Phobos e Deimos, la paura e il terrore della guerra |
Eppure l’intimidazione non è sempre
disapprovata come diseducativa: Eschilo (to; deinovn, nelle Eumenidi), Menelao nell’Aiace di Sofocle, e gli Spartani di
Plutarco (Vita di Cleomene) celebrano
la paura. Anche Sallustio (metus, formido, Bellum Iugurthinum) è un fautore della paura. Giovenale: la
vicinanza di Annibale e la povertà frenavano la libidine. Polibio e il koino;~
fovbo~ che costringe i Romani alla concordia. Del
resto lo storiografo di Mantinea è contrario alla presenza di ta;
deinav nella storiografia. La paura comunque è funzionale al potere. Stazio:
“nil falsum trepidis”. Hitler. La
cricca di Bush
A proposito della polivalenza problematica delle parole, la
paura, e tanto meno il terrore, non è elemento utile all'educazione dei figli
secondo il personaggio Micio di Terenzio, un uomo sostanzialmente positivo;
eppure nelle Eumenidi di Eschilo entrambe le parti contendenti affermano
la necessità di mantenere vivo to; deinovn
per il bene della povli": nel
secondo Stasimo, il coro delle Erinni canta: " a volte è bene il terrore ("
e[sq j o{pou to; deino;n eu\") /
e quale ispettore delle anime (frenw'n
ejpivskopon) / deve restarvi a fare la guardia" (vv. 517-519).
E subito dopo, ancora le Erinni: " mht j a[narkton bivon-mhvte despotouvmenon-aijnevsh/":
panti; mesw/ to; kravto" qeo;"-w[pasen " (526-530), non
lodare una vita di anarchia né una soggetta al dispotismo: in ogni caso il dio
dà potenza al giusto mezzo.
Più avanti la stessa Atena
consiglia ai cittadini che hanno cura della città di rispettare uno stato senza
anarchia né dispotismo ("to; mhvt j
a[narcon mhvte despotouvmenon", v. 696) e di non scacciare del
tutto la paura dalla città: infatti quale mortale è giusto se non ha nessuna
paura? ("kai; mh; to; deino;n pa'n
povlew" balei'n-tiv" ga;r dedoikw;" mhde;n e[ndiko" brotw'n;
" vv. 698-699).
Nell'Aiace di Sofocle il personaggio di Menelao
sostiene la stessa cosa per imporre il suo ordine di non seppellire Aiace che
non obbediva ai capi: “ouj ga;r pot ‘ ou[t
j a]n ejn povlei novmoi kalw̃ς-fevroint j a[n, e[nqa
mh; kaqesthvkh/ devoς, -out j a]n stratovς ge
swfrovnwς a[rcoit j e[ti-mhde;n fovbou provblhma mhd
jaijdoũς e[cwn»
(vv. 1073-1076), mai infatti le leggi potrebbero procedere bene in una città
dove non si trovasse sancito il timore né un esercito potrebbe essere comandato
con equilibrio, se non avesse nessuno scudo di paura né di rispetto.
E poco dopo: “devoς
ga;r w/| provsestin aijscuvnh q’ oJmoũ, -swthrivan
e[conta tovnd j ejpivstasoo”
(vv. 1079-1080), sappi infatti che ha la salvezza quello nel quale risiede la
paura insieme con il rispetto.
Nella Vita di Cleomene[1], Plutarco
racconta che gli Spartani onorano la
Paura “timw`si de; to;n Fovbon”, non come venerano gli dèi
che si vogliono distogliere perché ritenuti dannosi, “ajlla; th;n politeivan mavlista sunevcesqai fovbw/ nomivzonteς» (30, 9), ma i quanto credono che
con la paura soprattutto si tenga unito lo Stato.
E poco più avanti: “dio;
kai; para; tw̃n ejfovrwn
sussivtion to;n Fovbon i{druntai Lakedaimovnioi”, perciò presso la mensa degli efori gli
Spartani innalzarono il tempio di Paura.
Il concetto della paura opportuna
all'ordine torna nel Bellum Iugurthinum[2]
di Sallustio: " Nam ante Carthaginem deletam... metus hostilis in bonis
artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet
ea quae res secundae amant, lascivia atque superbia, incessere" (41), infatti
prima della distruzione di Cartagine…il timore dei nemici conservava la
cittadinanza nel buon governo. Ma quando quella paura tramontò dagli animi, naturalmente
quei vizi che la prosperità ama, la dissolutezza e la superbia, si fecero
avanti.
Giovenale riprende questo tema nella sesta satira, quella
contro le donne: una delle ragioni della castità delle Romane antiche era “proximus urbi/Hannibal” (vv. 290-291), Annibale
alle porte dell’urbe. E, continua: “Nunc
patimur longae pacis mala; saevior armis/luxuria incubuit victumque ulciscitur
orbem. /Nullum crimen abest facinusque libidinis, ex quo/paupertas Romana perit”
(vv. 292-295), ora soffriamo i mali di una lunga pace; più feroce delle armi, il
lusso ci è piombato addosso e vendica il mondo conquistato. Nessun delitto
manca né misfatto della libidine da quando è morta la povertà di Roma.
“La teoria di una funzione
benefica del pericolo esterno (che riassumiamo in genere sotto la formula
sallustiana del metus hostilis, il
“timore del nemico”: Bellum Iugurthinum
41, 2) è già presente in nuce in
Polibio, benché non pienamente sviluppata, né obiettivamente così urgente (nel
terzo quarto del II secolo a. C.) come sarà in Posidonio e in Sallustio, nelle
tempeste civili della Roma del I secolo. Ma quando, liberatisi dai pericoli
esterni, i cittadini di uno stato a costituzione mista vivono nella prosperità,
insorgono dall’interno motivi di deterioramento e disgregazione, che tuttavia
la costituzione mista possiede in sé i meccanismi per frenare, riportando
nell’ordine costituito l’elemento che tende a prevaricare”[3].
Polibio afferma che è difficile trovare un sistema politico migliore della
costituzione mista dei Romani: “o{tan me;n
ga;r ti~ e[xwqen koino;~ fovbo~ ejpista;~ ajnagkavsh/ sfa'~ sumfronei'n kai;
sunergei'n ajllhvloi~, thvlikauvthn kai; toiauvthn sumbaivnei givnesqai th;n
duvnamin tou' politeuvmato~ w{ste mhvte paraleivpesqai tw'n deovntwn mhdevn…”
(6, 18, 2-3), quando infatti qualche paura comune incombente da fuori li
costringe alla concordia e alla cooperazione, tanta e tale succede che diventi
la potenza dello Stato che né viene tralasciata nessuna delle cose necessarie, in
quanto, continua Polibio, tutti fanno a gara per trovare i mezzi utili a
fronteggiare la situazione, né le decisioni falliscono l’occasione in quanto
tutti contribuiscono ad attuarle.
Si ricorderà che Polibio biasima e
vorrebbe cancellare paura e compassione dalla storiografia: lo storico di parte
achea biasima ta; deinav, i fatti terribili che Filarco, partigiano del re di
Sparta Cleomene III[4] fautore di una rivolta sociale, racconta
nelle sue Storie[5]: “spoudavzwn d j eij"
e[leon ejkkalei'sqai tou;" ajnagignwvskonta" …peirwvmeno" ejn
eJkavstoi" ajei; pro; ojfqalmw'n tiqevnai ta; deinav” (6, 56, 6 e 8), dandosi da fare
per muovere a compassione i lettori… cercando sempre di mettere atrocità
davanti agli occhi.
Secondo lo storico, acheo e filoromano, questo
mostrare abbracci di donne e chiome scarmigliate e denudamenti di seni è una
scelta propagandistica, ajgenne;" kai; gunaikw'de" [6], ignobile e donnesca. L’esposizione
delle atrocità inquietanti sarebbe plausibile solo nella tragedia. Infatti lo
squillo iniziale del primo stasimo dell'Antigone fa: "polla; ta;
deina; koujde;n ajn-qrwvpou deinovteron pevlei" (vv. 332-333), molte sono le cose
inquietanti e nessuna è più inquietante dell'uomo.
Stazio nella Tebaide
racconta che la Paura diffonde smania di guerra, di morte e di strage
nell’esercito dei Sette contro Tebe: “nil
falsum trepidis” (VII, 131), nulla è falso per chi è spaventato, ed è
quindi disposto a credere a tutto.
La paura dunque è funzionale al potere. Joachim Fest riporta
queste parole di Hitler: “La gente ha bisogno della paura risanatrice. La gente
vuole temere qualcosa, pretende che la si intimidisca e che ci sia qualcuno cui
assoggettarsi tremando. Non avete forse constatato voi stessi, con i vostri
occhi, che dopo lo scontro nei locali pubblici, sono proprio quelli che le
hanno buscate i primi a chiedere di entrare nel partito? Cosa sono dunque
queste chiacchiere sulla crudeltà, e perché vi scaldate tanto per un atto di
violenza? E’ proprio quello che la massa vuole. La massa pretende qualcosa che
le faccia orrore”[7].
Infatti: le torri gemelle hanno potenziato la cricca di Bush.
Tutto è problematico. Come si deve studiare e insegnare? Omero e certa
filologia considerata deretana da Seneca. Timone di Fliunte[8] derideva il
lavoro di Zenodoto. Nietzsche: “nella filologia mancano i grandi pensieri”. Sotto la ruota di H. Hesse: l’Odissea letta come un libro di cucina.
Tutto è problematico. Per noi che studiamo e insegniamo, un problema di
fondo è: come si deve studiare e come trasmettere ai giovani quanto abbiamo
imparato?
Seneca mostra di non apprezzare la questione omerica e
l'attività filologica di Aristarco: “quantum
temporis inter Orphea intersit et Homerum, cum fastos non habeam, computabo? Et
Aristarchi notas quibus aliena carmina compunxit recognoscam, et aetatem in
syllabis conteram? adeo mihi praeceptum illud salutare excidit: “tempori
parce”?... Haec sciam? Et quid ignorem?”” (Ep. 88, 39), conterò quanto tempo ci corra tra Orfeo e Omero pur
essendo privo di documenti? Ed esaminerò i segni diacritici di Aristarco con
cui egli infilzò i versi interpolati e consumerò la vita a contare le sillabe?...
davvero mi è sfuggito quel sano precetto: risparmia il tempo? Dovrei sapere
queste pedanterie? E che cosa ignorare?
Non è questo, almeno non solo questo, né soprattutto questo,
lo studio del greco. Chi legge il greco meschinamente vive e pensa con mente
meschina
“Diceva Seneca nella medesima lettera a Lucilio: tempori parce, “abbi pietà del tempo!”. Non
si pensa mai che il tempo sia una creatura viva e possa soffrire: il tempo
subisce ogni giorno un’incredibile quantità di vessazioni informative…Qualcuno
dovrebbe decidersi a scrivere un trattato Sulla
dieta informativa. Siamo sommersi di notizie, servizi, scoop, di valore e
significato assolutamente disuguale ma tutti da consumare in quantità pantagruelica:
la tale attrice ha il seno rifatto, no anche le labbra…”[9].
Lo studio del greco ha bisogno di tempo. Chi vuole studiare
il greco sul serio, e vuole pure vivere in modo significativo, non ha tempo da
perdere in azioni e con persone insignificanti. Sul tempo richiesto dal greco
sentiamo Leopardi: “E come le scienze non hanno limiti conosciuti né forse
arrivabili, e nessuno si può vantare di possederle intere; così appunto accade
della lingua greca, la cognizione della quale sempre si estende, né si può
conoscere se e quando arriverà al non
plus ultra, né basta l’avere spesa tutta la vita in questo studio, per
potersi vantare di essere un grecista perfetto (Firenze, 20 Settembre, 1827) ”[10].
La derisione dei lavori filologici dei dotti alessandrini è più
antica di Seneca. Come abbiamo anticipato precedentemente (46) “Timone di
Fliunte derideva il lavoro di Zenodoto[11]
su Omero, e raccomandava ad Arato, il poeta dei Fenomeni di adoperare “le vecchie copie” di Omero, non quelle
“ormai corrette” (Diogene Laerzio, IX 113) ”[12].
Sentiamo Nietzsche: “Nella filologia mancano grandi pensieri,
e per questo nello studio universitario non vi è sufficiente slancio. I
lavoratori sono diventati operai di fabbrica. Perdono d’occhio il funzionamento
del tutto. E’ ora di trovare i criteri giusti per valutare gli scritti
dell’antichità classica e di buttare via la zavorra inutile. I nostri filologi
devono imparare a giudicare più in grande e, invece di starsene a litigare sui
singoli passi, dedicarsi alle grandi considerazioni filosofiche. Se si vogliono
avere risposte nuove bisogna saper porre domande nuove…Le leggi della storia
letteraria devono essere trovate per comparazione[13].
Tutto è problematico
dunque: i testi degli ottimi autori greci e latini abituano a pensare e non
possono essere ridotti a raccolte di formule o di ricette: “ ‘Qua leggiamo
Omero’ riprese, in tono beffardo, ‘come se l’Odissea fosse un libro di cucina. Due
versi all’ora, che vengono sminuzzati e rimasticati parola per parola, fino
alla nausea. Ma alla fine di ogni lezione ci dicono: vedete come il poeta ha
saputo esprimere questo? Avete potuto intuire il mistero della creazione
poetica! Così ci inzuccherano prefissi e aoristi, tanto per farceli ingoiare
senza restare strozzati. In questo modo mi rubano tutto Omero’ ”[14]
La necessità di
ripristinare la potenza della parola contro l’entropia linguistica. Parlare
male fa male all’anima (Fedone). C’è
un nesso tra la lingua e i costumi di una persona. Alessandro accusa Filota di
detestare lingua e costumi macedoni. La distruzione della parola significa
annientamento del pensiero (1984). L’ignoranza
delle letterature classiche compromette la comprensione di quelle moderne (Palmisciano).
Bettini: The Great Gatsby e il Satyricon. L’annientamento della parola
e del pensiero annichilisce anche l’azione.
Il ragazzo deve sentire, come Tonio Kröger di T. Mann, quanto sia importante conseguire " la
potenza dello spirito e della parola (der
Macht des Geistes und Wortes), sorridente
in trono sopra il mondo muto e inconsapevole"[15]
Tanto più è necessario ripristinare la potenza della parola
oggi, in presenza di questa vera e propria entropia linguistica. Il parlare
male, fa male all'anima. Lo afferma Socrate nel Fedone: " euj ga;r i[sqi…a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij"
aujto; tou'to plhmmelev"[16],
ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi
bene…ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma
mette anche del male nelle anime.
Lo ha ricordato Ivano Dionigi nel convegno di Torino-Ivrea
dell'ottobre 2003.
Il modo di parlare è un forte indizio non solo dello stato
d’animo, ma anche del comportamento: Alessandro, quando inquisiva Filota accusato
di congiura (330 a. C.), gli chiese di rispondere alle accuse nella lingua
nazionale dei Macedoni, patrio sermone, e
siccome l’indagato non lo fece, il re disse: “memineritis aeque illum a nostro
more quam a sermone abhorrere”[17],
ricordatevi che quello detesta i nostri costumi quanto la nostra lingua.
La distruzione della parola significa l’annientamento del
pensiero: “Ah, è davvero una gran bella cosa, la distruzione delle parole. Naturalmente
il grosso delle stragi è nei verbi e negli aggettivi, ma ci sono anche
centinaia di sostantivi di cui si può fare benissimo piazza pulita…Non senti
ancora la bellezza della distruzione delle parole. Non lo sai che la neolingua
è l’unica lingua del mondo il cui vocabolario s’assottigli ogni anno?... Ogni
anno ci saranno meno parole, e la possibilità di pensare delle proposizioni
sarà sempre più ridotta…Tutta la letteratura del passato sarà completamente
distrutta. Chaucer, Shakespeare, Milton, Byron…esisteranno solo in neolingua, non
soltanto trasformati in qualcosa di diverso, ma sostanzialmente trasformati in
qualcosa che contraddice quel che erano prima”[18].
Per inficiare il gusto e la comprensione dell’intera
letteratura europea è sufficiente annichilire quella greco-latina: “Per molti
secoli le letterature classiche sono state guardate come un modello di
perfezione (e comunque un termine di confronto) dagli autori delle letterature
europee moderne. Non avere avuto un contatto diretto con la letteratura antica
costituisce un grave pregiudizio per una matura comprensione dei capolavori
delle altre letterature, in chi vi si voglia dedicare professionalmente”[19].
E non solo in questi.
“Per esempio, può accadere che ci sia qualcuno il quale
detesta, o semplicemente ignora, gli scrittori latini, mentre ama moltissimo
Francis Scott-Fitzgerald perché è americano e moderno. Dopo di che scopre che The Great Gatsby, per esplicita ammissione del suo autore, a un certo momento
si sarebbe dovuto intitolare Trimalchio
in West Egg, o anche, semplicemente, Trimalchio[20]. Del resto
anche Pasolini progettava di fare del suo Petrolio direttamente “ un Satyricon moderno”[21]:
e non escluderei neppure che “Petrolio” giocasse proprio con il ricordo di
“Petronio”[22].
L’annientamento del pensiero a sua volta annichilisce
l’azione.
Queste nostre materie vanno vissute nel sole e calate nella
prassi.
La barca dell'insegnamento ha detto Michael von Albrecht, nello
stesso convegno menzionato sopra, ha bisogno tanto della teoria quanto della
pratica, come di due remi, poiché con uno solo il natante gira su se stesso.
"Dove afferrarti,
infinita natura? E voi, mammelle, dove? Voi fonti di ogni vita, da cui pendono
il cielo e la terra, voi, cui tende questo arido petto, sgorgate, dissetate, e
io devo languire invano?" si domanda Faust in crisi di identità: "Ho
il titolo di Maestro, anzi di Dottore, e saran dieci anni che, con giri e
rigiri, sto menando per il naso i miei scolari e vedo che non ci è dato saper
nulla "[23].
[1]
Re di Sparta dal 235 alla battaglia di Sellasia del 222. Fu sconfitto da
Antigono
[2]
Del 40 ca.
[3]
D. Musti (a cura di) Polibio, Storie,
vol. primo, p. 51
[4]
Combattè la guerra, detta cleomenica appunto, contro Achei e Macedoni difensori
della classe abbiente. Fu sconfitto a Sellasia nel 222 a. C.
[5]
Andavano dal 272 al 219, anno della morte del re riformatore Cleomene III.
[6]
Polibio, Storie, II, 56, 9.
[7]
Hitler, Una biografia, p. 214.
[8]
Cfr. 46
[9]
M. Bettini, I classici nell’età
dell’indiscrezione, p. 5.
[10]
Zibaldone, 4292.
[11]
Attivo nel primo quarto del III secolo a. C., curò edizioni di Omero e dei
lirici. E’ il primo (in ordine di tempo) dei “grandi” della filologia
alessandrina. Gli altri sono: Callimaco, Eratostene, Aristofane di Bisanzio, Aristarco
di Samotracia. Ad Alessandria l’organizzazione del sapere e della ricerca era
di stampo aristotelico e la concezione della lingua era analogistica, ossia
considerava la lingua un fatto razionale basato su norme e regole individuabili.
La teoria anomalistica dei filologi di Pergamo invece sosteneva l’irregolarità
del linguaggio inteso come fatto naturale. Inoltre i Pergameni proponevano
l’interpretazione allegorica dei testi omerici, mentre Aristarco asseriva che
si doveva spiegare Omero con Omero (" {Omhron
ejx JOmhvrou safhnivzein", cfr. Schol. B a Z 201) (ndr). Il
“grande” della filologia pergamena è Cratete di Mallo che operava nel solco
della tradizione stoica, in opposizione ad Alessandria “ Un’altra differenza
imortante è data dall’assenza di grandi figure di poeti-filologi come Callimaco
e Apollonio Rodio o anche di scienziati filologi come Eratostene: Pergamo fu
piuttosto caratterizzata, come abbiamo già visto, dalla figura del
filologo-filosofo nel solco della tradizione stoica. In tale cornice Cratete si
distinse dal grammatikos alessandrino
preferendo per se stesso la definizione di kritikos…e
riprese il concetto di anomalia secondo cui nella concezione della lingua, alla
ratio della normativa analogica si
contrapponeva il più libero sviluppo dettato dalla consuetudo…Panezio di Rodi (185-110 a. C.) ascoltò Cratete a
Pergamo, poi andò ad Atene e infine approdò a Roma (dopo il 150), dove entrò
nel circolo degli Scipioni ” (F. Montanari, op. cit., pp. 648 sgg).
[12]
L. Canfora, La Biblioteca e il Museo in Lo
spazio letterario della Grecia antica, vol. I, Tomo II, p. 16.
[13]
Appunti filosofici 1867-1869, p. 82.
[14]
H. Hesse, Sotto la ruota, del 1906, p. 90.
[15]T. Mann, Tonio Kröger, in La morte a Venezia, Tristano, Tonio Kröger p. 229.
[16]
Aggettivo formato da plhvn e mevlo~, contro il tono, contro il metro.
[17]
Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni,
6, 9, 36.
[18]
G. Orwell, 1984, p. 55 ss.
[19]
R. Palmisciano, Per una riformulazione
del curriculum di letteratura greca e latina nel ginnasio e nei licei, “AION”
Phil. 2004, p. 250.
[20]
Il fatto è noto. Cfr. p. e. F. Scott-Fitzgerald, The Great Gatsby, con una introduzione di Ch. Scribner III, Collier Books, New York 1980, p. XIII.
[21]
P. P. Pasolini, Petrolio, Einaudi, Torino,
1992, p. 4.
[22]
M. Bettini, I classici nell’età
dell’indiscrezione, p. 150.
[23] Goethe, Faust, Prima parte, Notte, p. 8.
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