Bisogna spiegare
l’autore con l’autore stesso (cfr. Aristarco), e con altri (Quintiliano, Leopardi,
etc.)
Buona norma è
commentare i poeti con i poeti: il testo di un autore innanzitutto con altri
testi dello stesso autore, secondo il criterio del filologo Aristarco di
Samotracia[1]
per il quale bisogna spiegare Omero con Omero: “ {Omhron
ejx JJOmhvrou safhnivzein"[2];
poi vanno considerati i commenti degli autori ottimi agli autori precedenti. Si
possono utilizzare, per fare solo due esempi, Quintiliano[3]
e Leopardi[4]
come critici.
L’attenzione degli
studenti e la nostra sono entrambe dovute: “non reddere viro bono non licet”. Uno scrittore cinese. Alfonso
Nitti (Una vita di Svevo). La
componente affettiva: Settembrini e Naphta “i due avversari nello spirito”[5]. Montaigne e il dovere dell’ascolto. Paideia
si associa a eros: Morin, Pasolini. Il ciarliero non ascolta. Biasimo della
chiacchiera: Plutarco (De garrulitate),
Orazio e il garrulus malefico (Satira I, 9).
L'attenzione, ossia "la pietà naturale dell'anima"[6],
deve essere reciproca, e, da parte nostra, anche premurosa, incoraggiante, affettuosa:
" Non reddere viro bono non licet"[7].
Sentiamo anche uno scrittore cinese che ricorda un valore
“delle novelle di kung fu…Ad esempio lo yiqi: un codice etico di fratellanza, lealtà,
incentrato sull’obbligo dello scambio di favori”. Chi contraccambia deve dare
di più: “Mio padre era uno studioso di Confucio e mi ricordo ancora un vecchio
proverbio che mi ha insegnato: ‘Se qualcuno ti aiuta con una goccia d’acqua, ripagalo
scavando per lui una sorgente”[8].
A proposito dell’attenzione e dell’affetto di cui lo
studente ha bisogno, possiamo ascoltare Svevo sul fallimento pedagogico di
Alfonso Nitti: "Quello che ad Alfonso mancava per essere un buon insegnante
era la capacità di apprezzare come meritavano i piccoli sforzi della sua
scolara. Lodava di rado e soltanto quando, pentitosi di una parola brutale, voleva
risparmiarsi le lacrime che la fanciulla a stento ratteneva, ma mai per una
risposta quasi giusta. S'era fatto illusioni sulla sua vocazione
all'insegnamento e se gli piaceva d'insegnare non era per affetto allo scolaro.
I progressi di Lucia poco o nulla gli importavano. Si sentiva offeso che ella
non imparasse di più coi suoi insegnamenti e diveniva violento a sfogo di
giornate uggiose nelle quali aveva dovuto da subire lui le ire altrui" [9].
Il giovane dà grande importanza alla componente affettiva, alle
intenzioni di chi cerca di istruirlo. Ecco che cosa pensa Hans Castorp dei due
pedagoghi, Settembrini e Naphta, che si contendono la sua anima: “Ma vai un po’,
Satana pedagogico, con la tua ragione
e la tua ribellione![10]
D’altronde ti voglio bene. E’ vero che sei un chiacchierone pieno di frasi; ma
le tue intenzioni verso di me sono buone, e tu mi sei più caro del piccolo, acuto
Gesuita e terrorista, del difensore della tortura, con le sue lenti
lampeggianti, quantunque egli abbia quasi sempre ragione, quando
litigate…quando vi azzuffate pedagogicamente per la mia anima come nel medioevo
si azzuffavano per l’uomo, Dio e il diavolo”[11].
D’altra parte i due non vengono stimati, proprio per
l’eccesso di chiacchiera e per il fatto che erano entrambi umbratici doctores[12]: “Gli uomini del sole…nel mio intimo voglio
tenere dalla loro parte, non dalla parte di Naphta, d’altronde nemmeno da
quella di Settembrini, sono chiacchieroni tutti e due. L’uno è lussurioso e
maligno, l’altro non fa che soffiare nel fischietto della ragione e si immagina
perfino di poter fare rinsavire i pazzi: una cosa senza senso”[13].
Riguardo al precettore, Montaigne, dopo avere affermato di
preferirlo con la testa ben fatta piuttosto che ben piena, aggiunge: "Non
desidero che inventi e parli lui solo, desidero che ascolti il suo discepolo
parlare a sua volta. Socrate e in seguito Arcesilao facevano prima parlare i
loro discepoli, e poi parlavano loro"[14].
“I ragazzi non sono disattenti quando i maestri rimproverano
loro di esserlo; essi sono attenti invece ad altre cose, forse più essenziali
di quelle che possa desiderare la mentalità concreta dei loro educatori”[15].
Chi non ascolta, non ama e non è amato, mentre la paideia si
associa a eros: “Essa richiede ciò che nessun manuale spiega, ma che Platone
aveva già indicato come condizione indispensabile di ogni insegnamento: l’eros,
che è allo stesso tempo desiderio, piacere e amore, desiderio e piacere di
trasmettere amore per la conoscenza e amore per gli allievi…Là dove non c’è
amore, non ci sono che problemi di carriera, di retribuzione, di noia per
l’insegnamento”[16].
In Pasolini troviamo una versione radicale, e discutibile, di
questo eros pedagogico: “Inoltre, il libertinaggio non esclude affatto la
vocazione pedagogica. Socrate era
libertino: da Liside a Fedro, i suoi amori per i ragazzi sono stati
innumerevoli. Anzi, chi ama i ragazzi, non può che amare tutti i ragazzi (ed è questa, appunto, la ragione della sua
vocazione pedagogica) ”[17].
Vedremo (64. 1) che Nietzsche interpreta Socrate in tutt’altro modo.
I ragazzi, dopo qualche tempo, smettono di
ascoltare l'insegnante che non li ascolta. Fanno bene. Infatti chi non sa
ascoltare è assimilabile ai ciarlieri biasimati da Plutarco nel De
garrulitate: costoro, mentre vogliono essere amati, vengono odiati (filei'sqai boulovmenoi
misou'ntai 16, 510D) [18].
Il garrulus, il
loquax, il chiacchierone, afferma
scherzosamente Orazio, può uccidere con più alta probabilità di pur terribili
malattie: "hunc neque dira venena nec hosticus auferet ensis, /nec
laterum dolor aut tussis, nec tarda podagra;/garrulus hunc quando
consumet cumque: loquaces, /si sapiat, vitet, simul atque adoleverit aetas
"[19],
Questo né atroci veleni né spada nemica porterà via/né pleurite o tisi né la
podagra che attarda;/un chiacchierone questo una volta o l'altra lo finirà: i
ciarlieri/se ha giudizio, eviti, appena si sarà fatto adulto.
L’ascolto ha bisogno della parola e anche del silenzio.
“La parola risuona solo nel silenzio…La parola comunica se è
attesa, se non annulla l’ascolto…Si parla dei media, della televisione: capita
che la televisione annulli l’ascolto perché è implacabile, non fa ascoltare il
silenzio e quindi non può sorgere la domanda: “è vero?” In tal modo si sviluppa
la mimesi performativa per cui quella parola è sempre un ordine e non è mai una
verità, un sapere ascoltare, un sapersi ascoltare. Allora la comunicazione ha
bisogno dell’interrogazione, deve risuonare nel silenzio, perché solo nel
silenzio la parola può essere accolta come una semente e meditata, altrimenti
si vanifica in un brusio, in rumore”[20].
Sentiamo Stobeo[21]
che riferisce parole di Zenone Stoico: ” A uno che voleva chiacchierare (lalei`n) più che ascoltare, disse: “ragazzo,
la natura ci ha dotato di una sola lingua e di due orecchie, perché
ascoltassimo il doppio di quel che diciamo”.
43. Lo stupore si confà all’attenzione. Dal meravigliarsi nascono
la filosofia e la poesia. Aristotele.
Contro i filosofI: Socrate ricorda “l’antica ruggine” tra
poeti e filosofi. Musil e Leopardi.
La poesia: Sofocle (Filottete),
Pascoli Il fanciullino.
Le critiche anomale o eretiche vanno evidenziate, come
abbiamo fatto sopra, poichè possono suscitare lo stupore dei giovani, un
effetto che favorisce l'apprendimento, in quanto tiene desta l'attenzione. Lo
stupore si confà all'attenzione, e dal meravigliarsi nasce la filosofia: "Principio
di ogni filosofia è il meravigliarsi, dice Platone e deduce dal fatto che il
giovane Teeteto si meraviglia la sua attitudine al filosofare"[22].
Quindi Aristotele afferma che gli uomini hanno cominciato a fare filosofia, sia
ora sia in origine, a causa della meraviglia: "dia; ga;r to; qaumavzein oiJ a[nqrwpoi kai; nu'n kai; to; prw'ton
h[rxanto filosofei'n"[23].
Riportiamo allora il giudizio, sui filosofi, di uno
scrittore autorevole che suscita meraviglia per quanto è malevolo: “Egli non
era un filosofo. I filosofi sono dei violenti che non dispongono di un esercito
e perciò si impadroniscono del mondo rinchiudendolo in un sistema”[24].
Questa critica si può estendere, volendo, a tutti i maestri: “Se c’è sempre una
componente totalitaria in ogni atto educativo, per avere frequentato solo le scuole
medie inferiori ero rimasto un po’ selvaggio e ribelle”[25].
Leopardi afferma addirittura che la filosofia causò la fine
della grandezza di Roma: “Or bene che giovò a Roma la diffusione, l’introduzione
della virtù filosofica, e per principii? La distruzione della virtù operativa
ed efficace, e quindi della grandezza di Roma (11 Dicembre 1821) ”[26].
Nella Repubblica di Platone, Socrate
manifesta la sua diffidenza nei confronti di Omero e della poesia che non
consista in “inni agli dèi” ed “elogi dei buoni”, attaccando in particolare la
Musa drogata (th;n hjdusmevnhn[27] Mou`san, 607) dei canti lirici o epici che
insediano piacere e dolore nel trono della città. Poi però il filosofo abbozza
una scusa, dicendo che tra la poesia e la filosofia c’è un’antica ruggine (palaia; mevn ti~ diaforav, 607b) e cita alcuni sberleffi nei confronti della
seconda, probabilmente dedotte dai comici. Ne riporto una: “mevga~ ejn ajfrovnwn keneagorivasin”, grande nelle vuote ciance
degli stolti.
Del resto filosofia e poesia potrebbero essre sorelle: anche
la poesia nasce dalla meraviglia: nel primo Stasimo del Filottete il
Coro di marinai dice di essere preso da stupore (qau'ma
m j e[cei, v. 687) davanti all'uomo abbandonato nell'isola deserta: come
sostenne una vita piena di lacrime udendo in solitudine l'assalto dei flutti da
tutte le parti?
Ricordo anche la poetica di Pascoli il quale teorizza la
sussistenza del fanciullino-poeta, capace di meravigliarsi, nell'adulto
arrugginito: "Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi
accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua
antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa
sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello…Il poeta, e
e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il fanciullo
detta dentro, riesce ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio
familiare e umano" (Il fanciullino,
1897; 1902).
Lo studiato va messo
in relazione con il vissuto. Il mito e la pubblicità. Bettini: Aconzio e
Cidippe. Callimaco e Ovidio. Pindaro e le magliette. La pubblicità deve essere
smontata da un educatore. Don Milani. Carlos Ruiz Zafòn. Tucidide: gli uomini e
le cose. Citati: gli uomini devono trovare un giusto rapporto con le cose. Epicuro:
tra i desideri (tw'n ejpiqumiw'n) alcuni sono solo
naturali (fusikaiv), altri anche necessari (ajnagkai'ai). Altri sono
vani (kenaiv). Tutto ciò che è naturale richiede solo
quanto è facilmente procurabile (eujpovriston). Ciò che è vano invece è
difficile da procacciarsi: to; de; keno;n duspovriston. Cicerone: non esse emacem vectigal est. Cornelio
Nepote. I Malavoglia. Marziale. Leopardi:
bisogni reali e falsi bisogni di cose non necessarie in contraddizione tra loro.
La decadenza dell’automobile. La manipolazione e il controllo delle emozioni da
parte degli “advertisers”[28]. Il mercato decide quali sono i bisogni
della gente
Altra
raccomandazione didattica: lo studiato va messo in relazione con il
vissuto, perfino con il proprio vissuto[29],
pure a costo di cadere nell'aneddotico, poiché dobbiamo svelare ai giovani che
la cultura classica è comunque presente, viva e ci riguarda tutti. A questo
scopo sono utili le attualizzazioni del mito, come quella, per esempio, che fa
Bettini quando afferma che "anche i pubblicitari sono degli Aconzi"[30].
Il giovane Aconzio obbligò Cidippe, sul punto di maritarsi con un altro, a
sposare lui scrivendo delle parole: "La scrittura di Aconzio è il seme di
tutte le scritture astute, e l'unico modo per sottrarsi alla sua trappola
sarebbe quello di non leggerla. Ma è possibile?"[31].
Nella festa di Apollo a Delo Aconzio di Ceo si innamora di Cidippe di Nasso e
la vincola a sé gettandole un pomo su cui aveva scritto: “Lo giuro per Artemide:
io sposerò Aconzio”.
La storia è narrata anche da Ovidio nelle Heroides. Aconzio scrive a Cidippe e le
ricorda la “volubile malum-verba ferens
doctis insidiosa notis” (211-212), la mela che rotolava portando parole
insidiose in formule dotte. Queste furono lette nella sacra presenza di Diana e
la fides di Cidippe ne rimase vincta.
Cidippe risponde ad
Aconzio che sta morendo, si sente sballottata come una nave, ipsa velut navis iactor (v. 43), veneficiis tuis (54) per le tue parole
avvelenate. Ricorda che navigava verso Delo impaziente di arrivare. Aconzio ne
vide la semplicità e gli sembrò che potesse essere facile preda: “visaque simplicitas est mea posse capi”
(v. 106). Le viene gettata davanti ai piedi una mela con quei versi che Cidippe
non vuole ripetere “mittitur ante pedes
malum cum carmine tali ” (v. 109). La
nutrice raccolse l’ingannevole frutto e lo fece leggere alla ragazza: “insidias legi, magne poeta, tuas” (112).
Aconzio non deve essere fiero di avere preso con ‘inganno una puella parum prudens: “ sumque parum prudens capta puella dolis” (v. 124). E’ stata ingannana come
Atalanta da Ippòmene. Aconzio avrebbe dovuto convincerla more bonis solito (v. 129), come fanno i galantuomini, non
ingannarla costringendola a proferire sine
pectore vocem (143), una voce senza anima. Ora invece della fiaccola di
nozze “et face pro thalami fax mihi
mortis adest” (v. 174). “mirabar
quare tibi nomen Acontius esset” (v. 211), mi domandavo con stupore perché
ti chiamassi Aconzio (ajkovntion
significa dardo), ora lo so: “quod faciat
longe vulnus, acumen habes” (v. 212), hai una punta che provoca ferite
anche da lontano. La ragazza ferita sta morendo: “concidimus macie, color est sine sanguine, qualem/in pomo refero mente
fuisse tuo” (vv. 217-218), sono estenuata dalla magrezza, il colore è senza
sangue, quale, come ricordo, era il tuo pomo.
Il consumista in effetti si identifica con le cose che
compra, come l’idolatra biasimato nel Salmo della Bibbia: “: "Gli idoli
dei popoli sono argento e oro, opera delle mani dell'uomo. Hanno bocca e non
parlano; hanno occhi e non vedono; hanno orecchi e non odono; non c'è respiro
nella loro bocca. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi
confida" (Salmi, 135, 15-18).
La pubblicità in effetti recupera e utilizza tutto: non solo
il metodo di Aconzio, personaggio degli Aitia
di Callimaco[32],
ma anche le parole di Pindaro[33]:
c’è una réclame di magliette che traduce in francese la somma del
pensiero educativo del vate tebano: gevnoio
oi|o~ ejssiv" (Pitica II v. 72), diventa quello che sei.
La pubblicità può essere usata a sua volta come bersaglio o
idolo polemico. Per lo meno va smontata, come vanno smascherati i personaggi
che ne usano il linguaggio.
Questo collegamento incongruo della réclame con la
nobiltà del mito può essere controbilanciato con quanto scrive Don Milani: "la
pubblicità si chiama persuasione occulta quando convince i poveri che cose non
necessarie sono necessarie"[34].
"Il sistema migliore per rendere inoffensivi i poveri è
insegnare loro a imitare i ricchi"[35].
Si può pensare, per esempio, a indumenti dal prezzo
superfetato, oppure a qualche cosa di peggio in quanto oggetto ritenuto oramai
necessario: agli oltre quaranta milioni di cellulari presenti in Italia. Chi
scrive è fiero di non averne avuto mai nemmeno uno, poiché non vuole comprare cose
che non sono belle né suggerite da desideri naturali e necessari; inoltre non
desidera "parlare gratis"[36],
anzi, quando non parla con gli amici, con le persone care, tra i quali diversi
ex scolari, pretende di essere pagato per parlare.
Comunque non bisogna dimenticare quanto afferma il Pericle
di Tucidide: " non sono le cose che acquistano gli uomini ma gli uomini le
cose: "ouj ga;r tavde tou;"
a[ndra", ajll j oiJ a[ndre" tau'ta ktw'ntai" (Storie, I, 143, 5).
E' questa un’affermazione di
umanesimo che potrebbe essere impiegata come dichiarazione anticonsumistica
contro gli astuti consiglieri di acquisti che in realtà spingono gli uomini a
vendersi alle cose, o comunque a vendersi, e perfino a uccidere altri uomini, per
acquistare le cose.
Cose che, d’altra parte, perdono
ogni valore ai nostri occhi, dato il loro infiniyo proliferare.
“ Mi auguro che gli uomini
ritrovino un giusto rapporto con le cose, che abbiamo comprato, ingoiato, sciupato,
gettato con incredibile leggerezza per tanti anni. Oggi, sono troppe. Si
accumulano da tutte le parti… Abbiamo smarrito la sensazione di come è fatta
una cosa: del suo peso, del suo spessore, dei suoi colori, delle sue ombre, e
del valore simbolico che può avere nella nostra vita. Non le amiamo più. Non
possiamo amarle, visto che oggi sono diventate infinitamente sostituibili”[37].
Insomma la pubblicità e il
consumismo sono enormi idoli e bersagli polemici per l'educatore.
Si può aggiungere, utilizzando l' Epistola a Meneceo di
Epicuro[38],
che, tra i desideri (tw'n ejpiqumiw'n),
alcuni sono naturali (fusikaiv), altri
vani (kenaiv) e tra i naturali
alcuni sono anche necessari (ajnagkai'ai, 127)
; ebbene tutto ciò che è naturale è a portata di mano: "to; me;n fusiko;n pa'n eujpovristovn ejsti”
(130). Ciò che è vano invece è difficile da procacciarsi: to; de; keno;n duspovriston.
Leggiamolo anche nel latino di Cicerone: “Vides, credo, ut Epicurus cupididatum genera
diviserit, non nimis fortasse subtiliter, utiliter tamen: partim esse naturales
et necessarias, partim naturales et non necessarias, partim neutrum. Necessarias
satiari posse paene nihilo (divitias enim naturae esse parabiles) ”[39],
conosci, credo, come Epicuro abbia distinto le specie dei desideri, forse non
troppo precisamente, comunque in maniera utile: in parte sono naturali e
necessari, in parte naturali e non necessari, in parte né l’una né l’altra cosa.
I necessari si possono soddisfare quasi con nulla: infatti le ricchezze della
natura sono facili da procurarsi.
Abbiamo già detto (16. 7) che Alessandro Magno spogliandosi
per fare il bagno nel fiume Cidno era fiero di mostrare che si accontentava di
una cura del corpo semplice e facilmente procurabile
Nei classici insomma sono presenti problematiche e
situazioni eterne, e la cultura greco-latina che diviene un potenziamento della
fuvsi", ci aiuta a comprenderle.
Cicerone nei Paradoxa Stoicorum[40]
aveva scritto più sinteticamente: "non esse emacem vectigal est"
(VI, 51) non essere consumisti è una rendita. Cornelio Nepote, elogiando Tito
Pomponio Attico, scrive: “ cum esset
pecuniosus, nemo illo minus fuit emax, minus aedificator” (De viris illustribus, Atticus, 13), pur essendo ricco, nessuno
ebbe meno di lui la smania di comprare, né quella di fabbricare. “Più ricco è
in terra chi meno desidera” “Meglio contentarsi che lamentarsi”[41].
Seneca mette tra i precetti che non hanno bisogno di alcuna
dimostrazione (probatio) questa
sentenza di Catone il Censore: “emas non
quod opus est, sed quod necesse est; quod non opus est asse carum est”[42],
compra non quello che è utile, ma quello che è necessario; quello che è inutile,
è caro anche se costa un soldo.
Cleante a un tale che gli chiese come potrebbe uno essere
ricco, rispose se è povero di desideri (eij
tw`n ejpiqumiw`n ei[h pevnh~ (Stobeo, Flori. 95, 28 Mein.)
Sentiamo Marziale: “reges
et dominos habere debet/qui se non habet atque concupiscit/quod reges dominique
concupiscunt” (II, 68), deve avere re e padroni chi non è padrone di sé e
brama quello che re e padroni bramano.
Quindi Leopardi: “il capro nuoce anzi distrugge la vigna;
così fanno i buoi ed alla vigna e ad ogni albero da frutto se vi si lasciano
appressare…. Insommma i bisogni che l’uomo si è fabbricati, anche i più
semplici, rurali ed universali, e propri anche della gente più volgare e men
guasta, si contraddicono, si nocciono scambievolmente; e la cura dell’uomo non
dev’essere solo di procacciare il necessario a questi bisogni, con infiniti
ostacoli, ma nel provvedere all’uno, guardare assai, perché quella provvisione
nuoce ad un altro bisogno. E pure è certo che più facilmente potremo annoverare
le arene del mare di quello che trovare una sola contraddizione in qualunque di
quelle cose che la natura ha veramente e manifestamente resa necessaria, o
destinata all’uso sì dell’uomo, come di qualunque animale, vegetabile ec. ”[43].
La gente comincia a capire quanto il “bisogno”
dell’automobile sia in contraddizione con tanti aspetti e bisogni reali della
vita umana, se non addirittura della vita del pianeta.
“Nei decenni del dopoguerra la macchina ci ha permesso di
spostarci da soli e di scoprire nuovi paesaggi. Grazie ad essa, il nostro
spazio è diventato infinitamente più vasto. L’atomobile certificava il nostro
ingresso nella modernità, alla quale dovevamo questa mobilità più libera. Ma
oltre a essere un simbolo di libertà, essa è diventata anche un’espressione
della nostra identità. Non a caso, in quegli anni si insisteva molto sulla
personalizzazione che aggiungeva un’impronta individuale a veicoli prodotti in
serie. Nei confronti dell’automobile si creava una relazione molto affettiva, anche
perché in quell’epoca un tale acquisto era sempre un avvenimento molto
importante. …Tutto ciò oggi sta progressivamente svanendo. L’auto è vittima del
suo stesso successo. Simbolo di una massificazione consumistica che ha
fagocitato tutta la società, ha perso la sua poesia. E’ diventata un oggetto
prosaico, un mezzo di trasporto per andare al lavoro lontano da casa, un
universo angusto nella quale ci ritroviamo prigionieri, immobilizzati nel
traffico. In coda in autostrada, è difficile coninuare a pensare l’auto come
strumento di piacere o un mezzo di libertà… Di conseguenza, l’attuale crisi
dell’auto diventa la metafora dell’insuccesso, se non proprio della società dei
consumi, almeno di un certo sogno di equilibrio sociale, dove i beni di consumo
dovevano essere a disposizione di tutti”[44].
La macchina non è un bene, non lo è più, anzi è diventato un
male. Nella stessa pagina del quotidiano citato sopra è riportata una frase di
Anthony Giddens: “La macchina è diventata controproducente, spesso la
circolazione è ridotta all’immobilità” (L’Europa
nell’era globale, 2007).
I padroni ora vogliono che la gente compri le cose
necessarie e pure le non necessarie, anche se ha pochi soldi. Sto seguendo un
corso di lingua anglo americana: trascrivo qui quanto leggo in un esercizio
assegnatomi a casa sulla pubblicità (advertising).
“ In other words…The methods
they use to persuade us to buy. One of the most effective techniques is to
manipulate, or control, our emotions. Advertiser call this an emotional appeal”, in altre parole… il
metodo che essi usano per persuaderci a comprare. Una delle tecniche più
efficaci sta nel manipolare o controllare le nostre emozioni. Il pubblicitario
chiama questo un richiamo emozionale.
“Occorre ricordare che i consumatori sono spinti dal bisogno
di “mercificare” se stessi-di rifarsi per essere prodotti attraenti-e sono
quindi sollecitati a usare stratagemmi, espedienti e prassi di marketing
collaudate…In una società di consumatori –un mondo che valuta tutti e tutto in
base al valore di mercato-la sottoclasse è composta da chi è senza valore: uomini
e donne non mercificati, il cui insuccesso nel conquistarsi lo status di merce
coincide con il (anzi, deriva dal) loro insuccesso nell’impegnarsi in una vera
e propria attività di consumo. Sono consumatori
falliti, simboli ambulanti dei disastri che attendono i consumatori perduti,
del destino ultimo di chiunque non riesca a dare buona prova nell’assolvere ai
doveri di consumatore ”[45].
Il potere del mercato: “Quando un ministro degli Interni
dichiara, ad esempio, che la nuova politica di immigrazione punterà a far
entrare in Gran Bretagna un numero maggiore di individui “di cui il paese ha
bisogno” e a lasciar fuori coloro “di cui il paese non ha alcun bisogno”, egli
implicitamente dà al mercato il diritto di definire i “bisogni del paese” e di
decidere di cosa (o di chi) esso abbia o non abbia bisogno”[46].
[1]
217 ca-145 a. C.
[2] Schol. B a Z 201.
[3]
35 ca-95 ca d. C.
[4] 1798-1837.
[5]
T. Mann, La montagna incantata, II, p.
263.
[6] G. Steiner,
Vere presenze, p. 151.
[7]
Cicerone, De officiis, I, 48. All'uomo
onesto non è consentito non contraccambiare.
[8]
Qiu Xiaolong, Visto per Shangai, p. 150.
[9] I. Svevo, Una vita (del 1892), p. 71.
[10]
In italiano anche nel testo originale di Der
Zauberberg. Settembrini è un carducciano.
[11]
T. Mann, La montagna incantata, II, pp.
148- 149.
[12]
Cfr. cap. 46.
[13]
T. Mann, La montagna incantata, II, p.
169.
[14]
Saggi, p. 197.
[15]
T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, Il
giovane Giuseppe, p. 43.
[16]
E. Morin, La testa ben fatta, p. 106.
[17]
Scritti corsari, p. 258.
[18]
La citazione mi è stata suggerita dalla relazione della collega Celentano al
convegno di Lamezia Terme.
[19]
Sermones, I, 9, 33-34.
[20]
S. Natoli, Op. cit., p. 51.
[21]
Giovanni di Stobi (Macedonia) V sec. d. C. Ha composto un’Antologia fatta di
citazioni.
[22] Sono le prime parole de La Stoa di Pohlenz che si riferiscono a Teeteto, 155d.
[23] Metafisica, 982b.
[24]
Musil, L’uomo senza qualità, p. 243.
[25]
Guido Croci, Victor, p. 177.
[26]
Zibaldone, 2246.
[27]
Da hJduvnw, “condisco”.
[28]
Pubblicitari.
[29] "Ho un libro sotto, o Dante
o Petrarca o un di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili: leggo
quelle loro amorose passioni, e quelli loro amori ricordonmi de' mia; godomi un
pezzo in questo pensiero" Lettera di Niccolò Machiavelli a Francesco
Vettori (del 1513).
[30]Con
i libri, p. 9.
[31]M. Bettini, op. cit., p. 10.
[32]
305 ca-240 ca a. C
[33]
518-438 a. C.
[34]Lettera
a una professoressa,
nota 56 di p. 69.
[35]
Carlos Ruiz Zafòn, L'ombra del vento, p. 187.
[36]
E a vanvera, come suggerisce la pubblicità.
[37]
Pietro Citati, “la
Repubblica ”, 3 dicembre 2008, Addio consumismo, riscopriamo
le cose, p. 35.
[38]
341-271 a. C.
[39]
Tusculanae
disputationes V,
33, 93. Vennero composte nel 45 e pubblicate nell 44. Sono cinque conversazioni,
dedicate a Bruto, tenute nella villa di Tuscolo sul modo di raggiungere la
felicità.
[40]
Del 46 a. C.
[41]
G. Verga, I Malavoglia (del 1881), p.
203.
[42]
Ep. 94, 27.
[43]
Leopardi, Zibaldone, 2338.
[44]
Marc Augé, “la Repubblica ”,
18 novembre 2008, p. 47.
[45]
Z. Bauman, Consumo, dunque sono, p. 139
e p. 154.
[46]
Z. Bauman, Consumo, dunque sono, p. 84
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