NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

LE NUOVE DATE! Protagonisti della Storia Antica | Biblioteche Bologna   -  Tutte le date link per partecipare da casa:    meet.google.com/yj...

giovedì 30 luglio 2015

Metodologia per l'insegnamento del greco e del latino, parte XXXIV

Phobos e Deimos, la paura e il terrore della guerra

Eppure l’intimidazione non è sempre disapprovata come diseducativa: Eschilo (to; deinovn, nelle Eumenidi), Menelao nell’Aiace di Sofocle, e gli Spartani di Plutarco (Vita di Cleomene) celebrano la paura. Anche Sallustio (metus, formido, Bellum Iugurthinum) è un fautore della paura. Giovenale: la vicinanza di Annibale e la povertà frenavano la libidine. Polibio e il koino;~ fovbo~ che costringe i Romani alla concordia. Del resto lo storiografo di Mantinea è contrario alla presenza di ta; deinav nella storiografia. La paura comunque è funzionale al potere. Stazio: “nil falsum trepidis”. Hitler. La cricca di Bush

A proposito della polivalenza problematica delle parole, la paura, e tanto meno il terrore, non è elemento utile all'educazione dei figli secondo il personaggio Micio di Terenzio, un uomo sostanzialmente positivo; eppure nelle Eumenidi di Eschilo entrambe le parti contendenti affermano la necessità di mantenere vivo to; deinovn per il bene della povli": nel secondo Stasimo, il coro delle Erinni canta: " a volte è bene il terrore (" e[sq j o{pou to; deino;n eu\") / e quale ispettore delle anime (frenw'n ejpivskopon) / deve restarvi a fare la guardia" (vv. 517-519).
E subito dopo, ancora le Erinni: " mht j a[narkton bivon-mhvte despotouvmenon-aijnevsh/": panti; mesw/ to; kravto" qeo;"-w[pasen " (526-530), non lodare una vita di anarchia né una soggetta al dispotismo: in ogni caso il dio dà potenza al giusto mezzo.
Più avanti la stessa Atena consiglia ai cittadini che hanno cura della città di rispettare uno stato senza anarchia né dispotismo ("to; mhvt j a[narcon mhvte despotouvmenon", v. 696) e di non scacciare del tutto la paura dalla città: infatti quale mortale è giusto se non ha nessuna paura? ("kai; mh; to; deino;n pa'n povlew" balei'n-tiv" ga;r dedoikw;" mhde;n e[ndiko" brotw'n; " vv. 698-699).
Nell'Aiace di Sofocle il personaggio di Menelao sostiene la stessa cosa per imporre il suo ordine di non seppellire Aiace che non obbediva ai capi: “ouj ga;r pot ‘ ou[t j a]n ejn povlei novmoi kalw̃ς-fevroint j a[n, e[nqa mh; kaqesthvkh/ devoς, -out j a]n stratovς ge swfrovnwς a[rcoit j e[ti-mhde;n fovbou provblhma mhd jaijdoũς e[cwn» (vv. 1073-1076), mai infatti le leggi potrebbero procedere bene in una città dove non si trovasse sancito il timore né un esercito potrebbe essere comandato con equilibrio, se non avesse nessuno scudo di paura né di rispetto.
E poco dopo: “devoς ga;r w/| provsestin aijscuvnh q’ oJmoũ, -swthrivan e[conta tovnd j ejpivstasoo” (vv. 1079-1080), sappi infatti che ha la salvezza quello nel quale risiede la paura insieme con il rispetto.
Nella Vita di Cleomene[1], Plutarco racconta che gli Spartani onorano la Pauratimw`si de; to;n Fovbon”, non come venerano gli dèi che si vogliono distogliere perché ritenuti dannosi, “ajlla; th;n politeivan mavlista sunevcesqai fovbw/ nomivzonteς» (30, 9), ma i quanto credono che con la paura soprattutto si tenga unito lo Stato.
E poco più avanti: “dio; kai; para; tw̃n ejfovrwn sussivtion to;n Fovbon i{druntai Lakedaimovnioi, perciò presso la mensa degli efori gli Spartani innalzarono il tempio di Paura.

Il concetto della paura opportuna all'ordine torna nel Bellum Iugurthinum[2] di Sallustio: " Nam ante Carthaginem deletam... metus hostilis in bonis artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet ea quae res secundae amant, lascivia atque superbia, incessere" (41), infatti prima della distruzione di Cartagine…il timore dei nemici conservava la cittadinanza nel buon governo. Ma quando quella paura tramontò dagli animi, naturalmente quei vizi che la prosperità ama, la dissolutezza e la superbia, si fecero avanti.
Giovenale riprende questo tema nella sesta satira, quella contro le donne: una delle ragioni della castità delle Romane antiche era “proximus urbi/Hannibal” (vv. 290-291), Annibale alle porte dell’urbe. E, continua: “Nunc patimur longae pacis mala; saevior armis/luxuria incubuit victumque ulciscitur orbem. /Nullum crimen abest facinusque libidinis, ex quo/paupertas Romana perit” (vv. 292-295), ora soffriamo i mali di una lunga pace; più feroce delle armi, il lusso ci è piombato addosso e vendica il mondo conquistato. Nessun delitto manca né misfatto della libidine da quando è morta la povertà di Roma.

“La teoria di una funzione benefica del pericolo esterno (che riassumiamo in genere sotto la formula sallustiana del metus hostilis, il “timore del nemico”: Bellum Iugurthinum 41, 2) è già presente in nuce in Polibio, benché non pienamente sviluppata, né obiettivamente così urgente (nel terzo quarto del II secolo a. C.) come sarà in Posidonio e in Sallustio, nelle tempeste civili della Roma del I secolo. Ma quando, liberatisi dai pericoli esterni, i cittadini di uno stato a costituzione mista vivono nella prosperità, insorgono dall’interno motivi di deterioramento e disgregazione, che tuttavia la costituzione mista possiede in sé i meccanismi per frenare, riportando nell’ordine costituito l’elemento che tende a prevaricare”[3]. Polibio afferma che è difficile trovare un sistema politico migliore della costituzione mista dei Romani: “o{tan me;n ga;r ti~ e[xwqen koino;~ fovbo~ ejpista;~ ajnagkavsh/ sfa'~ sumfronei'n kai; sunergei'n ajllhvloi~, thvlikauvthn kai; toiauvthn sumbaivnei givnesqai th;n duvnamin tou' politeuvmato~ w{ste mhvte paraleivpesqai tw'n deovntwn mhdevn…” (6, 18, 2-3), quando infatti qualche paura comune incombente da fuori li costringe alla concordia e alla cooperazione, tanta e tale succede che diventi la potenza dello Stato che né viene tralasciata nessuna delle cose necessarie, in quanto, continua Polibio, tutti fanno a gara per trovare i mezzi utili a fronteggiare la situazione, né le decisioni falliscono l’occasione in quanto tutti contribuiscono ad attuarle.

Si ricorderà che Polibio biasima e vorrebbe cancellare paura e compassione dalla storiografia: lo storico di parte achea biasima ta; deinav, i fatti terribili che Filarco, partigiano del re di Sparta Cleomene III[4] fautore di una rivolta sociale, racconta nelle sue Storie[5]:spoudavzwn d j eij" e[leon ejkkalei'sqai tou;" ajnagignwvskonta" peirwvmeno" ejn eJkavstoi" ajei; pro; ojfqalmw'n tiqevnai ta; deinav” (6, 56, 6 e 8), dandosi da fare per muovere a compassione i lettori… cercando sempre di mettere atrocità davanti agli occhi.

Secondo lo storico, acheo e filoromano, questo mostrare abbracci di donne e chiome scarmigliate e denudamenti di seni è una scelta propagandistica, ajgenne;" kai; gunaikw'de" [6], ignobile e donnesca. L’esposizione delle atrocità inquietanti sarebbe plausibile solo nella tragedia. Infatti lo squillo iniziale del primo stasimo dell'Antigone fa: "polla; ta; deina; koujde;n ajn-qrwvpou deinovteron pevlei" (vv. 332-333), molte sono le cose inquietanti e nessuna è più inquietante dell'uomo.


Stazio nella Tebaide racconta che la Paura diffonde smania di guerra, di morte e di strage nell’esercito dei Sette contro Tebe: “nil falsum trepidis” (VII, 131), nulla è falso per chi è spaventato, ed è quindi disposto a credere a tutto.
La paura dunque è funzionale al potere. Joachim Fest riporta queste parole di Hitler: “La gente ha bisogno della paura risanatrice. La gente vuole temere qualcosa, pretende che la si intimidisca e che ci sia qualcuno cui assoggettarsi tremando. Non avete forse constatato voi stessi, con i vostri occhi, che dopo lo scontro nei locali pubblici, sono proprio quelli che le hanno buscate i primi a chiedere di entrare nel partito? Cosa sono dunque queste chiacchiere sulla crudeltà, e perché vi scaldate tanto per un atto di violenza? E’ proprio quello che la massa vuole. La massa pretende qualcosa che le faccia orrore”[7].
Infatti: le torri gemelle hanno potenziato la cricca di Bush.


Tutto è problematico. Come si deve studiare e insegnare? Omero e certa filologia considerata deretana da Seneca. Timone di Fliunte[8] derideva il lavoro di Zenodoto. Nietzsche: “nella filologia mancano i grandi pensieri”. Sotto la ruota di H. Hesse: l’Odissea letta come un libro di cucina.
Tutto è problematico. Per noi che studiamo e insegniamo, un problema di fondo è: come si deve studiare e come trasmettere ai giovani quanto abbiamo imparato?

Seneca mostra di non apprezzare la questione omerica e l'attività filologica di Aristarco: “quantum temporis inter Orphea intersit et Homerum, cum fastos non habeam, computabo? Et Aristarchi notas quibus aliena carmina compunxit recognoscam, et aetatem in syllabis conteram? adeo mihi praeceptum illud salutare excidit: “tempori parce”?... Haec sciam? Et quid ignorem?”” (Ep. 88, 39), conterò quanto tempo ci corra tra Orfeo e Omero pur essendo privo di documenti? Ed esaminerò i segni diacritici di Aristarco con cui egli infilzò i versi interpolati e consumerò la vita a contare le sillabe?... davvero mi è sfuggito quel sano precetto: risparmia il tempo? Dovrei sapere queste pedanterie? E che cosa ignorare?

Non è questo, almeno non solo questo, né soprattutto questo, lo studio del greco. Chi legge il greco meschinamente vive e pensa con mente meschina
“Diceva Seneca nella medesima lettera a Lucilio: tempori parce, “abbi pietà del tempo!”. Non si pensa mai che il tempo sia una creatura viva e possa soffrire: il tempo subisce ogni giorno un’incredibile quantità di vessazioni informative…Qualcuno dovrebbe decidersi a scrivere un trattato Sulla dieta informativa. Siamo sommersi di notizie, servizi, scoop, di valore e significato assolutamente disuguale ma tutti da consumare in quantità pantagruelica: la tale attrice ha il seno rifatto, no anche le labbra…”[9].
Lo studio del greco ha bisogno di tempo. Chi vuole studiare il greco sul serio, e vuole pure vivere in modo significativo, non ha tempo da perdere in azioni e con persone insignificanti. Sul tempo richiesto dal greco sentiamo Leopardi: “E come le scienze non hanno limiti conosciuti né forse arrivabili, e nessuno si può vantare di possederle intere; così appunto accade della lingua greca, la cognizione della quale sempre si estende, né si può conoscere se e quando arriverà al non plus ultra, né basta l’avere spesa tutta la vita in questo studio, per potersi vantare di essere un grecista perfetto (Firenze, 20 Settembre, 1827) ”[10].

La derisione dei lavori filologici dei dotti alessandrini è più antica di Seneca. Come abbiamo anticipato precedentemente (46) “Timone di Fliunte derideva il lavoro di Zenodoto[11] su Omero, e raccomandava ad Arato, il poeta dei Fenomeni di adoperare “le vecchie copie” di Omero, non quelle “ormai corrette” (Diogene Laerzio, IX 113) ”[12].

Sentiamo Nietzsche: “Nella filologia mancano grandi pensieri, e per questo nello studio universitario non vi è sufficiente slancio. I lavoratori sono diventati operai di fabbrica. Perdono d’occhio il funzionamento del tutto. E’ ora di trovare i criteri giusti per valutare gli scritti dell’antichità classica e di buttare via la zavorra inutile. I nostri filologi devono imparare a giudicare più in grande e, invece di starsene a litigare sui singoli passi, dedicarsi alle grandi considerazioni filosofiche. Se si vogliono avere risposte nuove bisogna saper porre domande nuove…Le leggi della storia letteraria devono essere trovate per comparazione[13].

Tutto è problematico dunque: i testi degli ottimi autori greci e latini abituano a pensare e non possono essere ridotti a raccolte di formule o di ricette: “ ‘Qua leggiamo Omero’ riprese, in tono beffardo, ‘come se l’Odissea fosse un libro di cucina. Due versi all’ora, che vengono sminuzzati e rimasticati parola per parola, fino alla nausea. Ma alla fine di ogni lezione ci dicono: vedete come il poeta ha saputo esprimere questo? Avete potuto intuire il mistero della creazione poetica! Così ci inzuccherano prefissi e aoristi, tanto per farceli ingoiare senza restare strozzati. In questo modo mi rubano tutto Omero’ ”[14]


La necessità di ripristinare la potenza della parola contro l’entropia linguistica. Parlare male fa male all’anima (Fedone). C’è un nesso tra la lingua e i costumi di una persona. Alessandro accusa Filota di detestare lingua e costumi macedoni. La distruzione della parola significa annientamento del pensiero (1984). L’ignoranza delle letterature classiche compromette la comprensione di quelle moderne (Palmisciano). Bettini: The Great Gatsby e il Satyricon. L’annientamento della parola e del pensiero annichilisce anche l’azione.

Il ragazzo deve sentire, come Tonio Kröger di T. Mann, quanto sia importante conseguire " la potenza dello spirito e della parola (der Macht des Geistes und Wortes), sorridente in trono sopra il mondo muto e inconsapevole"[15]
Tanto più è necessario ripristinare la potenza della parola oggi, in presenza di questa vera e propria entropia linguistica. Il parlare male, fa male all'anima. Lo afferma Socrate nel Fedone: " euj ga;r i[sqia[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev"[16], ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene…ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime.
Lo ha ricordato Ivano Dionigi nel convegno di Torino-Ivrea dell'ottobre 2003.
Il modo di parlare è un forte indizio non solo dello stato d’animo, ma anche del comportamento: Alessandro, quando inquisiva Filota accusato di congiura (330 a. C.), gli chiese di rispondere alle accuse nella lingua nazionale dei Macedoni, patrio sermone, e siccome l’indagato non lo fece, il re disse: “memineritis aeque illum a nostro more quam a sermone abhorrere[17], ricordatevi che quello detesta i nostri costumi quanto la nostra lingua.

La distruzione della parola significa l’annientamento del pensiero: “Ah, è davvero una gran bella cosa, la distruzione delle parole. Naturalmente il grosso delle stragi è nei verbi e negli aggettivi, ma ci sono anche centinaia di sostantivi di cui si può fare benissimo piazza pulita…Non senti ancora la bellezza della distruzione delle parole. Non lo sai che la neolingua è l’unica lingua del mondo il cui vocabolario s’assottigli ogni anno?... Ogni anno ci saranno meno parole, e la possibilità di pensare delle proposizioni sarà sempre più ridotta…Tutta la letteratura del passato sarà completamente distrutta. Chaucer, Shakespeare, Milton, Byron…esisteranno solo in neolingua, non soltanto trasformati in qualcosa di diverso, ma sostanzialmente trasformati in qualcosa che contraddice quel che erano prima”[18].
Per inficiare il gusto e la comprensione dell’intera letteratura europea è sufficiente annichilire quella greco-latina: “Per molti secoli le letterature classiche sono state guardate come un modello di perfezione (e comunque un termine di confronto) dagli autori delle letterature europee moderne. Non avere avuto un contatto diretto con la letteratura antica costituisce un grave pregiudizio per una matura comprensione dei capolavori delle altre letterature, in chi vi si voglia dedicare professionalmente”[19]. E non solo in questi.
“Per esempio, può accadere che ci sia qualcuno il quale detesta, o semplicemente ignora, gli scrittori latini, mentre ama moltissimo Francis Scott-Fitzgerald perché è americano e moderno. Dopo di che scopre che The Great Gatsby, per esplicita ammissione del suo autore, a un certo momento si sarebbe dovuto intitolare Trimalchio in West Egg, o anche, semplicemente, Trimalchio[20]. Del resto anche Pasolini progettava di fare del suo Petrolio direttamente “ un Satyricon moderno”[21]: e non escluderei neppure che “Petrolio” giocasse proprio con il ricordo di “Petronio”[22].

L’annientamento del pensiero a sua volta annichilisce l’azione.
Queste nostre materie vanno vissute nel sole e calate nella prassi.
La barca dell'insegnamento ha detto Michael von Albrecht, nello stesso convegno menzionato sopra, ha bisogno tanto della teoria quanto della pratica, come di due remi, poiché con uno solo il natante gira su se stesso.
 "Dove afferrarti, infinita natura? E voi, mammelle, dove? Voi fonti di ogni vita, da cui pendono il cielo e la terra, voi, cui tende questo arido petto, sgorgate, dissetate, e io devo languire invano?" si domanda Faust in crisi di identità: "Ho il titolo di Maestro, anzi di Dottore, e saran dieci anni che, con giri e rigiri, sto menando per il naso i miei scolari e vedo che non ci è dato saper nulla "[23].







[1] Re di Sparta dal 235 alla battaglia di Sellasia del 222. Fu sconfitto da Antigono
[2] Del 40 ca.
[3] D. Musti (a cura di) Polibio, Storie, vol. primo, p. 51
[4] Combattè la guerra, detta cleomenica appunto, contro Achei e Macedoni difensori della classe abbiente. Fu sconfitto a Sellasia nel 222 a. C.
[5] Andavano dal 272 al 219, anno della morte del re riformatore Cleomene III.
[6] Polibio, Storie, II, 56, 9.
[7] Hitler, Una biografia, p. 214.
[8] Cfr. 46
[9] M. Bettini, I classici nell’età dell’indiscrezione, p. 5.
[10] Zibaldone, 4292.
[11] Attivo nel primo quarto del III secolo a. C., curò edizioni di Omero e dei lirici. E’ il primo (in ordine di tempo) dei “grandi” della filologia alessandrina. Gli altri sono: Callimaco, Eratostene, Aristofane di Bisanzio, Aristarco di Samotracia. Ad Alessandria l’organizzazione del sapere e della ricerca era di stampo aristotelico e la concezione della lingua era analogistica, ossia considerava la lingua un fatto razionale basato su norme e regole individuabili. La teoria anomalistica dei filologi di Pergamo invece sosteneva l’irregolarità del linguaggio inteso come fatto naturale. Inoltre i Pergameni proponevano l’interpretazione allegorica dei testi omerici, mentre Aristarco asseriva che si doveva spiegare Omero con Omero (" {Omhron ejx JOmhvrou safhnivzein", cfr. Schol. B a Z 201) (ndr). Il “grande” della filologia pergamena è Cratete di Mallo che operava nel solco della tradizione stoica, in opposizione ad Alessandria “ Un’altra differenza imortante è data dall’assenza di grandi figure di poeti-filologi come Callimaco e Apollonio Rodio o anche di scienziati filologi come Eratostene: Pergamo fu piuttosto caratterizzata, come abbiamo già visto, dalla figura del filologo-filosofo nel solco della tradizione stoica. In tale cornice Cratete si distinse dal grammatikos alessandrino preferendo per se stesso la definizione di kritikos…e riprese il concetto di anomalia secondo cui nella concezione della lingua, alla ratio della normativa analogica si contrapponeva il più libero sviluppo dettato dalla consuetudo…Panezio di Rodi (185-110 a. C.) ascoltò Cratete a Pergamo, poi andò ad Atene e infine approdò a Roma (dopo il 150), dove entrò nel circolo degli Scipioni ” (F. Montanari, op. cit., pp. 648 sgg).
[12] L. Canfora, La Biblioteca e il Museo in Lo spazio letterario della Grecia antica, vol. I, Tomo II, p. 16.
[13] Appunti filosofici 1867-1869, p. 82.
[14] H. Hesse, Sotto la ruota, del 1906, p. 90.
[15]T. Mann, Tonio Kröger, in La morte a Venezia, Tristano, Tonio Kröger p. 229.
[16] Aggettivo formato da plhvn e mevlo~, contro il tono, contro il metro.
[17] Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, 6, 9, 36.
[18] G. Orwell, 1984, p. 55 ss.
[19] R. Palmisciano, Per una riformulazione del curriculum di letteratura greca e latina nel ginnasio e nei licei, “AION” Phil. 2004, p. 250.
[20] Il fatto è noto. Cfr. p. e. F. Scott-Fitzgerald, The Great Gatsby, con una introduzione di Ch. Scribner III, Collier Books, New York 1980, p. XIII.
[21] P. P. Pasolini, Petrolio, Einaudi, Torino, 1992, p. 4.
[22] M. Bettini, I classici nell’età dell’indiscrezione, p. 150.
[23] Goethe, Faust, Prima parte, Notte, p. 8. 

Nessun commento:

Posta un commento