NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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sabato 25 luglio 2015

Metodologia per l'insegnamento del greco e del latino, parte XXXII



Bisogna spiegare l’autore con l’autore stesso (cfr. Aristarco), e con altri (Quintiliano, Leopardi, etc.)

 Buona norma è commentare i poeti con i poeti: il testo di un autore innanzitutto con altri testi dello stesso autore, secondo il criterio del filologo Aristarco di Samotracia[1] per il quale bisogna spiegare Omero con Omero: “ {Omhron ejx JJOmhvrou safhnivzein"[2]; poi vanno considerati i commenti degli autori ottimi agli autori precedenti. Si possono utilizzare, per fare solo due esempi, Quintiliano[3] e Leopardi[4] come critici.


L’attenzione degli studenti e la nostra sono entrambe dovute: “non reddere viro bono non licet”. Uno scrittore cinese. Alfonso Nitti (Una vita di Svevo). La componente affettiva: Settembrini e Naphta “i due avversari nello spirito”[5]. Montaigne e il dovere dell’ascolto. Paideia si associa a eros: Morin, Pasolini. Il ciarliero non ascolta. Biasimo della chiacchiera: Plutarco (De garrulitate), Orazio e il garrulus malefico (Satira I, 9).

L'attenzione, ossia "la pietà naturale dell'anima"[6], deve essere reciproca, e, da parte nostra, anche premurosa, incoraggiante, affettuosa: " Non reddere viro bono non licet"[7].
Sentiamo anche uno scrittore cinese che ricorda un valore “delle novelle di kung fu…Ad esempio lo yiqi: un codice etico di fratellanza, lealtà, incentrato sull’obbligo dello scambio di favori”. Chi contraccambia deve dare di più: “Mio padre era uno studioso di Confucio e mi ricordo ancora un vecchio proverbio che mi ha insegnato: ‘Se qualcuno ti aiuta con una goccia d’acqua, ripagalo scavando per lui una sorgente”[8].

A proposito dell’attenzione e dell’affetto di cui lo studente ha bisogno, possiamo ascoltare Svevo sul fallimento pedagogico di Alfonso Nitti: "Quello che ad Alfonso mancava per essere un buon insegnante era la capacità di apprezzare come meritavano i piccoli sforzi della sua scolara. Lodava di rado e soltanto quando, pentitosi di una parola brutale, voleva risparmiarsi le lacrime che la fanciulla a stento ratteneva, ma mai per una risposta quasi giusta. S'era fatto illusioni sulla sua vocazione all'insegnamento e se gli piaceva d'insegnare non era per affetto allo scolaro. I progressi di Lucia poco o nulla gli importavano. Si sentiva offeso che ella non imparasse di più coi suoi insegnamenti e diveniva violento a sfogo di giornate uggiose nelle quali aveva dovuto da subire lui le ire altrui" [9].
Il giovane dà grande importanza alla componente affettiva, alle intenzioni di chi cerca di istruirlo. Ecco che cosa pensa Hans Castorp dei due pedagoghi, Settembrini e Naphta, che si contendono la sua anima: “Ma vai un po’, Satana pedagogico, con la tua ragione e la tua ribellione![10] D’altronde ti voglio bene. E’ vero che sei un chiacchierone pieno di frasi; ma le tue intenzioni verso di me sono buone, e tu mi sei più caro del piccolo, acuto Gesuita e terrorista, del difensore della tortura, con le sue lenti lampeggianti, quantunque egli abbia quasi sempre ragione, quando litigate…quando vi azzuffate pedagogicamente per la mia anima come nel medioevo si azzuffavano per l’uomo, Dio e il diavolo”[11].
D’altra parte i due non vengono stimati, proprio per l’eccesso di chiacchiera e per il fatto che erano entrambi umbratici doctores[12]: “Gli uomini del sole…nel mio intimo voglio tenere dalla loro parte, non dalla parte di Naphta, d’altronde nemmeno da quella di Settembrini, sono chiacchieroni tutti e due. L’uno è lussurioso e maligno, l’altro non fa che soffiare nel fischietto della ragione e si immagina perfino di poter fare rinsavire i pazzi: una cosa senza senso”[13].
Riguardo al precettore, Montaigne, dopo avere affermato di preferirlo con la testa ben fatta piuttosto che ben piena, aggiunge: "Non desidero che inventi e parli lui solo, desidero che ascolti il suo discepolo parlare a sua volta. Socrate e in seguito Arcesilao facevano prima parlare i loro discepoli, e poi parlavano loro"[14].
“I ragazzi non sono disattenti quando i maestri rimproverano loro di esserlo; essi sono attenti invece ad altre cose, forse più essenziali di quelle che possa desiderare la mentalità concreta dei loro educatori”[15].
Chi non ascolta, non ama e non è amato, mentre la paideia si associa a eros: “Essa richiede ciò che nessun manuale spiega, ma che Platone aveva già indicato come condizione indispensabile di ogni insegnamento: l’eros, che è allo stesso tempo desiderio, piacere e amore, desiderio e piacere di trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi…Là dove non c’è amore, non ci sono che problemi di carriera, di retribuzione, di noia per l’insegnamento”[16].
In Pasolini troviamo una versione radicale, e discutibile, di questo eros pedagogico: “Inoltre, il libertinaggio non esclude affatto la vocazione pedagogica. Socrate era libertino: da Liside a Fedro, i suoi amori per i ragazzi sono stati innumerevoli. Anzi, chi ama i ragazzi, non può che amare tutti i ragazzi (ed è questa, appunto, la ragione della sua vocazione pedagogica) ”[17]. Vedremo (64. 1) che Nietzsche interpreta Socrate in tutt’altro modo.
 I ragazzi, dopo qualche tempo, smettono di ascoltare l'insegnante che non li ascolta. Fanno bene. Infatti chi non sa ascoltare è assimilabile ai ciarlieri biasimati da Plutarco nel De garrulitate: costoro, mentre vogliono essere amati, vengono odiati (filei'sqai boulovmenoi misou'ntai 16, 510D) [18].
 Il garrulus, il loquax, il chiacchierone, afferma scherzosamente Orazio, può uccidere con più alta probabilità di pur terribili malattie: "hunc neque dira venena nec hosticus auferet ensis, /nec laterum dolor aut tussis, nec tarda podagra;/garrulus hunc quando consumet cumque: loquaces, /si sapiat, vitet, simul atque adoleverit aetas "[19], Questo né atroci veleni né spada nemica porterà via/né pleurite o tisi né la podagra che attarda;/un chiacchierone questo una volta o l'altra lo finirà: i ciarlieri/se ha giudizio, eviti, appena si sarà fatto adulto.
L’ascolto ha bisogno della parola e anche del silenzio.
“La parola risuona solo nel silenzio…La parola comunica se è attesa, se non annulla l’ascolto…Si parla dei media, della televisione: capita che la televisione annulli l’ascolto perché è implacabile, non fa ascoltare il silenzio e quindi non può sorgere la domanda: “è vero?” In tal modo si sviluppa la mimesi performativa per cui quella parola è sempre un ordine e non è mai una verità, un sapere ascoltare, un sapersi ascoltare. Allora la comunicazione ha bisogno dell’interrogazione, deve risuonare nel silenzio, perché solo nel silenzio la parola può essere accolta come una semente e meditata, altrimenti si vanifica in un brusio, in rumore”[20].
Sentiamo Stobeo[21] che riferisce parole di Zenone Stoico: ” A uno che voleva chiacchierare (lalei`n) più che ascoltare, disse: “ragazzo, la natura ci ha dotato di una sola lingua e di due orecchie, perché ascoltassimo il doppio di quel che diciamo”.
43. Lo stupore si confà all’attenzione. Dal meravigliarsi nascono la filosofia e la poesia. Aristotele.
Contro i filosofI: Socrate ricorda “l’antica ruggine” tra poeti e filosofi. Musil e Leopardi.
La poesia: Sofocle (Filottete), Pascoli Il fanciullino.
Le critiche anomale o eretiche vanno evidenziate, come abbiamo fatto sopra, poichè possono suscitare lo stupore dei giovani, un effetto che favorisce l'apprendimento, in quanto tiene desta l'attenzione. Lo stupore si confà all'attenzione, e dal meravigliarsi nasce la filosofia: "Principio di ogni filosofia è il meravigliarsi, dice Platone e deduce dal fatto che il giovane Teeteto si meraviglia la sua attitudine al filosofare"[22]. Quindi Aristotele afferma che gli uomini hanno cominciato a fare filosofia, sia ora sia in origine, a causa della meraviglia: "dia; ga;r to; qaumavzein oiJ a[nqrwpoi kai; nu'n kai; to; prw'ton h[rxanto filosofei'n"[23].
Riportiamo allora il giudizio, sui filosofi, di uno scrittore autorevole che suscita meraviglia per quanto è malevolo: “Egli non era un filosofo. I filosofi sono dei violenti che non dispongono di un esercito e perciò si impadroniscono del mondo rinchiudendolo in un sistema”[24]. Questa critica si può estendere, volendo, a tutti i maestri: “Se c’è sempre una componente totalitaria in ogni atto educativo, per avere frequentato solo le scuole medie inferiori ero rimasto un po’ selvaggio e ribelle”[25].
Leopardi afferma addirittura che la filosofia causò la fine della grandezza di Roma: “Or bene che giovò a Roma la diffusione, l’introduzione della virtù filosofica, e per principii? La distruzione della virtù operativa ed efficace, e quindi della grandezza di Roma (11 Dicembre 1821) ”[26].

Nella Repubblica di Platone, Socrate manifesta la sua diffidenza nei confronti di Omero e della poesia che non consista in “inni agli dèi” ed “elogi dei buoni”, attaccando in particolare la Musa drogata (th;n hjdusmevnhn[27] Mou`san, 607) dei canti lirici o epici che insediano piacere e dolore nel trono della città. Poi però il filosofo abbozza una scusa, dicendo che tra la poesia e la filosofia c’è un’antica ruggine (palaia; mevn ti~ diaforav, 607b) e cita alcuni sberleffi nei confronti della seconda, probabilmente dedotte dai comici. Ne riporto una: “mevga~ ejn ajfrovnwn keneagorivasin”, grande nelle vuote ciance degli stolti.


Del resto filosofia e poesia potrebbero essre sorelle: anche la poesia nasce dalla meraviglia: nel primo Stasimo del Filottete il Coro di marinai dice di essere preso da stupore (qau'ma m j e[cei, v. 687) davanti all'uomo abbandonato nell'isola deserta: come sostenne una vita piena di lacrime udendo in solitudine l'assalto dei flutti da tutte le parti?
Ricordo anche la poetica di Pascoli il quale teorizza la sussistenza del fanciullino-poeta, capace di meravigliarsi, nell'adulto arrugginito: "Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello…Il poeta, e e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il fanciullo detta dentro, riesce ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio familiare e umano" (Il fanciullino, 1897; 1902).


Lo studiato va messo in relazione con il vissuto. Il mito e la pubblicità. Bettini: Aconzio e Cidippe. Callimaco e Ovidio. Pindaro e le magliette. La pubblicità deve essere smontata da un educatore. Don Milani. Carlos Ruiz Zafòn. Tucidide: gli uomini e le cose. Citati: gli uomini devono trovare un giusto rapporto con le cose. Epicuro: tra i desideri (tw'n ejpiqumiw'n) alcuni sono solo naturali (fusikaiv), altri anche necessari (ajnagkai'ai). Altri sono vani (kenaiv). Tutto ciò che è naturale richiede solo quanto è facilmente procurabile (eujpovriston). Ciò che è vano invece è difficile da procacciarsi: to; de; keno;n duspovriston. Cicerone: non esse emacem vectigal est. Cornelio Nepote. I Malavoglia. Marziale. Leopardi: bisogni reali e falsi bisogni di cose non necessarie in contraddizione tra loro. La decadenza dell’automobile. La manipolazione e il controllo delle emozioni da parte degli “advertisers[28]. Il mercato decide quali sono i bisogni della gente

Altra raccomandazione didattica: lo studiato va messo in relazione con il vissuto, perfino con il proprio vissuto[29], pure a costo di cadere nell'aneddotico, poiché dobbiamo svelare ai giovani che la cultura classica è comunque presente, viva e ci riguarda tutti. A questo scopo sono utili le attualizzazioni del mito, come quella, per esempio, che fa Bettini quando afferma che "anche i pubblicitari sono degli Aconzi"[30]. Il giovane Aconzio obbligò Cidippe, sul punto di maritarsi con un altro, a sposare lui scrivendo delle parole: "La scrittura di Aconzio è il seme di tutte le scritture astute, e l'unico modo per sottrarsi alla sua trappola sarebbe quello di non leggerla. Ma è possibile?"[31]. Nella festa di Apollo a Delo Aconzio di Ceo si innamora di Cidippe di Nasso e la vincola a sé gettandole un pomo su cui aveva scritto: “Lo giuro per Artemide: io sposerò Aconzio”.
La storia è narrata anche da Ovidio nelle Heroides. Aconzio scrive a Cidippe e le ricorda la “volubile malum-verba ferens doctis insidiosa notis” (211-212), la mela che rotolava portando parole insidiose in formule dotte. Queste furono lette nella sacra presenza di Diana e la fides di Cidippe ne rimase vincta.
 Cidippe risponde ad Aconzio che sta morendo, si sente sballottata come una nave, ipsa velut navis iactor (v. 43), veneficiis tuis (54) per le tue parole avvelenate. Ricorda che navigava verso Delo impaziente di arrivare. Aconzio ne vide la semplicità e gli sembrò che potesse essere facile preda: “visaque simplicitas est mea posse capi” (v. 106). Le viene gettata davanti ai piedi una mela con quei versi che Cidippe non vuole ripetere “mittitur ante pedes malum cum carmine tali ” (v. 109). La nutrice raccolse l’ingannevole frutto e lo fece leggere alla ragazza: “insidias legi, magne poeta, tuas” (112). Aconzio non deve essere fiero di avere preso con ‘inganno una puella parum prudens: “ sumque parum prudens capta puella dolis” (v. 124). E’ stata ingannana come Atalanta da Ippòmene. Aconzio avrebbe dovuto convincerla more bonis solito (v. 129), come fanno i galantuomini, non ingannarla costringendola a proferire sine pectore vocem (143), una voce senza anima. Ora invece della fiaccola di nozze “et face pro thalami fax mihi mortis adest” (v. 174). “mirabar quare tibi nomen Acontius esset” (v. 211), mi domandavo con stupore perché ti chiamassi Aconzio (ajkovntion significa dardo), ora lo so: “quod faciat longe vulnus, acumen habes” (v. 212), hai una punta che provoca ferite anche da lontano. La ragazza ferita sta morendo: “concidimus macie, color est sine sanguine, qualem/in pomo refero mente fuisse tuo” (vv. 217-218), sono estenuata dalla magrezza, il colore è senza sangue, quale, come ricordo, era il tuo pomo.
Il consumista in effetti si identifica con le cose che compra, come l’idolatra biasimato nel Salmo della Bibbia: “: "Gli idoli dei popoli sono argento e oro, opera delle mani dell'uomo. Hanno bocca e non parlano; hanno occhi e non vedono; hanno orecchi e non odono; non c'è respiro nella loro bocca. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida" (Salmi, 135, 15-18).
La pubblicità in effetti recupera e utilizza tutto: non solo il metodo di Aconzio, personaggio degli Aitia di Callimaco[32], ma anche le parole di Pindaro[33]: c’è una réclame di magliette che traduce in francese la somma del pensiero educativo del vate tebano: gevnoio oi|o~ ejssiv" (Pitica II v. 72), diventa quello che sei.
La pubblicità può essere usata a sua volta come bersaglio o idolo polemico. Per lo meno va smontata, come vanno smascherati i personaggi che ne usano il linguaggio.
Questo collegamento incongruo della réclame con la nobiltà del mito può essere controbilanciato con quanto scrive Don Milani: "la pubblicità si chiama persuasione occulta quando convince i poveri che cose non necessarie sono necessarie"[34].
"Il sistema migliore per rendere inoffensivi i poveri è insegnare loro a imitare i ricchi"[35].

Si può pensare, per esempio, a indumenti dal prezzo superfetato, oppure a qualche cosa di peggio in quanto oggetto ritenuto oramai necessario: agli oltre quaranta milioni di cellulari presenti in Italia. Chi scrive è fiero di non averne avuto mai nemmeno uno, poiché non vuole comprare cose che non sono belle né suggerite da desideri naturali e necessari; inoltre non desidera "parlare gratis"[36], anzi, quando non parla con gli amici, con le persone care, tra i quali diversi ex scolari, pretende di essere pagato per parlare.

Comunque non bisogna dimenticare quanto afferma il Pericle di Tucidide: " non sono le cose che acquistano gli uomini ma gli uomini le cose: "ouj ga;r tavde tou;" a[ndra", ajll j oiJ a[ndre" tau'ta ktw'ntai" (Storie, I, 143, 5).
E' questa un’affermazione di umanesimo che potrebbe essere impiegata come dichiarazione anticonsumistica contro gli astuti consiglieri di acquisti che in realtà spingono gli uomini a vendersi alle cose, o comunque a vendersi, e perfino a uccidere altri uomini, per acquistare le cose.
Cose che, d’altra parte, perdono ogni valore ai nostri occhi, dato il loro infiniyo proliferare.
“ Mi auguro che gli uomini ritrovino un giusto rapporto con le cose, che abbiamo comprato, ingoiato, sciupato, gettato con incredibile leggerezza per tanti anni. Oggi, sono troppe. Si accumulano da tutte le parti… Abbiamo smarrito la sensazione di come è fatta una cosa: del suo peso, del suo spessore, dei suoi colori, delle sue ombre, e del valore simbolico che può avere nella nostra vita. Non le amiamo più. Non possiamo amarle, visto che oggi sono diventate infinitamente sostituibili”[37].
Insomma la pubblicità e il consumismo sono enormi idoli e bersagli polemici per l'educatore.
Si può aggiungere, utilizzando l' Epistola a Meneceo di Epicuro[38], che, tra i desideri (tw'n ejpiqumiw'n), alcuni sono naturali (fusikaiv), altri vani (kenaiv) e tra i naturali alcuni sono anche necessari (ajnagkai'ai, 127) ; ebbene tutto ciò che è naturale è a portata di mano: "to; me;n fusiko;n pa'n eujpovristovn ejsti” (130). Ciò che è vano invece è difficile da procacciarsi: to; de; keno;n duspovriston.
Leggiamolo anche nel latino di Cicerone: “Vides, credo, ut Epicurus cupididatum genera diviserit, non nimis fortasse subtiliter, utiliter tamen: partim esse naturales et necessarias, partim naturales et non necessarias, partim neutrum. Necessarias satiari posse paene nihilo (divitias enim naturae esse parabiles) [39], conosci, credo, come Epicuro abbia distinto le specie dei desideri, forse non troppo precisamente, comunque in maniera utile: in parte sono naturali e necessari, in parte naturali e non necessari, in parte né l’una né l’altra cosa. I necessari si possono soddisfare quasi con nulla: infatti le ricchezze della natura sono facili da procurarsi.
Abbiamo già detto (16. 7) che Alessandro Magno spogliandosi per fare il bagno nel fiume Cidno era fiero di mostrare che si accontentava di una cura del corpo semplice e facilmente procurabile
Nei classici insomma sono presenti problematiche e situazioni eterne, e la cultura greco-latina che diviene un potenziamento della fuvsi", ci aiuta a comprenderle. Cicerone nei Paradoxa Stoicorum[40] aveva scritto più sinteticamente: "non esse emacem vectigal est" (VI, 51) non essere consumisti è una rendita. Cornelio Nepote, elogiando Tito Pomponio Attico, scrive: “ cum esset pecuniosus, nemo illo minus fuit emax, minus aedificator” (De viris illustribus, Atticus, 13), pur essendo ricco, nessuno ebbe meno di lui la smania di comprare, né quella di fabbricare. “Più ricco è in terra chi meno desidera” “Meglio contentarsi che lamentarsi”[41].
Seneca mette tra i precetti che non hanno bisogno di alcuna dimostrazione (probatio) questa sentenza di Catone il Censore: “emas non quod opus est, sed quod necesse est; quod non opus est asse carum est[42], compra non quello che è utile, ma quello che è necessario; quello che è inutile, è caro anche se costa un soldo.
Cleante a un tale che gli chiese come potrebbe uno essere ricco, rispose se è povero di desideri (eij tw`n ejpiqumiw`n ei[h pevnh~ (Stobeo, Flori. 95, 28 Mein.)
Sentiamo Marziale: “reges et dominos habere debet/qui se non habet atque concupiscit/quod reges dominique concupiscunt” (II, 68), deve avere re e padroni chi non è padrone di sé e brama quello che re e padroni bramano.
Quindi Leopardi: “il capro nuoce anzi distrugge la vigna; così fanno i buoi ed alla vigna e ad ogni albero da frutto se vi si lasciano appressare…. Insommma i bisogni che l’uomo si è fabbricati, anche i più semplici, rurali ed universali, e propri anche della gente più volgare e men guasta, si contraddicono, si nocciono scambievolmente; e la cura dell’uomo non dev’essere solo di procacciare il necessario a questi bisogni, con infiniti ostacoli, ma nel provvedere all’uno, guardare assai, perché quella provvisione nuoce ad un altro bisogno. E pure è certo che più facilmente potremo annoverare le arene del mare di quello che trovare una sola contraddizione in qualunque di quelle cose che la natura ha veramente e manifestamente resa necessaria, o destinata all’uso sì dell’uomo, come di qualunque animale, vegetabile ec. ”[43].
La gente comincia a capire quanto il “bisogno” dell’automobile sia in contraddizione con tanti aspetti e bisogni reali della vita umana, se non addirittura della vita del pianeta.
“Nei decenni del dopoguerra la macchina ci ha permesso di spostarci da soli e di scoprire nuovi paesaggi. Grazie ad essa, il nostro spazio è diventato infinitamente più vasto. L’atomobile certificava il nostro ingresso nella modernità, alla quale dovevamo questa mobilità più libera. Ma oltre a essere un simbolo di libertà, essa è diventata anche un’espressione della nostra identità. Non a caso, in quegli anni si insisteva molto sulla personalizzazione che aggiungeva un’impronta individuale a veicoli prodotti in serie. Nei confronti dell’automobile si creava una relazione molto affettiva, anche perché in quell’epoca un tale acquisto era sempre un avvenimento molto importante. …Tutto ciò oggi sta progressivamente svanendo. L’auto è vittima del suo stesso successo. Simbolo di una massificazione consumistica che ha fagocitato tutta la società, ha perso la sua poesia. E’ diventata un oggetto prosaico, un mezzo di trasporto per andare al lavoro lontano da casa, un universo angusto nella quale ci ritroviamo prigionieri, immobilizzati nel traffico. In coda in autostrada, è difficile coninuare a pensare l’auto come strumento di piacere o un mezzo di libertà… Di conseguenza, l’attuale crisi dell’auto diventa la metafora dell’insuccesso, se non proprio della società dei consumi, almeno di un certo sogno di equilibrio sociale, dove i beni di consumo dovevano essere a disposizione di tutti”[44].
La macchina non è un bene, non lo è più, anzi è diventato un male. Nella stessa pagina del quotidiano citato sopra è riportata una frase di Anthony Giddens: “La macchina è diventata controproducente, spesso la circolazione è ridotta all’immobilità” (L’Europa nell’era globale, 2007).

I padroni ora vogliono che la gente compri le cose necessarie e pure le non necessarie, anche se ha pochi soldi. Sto seguendo un corso di lingua anglo americana: trascrivo qui quanto leggo in un esercizio assegnatomi a casa sulla pubblicità (advertising). In other wordsThe methods they use to persuade us to buy. One of the most effective techniques is to manipulate, or control, our emotions. Advertiser call this an emotional appeal”, in altre parole… il metodo che essi usano per persuaderci a comprare. Una delle tecniche più efficaci sta nel manipolare o controllare le nostre emozioni. Il pubblicitario chiama questo un richiamo emozionale.
“Occorre ricordare che i consumatori sono spinti dal bisogno di “mercificare” se stessi-di rifarsi per essere prodotti attraenti-e sono quindi sollecitati a usare stratagemmi, espedienti e prassi di marketing collaudate…In una società di consumatori –un mondo che valuta tutti e tutto in base al valore di mercato-la sottoclasse è composta da chi è senza valore: uomini e donne non mercificati, il cui insuccesso nel conquistarsi lo status di merce coincide con il (anzi, deriva dal) loro insuccesso nell’impegnarsi in una vera e propria attività di consumo. Sono consumatori falliti, simboli ambulanti dei disastri che attendono i consumatori perduti, del destino ultimo di chiunque non riesca a dare buona prova nell’assolvere ai doveri di consumatore ”[45].
Il potere del mercato: “Quando un ministro degli Interni dichiara, ad esempio, che la nuova politica di immigrazione punterà a far entrare in Gran Bretagna un numero maggiore di individui “di cui il paese ha bisogno” e a lasciar fuori coloro “di cui il paese non ha alcun bisogno”, egli implicitamente dà al mercato il diritto di definire i “bisogni del paese” e di decidere di cosa (o di chi) esso abbia o non abbia bisogno”[46].






[1] 217 ca-145 a. C.
[2] Schol. B a Z 201.
[3] 35 ca-95 ca d. C.
[4] 1798-1837.
[5] T. Mann, La montagna incantata, II, p. 263.
[6] G. Steiner, Vere presenze, p. 151.
[7] Cicerone, De officiis, I, 48. All'uomo onesto non è consentito non contraccambiare.
[8] Qiu Xiaolong, Visto per Shangai, p. 150.
[9] I. Svevo, Una vita (del 1892), p. 71.
[10] In italiano anche nel testo originale di Der Zauberberg. Settembrini è un carducciano.
[11] T. Mann, La montagna incantata, II, pp. 148- 149.
[12] Cfr. cap. 46.
[13] T. Mann, La montagna incantata, II, p. 169.
[14] Saggi, p. 197.
[15] T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, Il giovane Giuseppe, p. 43.
[16] E. Morin, La testa ben fatta, p. 106.
[17] Scritti corsari, p. 258.
[18] La citazione mi è stata suggerita dalla relazione della collega Celentano al convegno di Lamezia Terme.
[19] Sermones, I, 9, 33-34.
[20] S. Natoli, Op. cit., p. 51.
[21] Giovanni di Stobi (Macedonia) V sec. d. C. Ha composto un’Antologia fatta di citazioni.
[22] Sono le prime parole de La Stoa di Pohlenz che si riferiscono a Teeteto, 155d.
[23] Metafisica, 982b.
[24] Musil, L’uomo senza qualità, p. 243.
[25] Guido Croci, Victor, p. 177.
[26] Zibaldone, 2246.
[27] Da hJduvnw, “condisco”.
[28] Pubblicitari.
[29] "Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca o un di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni, e quelli loro amori ricordonmi de' mia; godomi un pezzo in questo pensiero" Lettera di Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori (del 1513).
[30]Con i libri, p. 9.
[31]M. Bettini, op. cit., p. 10.
[32] 305 ca-240 ca a. C
[33] 518-438 a. C.
[34]Lettera a una professoressa, nota 56 di p. 69.
[35] Carlos Ruiz Zafòn, L'ombra del vento, p. 187.
[36] E a vanvera, come suggerisce la pubblicità.
[37] Pietro Citati, “la Repubblica”, 3 dicembre 2008, Addio consumismo, riscopriamo le cose, p. 35.
[38] 341-271 a. C.
[39] Tusculanae disputationes V, 33, 93. Vennero composte nel 45 e pubblicate nell 44. Sono cinque conversazioni, dedicate a Bruto, tenute nella villa di Tuscolo sul modo di raggiungere la felicità.
[40] Del 46 a. C.
[41] G. Verga, I Malavoglia (del 1881), p. 203.
[42] Ep. 94, 27.
[43] Leopardi, Zibaldone, 2338.
[44] Marc Augé, “la Repubblica”, 18 novembre 2008, p. 47.
[45] Z. Bauman, Consumo, dunque sono, p. 139 e p. 154.
[46] Z. Bauman, Consumo, dunque sono, p. 84

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