parole, queste a loro volta annunciano le idèe, le quali non di rado sono piuttosto lontane dal pensare comune. Vediamo qualche esempio di questo pensiero paradossale.
Le malattie talora vengono considerate segno di colpa e di debolezza della volontà, o anche come qualcosa di inumano. Quando il principe Andrej Bolkonskij domanda al padre: "Come va la vostra salute?", il vecchio risponde: "Mio caro, solo gli stupidi e i viziosi si ammalano. Tu però mi conosci: dalla mattina alla sera sono occupato, sobrio, e quindi sano"[35].
Aggiungil Leopardi sul malato egoista
“La malattia porta con sé minorazioni sensorie, deficienze, narcosi provvidenziali, misure di adattamento e di alleggerimento spirituali e morali della natura, che il sano ingenuamente dimentica di mettere in conto. L’esempio migliore era tutta quella marmaglia di malati di petto con la loro leggerezza, la loro stupidaggine, il loro leggero libertinaggio, e la mancanza di buona volontà per raggiungere la salute”[36].
La teoria della inumanità della malattia esposta dall’umanista Settembrini, convince Hans Castorp: “Giovanni Castorp trovò la cosa bellissima, interessante, e disse al signor Settembrini che la sua teoria plastica lo aveva completamente conquistato. Poiché, si dicesse pure quello che si voleva-e qualcosa si poteva pur dire; per esempio: che la malattia era uno stato vitale accentuato, ed aveva quindi in sé qualcosa di festivo, di solenne-si dicesse dunque pure quello che si voleva, fatto sta che la malattia significava una superaccentuazione dell’elemento corporeo; essa additava, per così dire, all’uomo il suo corpo e lo riconduceva, lo respingeva ad esso, pregiudicando la dignità umana fino al suo annientamento, appunto perché abbassava l’uomo fino a diventare soltanto corpo. La malattia era dunque inumana”.
Il gesuita naturalmente ribatte e confuta questa teoria: “Naphta replicò dicendo che la malattia era invece altamente umana; poiché essere uomo significa essere malato”[37].
Secondo paradosso di Naphta la bastonatura potrebbe anche elevare lo spirito: “ Non destò invece sorpresa e tuttavia sbalordì per una certa aspra insolenza il sentire Naphta esprimersi in favore della bastonatura. Secondo lui era assurdo, in quel caso, farneticare sulla dignità umana, poiché la nostra dignità consiste nello spirito, non nella carne, e siccome l’anima ha purtroppo una grande tendenza a trarre tutta la sua gioia di vita dal corpo, così i dolori che si infliggono a questo sono un mezzo raccomandabilissimo per amareggiare all’altra il gusto del sensuale e contemporaneamente per distoglierla dalla carne e ricondurla allo spirito che, solo in tal modo, potrà riconquistare la sua supremazia. Santa Elisabetta era stata staffilata a sangue dal suo confessore Corrado di Marburgo; questo trattamento, come dice la leggenda, ‘inebriò la loro anima fino al terzo coro’ ”[38].


Il potenziamento dei lovgoi è pure rafforzamento degli e[rga in tutti i campi, compreso quello centralissimo di Eros. Seneca, Hesse, Ovidio e Kierkegaard. Ulisse quale eroe ovidiano (La Penna). Leopardi

Noi antichisti dobbiamo chiarire che la facoltà verbale è potenziata dalla conoscenza dell'italiano antico, ossia dal latino, e da quella del greco[39], e che tale rafforzamento delle parole si trasmette alle azioni.
La sapientia, sostiene Seneca "res tradit, non verba"[40] insegna ad agire, non solo a parlare. E in un'altra Epistula: "Sic ista ediscamus ut quae fuerint verba sint opera" (108, 35), cerchiamo di apprendere la filosofia in modo che quelle che furono parole diventino azioni.
Infatti "Soltanto il pensiero vissuto ha valore"[41].
Le azione si preparano con il pensiero e con la parola. Ciò che è verbale deve diventare reale in termini di comunicazione produttiva: "aveva visto che la sua esperienza era reale. Era irradiata da lui e l'aveva mutato, aveva attirato verso di lui un'altra creatura umana. Il suo isolamento era infranto…"[42].
Le invenzioni, le rivoluzioni puramente verbali, lasciano il tempo che trovano. Si pensi al movimento letterario della neoavanguardia dei primi anni Sessanta. Presentava e propugnava “lo sperimentalismo assoluto, letterario fino all’illeggibilità e all’inservibilità”[43].
 Quando i giovani capiscono questo, e lo constatano, diventano più disponibili a faticare per impossessarsi di tale forza. Noi quarant'anni fa nei licei ci impegnavamo a studiare per non essere bocciati, se non per altro motivo; questi ragazzi, che non hanno quasi più lo spauracchio della bocciatura contro l'infingardaggine, devono essere motivati a imparare le lettere con l'incentivo della forza della parola, utile in tutti i campi, compreso quello centralissimo di Eros: "Non formosus erat, sed erat facundus[44] Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas "[45].
Abbiamo nominato Kierkegaard che cita questi due versi. Sentiamo anche come li commenta: “Una bellezza maschile, un aspetto lusinghevole eccetera, sono ottimi mezzi. Con essi si può anche giungere a varie conquiste, ma non mai a una vittoria completa. Perché? Perché con essi si porta guerra a una fanciulla nel suo stesso campo, e nel proprio campo ella è sempre più forte. Con tali mezzi si può spingere una fanciulla ad arrossire, ad abbassare gli occhi, ma mai si arriva a ingenerarle quell’ansia soffocante e indescrivibile che rende interessante la bellezza”[46].
 Nei versi precedenti Ovidio consiglia di imparare bene il latino e il greco, per potenziare lo spirito e controbilanciare l'inevitabile decadimento fisico della vecchiaia: "Iam molire animum qui duret, et adstrue formae: /solus ad extremos permanet ille rogos. /Nec levis ingenuas pectus coluisse per artes/cura sit et linguas edidicisse duas" (Ars amatoria, II, vv. 119-122), oramai prepara il tuo spirito a durare, e aggiungilo all'aspetto: solo quello rimane sino al rogo finale. E non sia leggero l'impegno di coltivare la mente attraverso le arti liberali, e di imparare bene le due lingue. Il latino e il greco ovviamente. Senza con questo disprezzare altre lingue.
Nei versi seguenti il poeta di Sulmona racconta che Calipso chiese a Ulisse in procinto di partire di farle conoscere il destino crudele di Reso, re di Tracia.
Egli allora disegnò sulla sabbia parte della vicenda crudele narrata nel X libro dell’Iliade. Non aveva finito di segnare la rena con una verga, “subitus cum Pergama fluctus-abstulit et Rhesi cum duce castra suo” (vv. 139-140), quand’ecco che un’ondata improvvisa cancellò Pergamo e l’accampamento di Reso con il suo comandante.
Quindi Calipso fece notare all’amante che non era il caso di fidarsi delle onde, tanto rapide a cancellare ogni cosa.
Infine il commento di Ovidio: “Ergo age, fallaci timide confide figurae, -quisquis es, atque aliquid corporis pluris habe” (vv. 143-144), su dunque, fidati con precauzione dell’aspetto esteriore, chiunque tu sia, e considera qualche cosa più di valore del corpo.
“Si capisce che il portatore dei valori ovidiani è Ulisse, l’eroe che alla bruta forza, al coraggio cieco contrappone le doti e le arti sottili della mente, la prudenza, la seducente eloquenza; un pezzo dell’Ars amatoria (II 107-44), una scena di singolare grazia in cui Ulisse, un momento prima di imbarcarsi, conversa con Calipso, ci dà la prova sicura della predilezione di Ovidio e ci fa capire il senso di questa predilezione”[47].
“Egli è indubitato: la nuda cognizione di molte lingue accresce anche per se sola il numero delle idee, e ne feconda poi la mente”[48].







[1] 436-338 a. C.
[2] Del 390.
[3] De officiis, I, 142.
[4] C. Marlowe, L'ebreo di Malta, V, 2.
[5] Di là dal bene e dal male, p. 203.
[6]L. Canfora, L'agorà: il discorso suasorio in Lo spazio letterario della Grecia antica, I, 1, p. 385.
[7] L. Canfora, Noi e gli antichi, p. 99.
[8]S. Kierkegaard, Enten-Eller, Tomo Secondo, p. 24 e p. 30.
[9]Canfora, Teorie e tecnica della storiografia classica, p. 12.
[10]Iliade, IX, 443.
[11] Vangelo di Giovanni, Prologo.
[12] Goethe, Faust I, Studio. In principio era la Parola…in principio era l’Azione.
[13] I. Dionigi, Lucrezio, Le parole e le cose, p. 37.
[14] J. Starobinski, Tre furori, p. 71. L’episodio commentato è quellodell’indemoniato di Gerasa (Matteo, V, 1-20)
[15] I. Dionigi (a cura di) Lucrezio, La natura delle cose, nota a I, 197, pp. 87-88.
[16] I. Dionigi, Op. cit., p. 123.
[17] I. Dionigi, Lucrezio, Le parole e le cose, p. 35.
[18] Cfr. T. S. Eliot, The Waste Land, vv. 99-103 già citato in 16. 10.
[19] "Il pathos in tal senso è una potenza in se stessa legittima dell'animo, un contenuto essenziale della razionalità e della volontà libera", Estetica, Tomo I, p. 306
[20] O, Wilde, Il critico come artista, p. 54.
[21] G. Steiner, Errata. Una vita sotto esame, p. 105.
[22] Studi di stilistica. Firenze: Le Monnier.
[23] F. Frasnedi, op. cit., p. 112.
[24] F. Frasnedi, op. cit., p. 112.
[25] Scritti corsari, p. 187.
[26] U. Galimberti, L’ospite inquietante, p. 49.
[27] Mario Pirani, La lingua italiana “penzata” e “leggislativa”, “la Repubblica”, 11 giugno 2007, p. 20.
[28] Commedia del 316 a. C.
[29] Aujqavdeia, XV dei Caratteri
[30] Scritti corsari, p. 286.
[31] Che vedremo più avanti, verso la fine (69).
[32] Probabilmente Euripide allude a un passo di Prodico di Ceo, o comunque di un sofista.
[33] R. Luperini, Insegnare la letteratura oggi, p. 100.
[34] M. Lodoli, Ma il bullismo in classe non è colpa della scuola, “la Repubblica” 17 novembre 2006, p. 22.
[35] L. Tolstoj, Guerra e pace, p. 146.
[36] T. Mann, La montagna incantata, II, p. 119.
[37] T. Mann, La montagna incantata, II, p. 134.
[38] T. Mann, La montagna incantata, II, p. 123.
[39]"In ogni caso, la cosiddetta cultura classica ha un unico punto di partenza sano e naturale, cioè l'assuefazione, artisticamente seria e rigorosa, a servirsi della lingua materna", Nietzsche, Sull'avvenire delle nostre scuole, p. 52.
[40]Seneca, Epist. ad Luc., 88, 32.
[41] H. Hesse, Demian (del 1919), p. 116.
[42] H. Hesse, Klein e Wagner (del 1920), p. 132.
[43] Pasolini, in Saggi sulla Letteratura e sull’arte, p. 2614.
[44] Un limite alla facundia, come del resto alla pietas, lo suggerisce Orazio: " Cum semel occideris et de te splendida Minos/ fecerit arbitria, / non Torquate, genus, non te facundia, non te/restituet pietas" (Carm. IV, 7, vv. 21-24), una volta che sarai morto e Minosse avrà dato sul tuo conto chiare sentenze, non la stirpe, Torquato, non la facondia, non la devozione ti restaurerà. Questo limite dunque è la morte, solo la morte.
[45] Ovidio, Ars Amatoria, II, 123-124. Bello non era ma era bravo a parlare Ulisse e pure fece struggere d'amore le dee del mare. Sono versi non per caso citati da Kierkegaard nel Diario del seduttore.
[46] Diario del seduttore, p. 75.
[47] A. La Penna, Aspetti del pensiero storico latino, p. 9.
[48] Leopardi, Zibaldone, 2214

Nessun commento:

Posta un commento