Vittorio Alfieri |
Abbiamo menzionato
l’eterna borghesia. Vediamo allora che cosa è il borghese. Vittorio Alfieri: due
satire (La sesqui-plebe e Il commercio) e la Vita. Orazio e Parini: il mercante sensibile solo al guadagno che
Gozzano rivaluta. Schopenhauer, Wilde e i filistei, Hesse, T. Mann (Naphta), Pasolini
(il borghese è un vampiro), Marx, Huysmans, Don Milani, Magris, Seneca (Medea), Màrai e l’identità data dalla
roba. Socrate secondo Mazzarino
C’è una satira (la IV) di Vittorio Alfieri contro il ceto
medio che merita di essere letta. E’ l’antitesi della teoria della classe media
di Euripide[1].
La satira è preceduta da un’epigrafe tratta dal Persa di Plauto: si tratta di una
sequela di insulti lanciati dallo schiavo Tossilo contro il lenone Dordalo: “pecuniae accipiter avide atque invide, /procax,
rapax, trahax-trecentis versibus/tuas inpuritias transloqui nemo potest” (vv.
409-411), avvoltoio avido di denaro e invido, sfacciato, ladrone, rapace, nessuno
potrebbe raccontare le tue impudicizie nemmeno in trecento versi.
Alfieri li traduce così: “Aurivoro avvoltoio, invido ed
avido/di te audace furace rapace/annoverar le porcherie, né il ponno carmi
trecento.
LA SESQUI-PLEBE
1 Avvocati, e
Mercanti, e Scribi, e tutti
2 Voi, che appellarvi
osate il Ceto-medio,
3 Proverò siete il
Ceto de' più Brutti.
4 Nè con lunghe
parole accrescer tedio
5 Al buon Lettor per
dimostrarlo è d'uopo;
6 Che in sì schifoso
tema anch'io mi tedio. -
7 È ver, che molti
prima, e alquanti dopo
8 Di voi, nel gregge
social, si stanno:
9 Ma definisco io
l'uom dal di lui scopo.
10 Certo è, che il
vostro è di camparvi l'anno;
11 E d'impinguarvi
inoltre a più non posso,
12 Di chi v'è innanzi,
e di chi dietro, a danno.
13 Il Contadin, che
d'ogni Stato è l'osso,
14 Con la innocente
industre man si adopra
15 In lavori, che il
volto non fan rosso.
16 Il Grande, e il
Ricco, la cui man null'opra,
17 Spende il suo;
quindi agli altri egli non nuoce,
18 Ed è men sozzo
perch'ei già sta sopra.
19 Ma voi, cui
l'esser poveri pur cuoce,
20 E l'aratro
sdegnate, o ch'ei vi sdegna,
21 Bandita avete in
su l'altrui la croce.
22 Onde voi primi, alta
ragion m'insegna,
23 Ch'esser dobbiate
infra le classi umane,
24 Qualor sen fa
patibolar rassegna.
25 Le cittadine infamie
e le villane
26 Veggo in voi
germoglianti in fido innesto,
27 E in un de' Grandi
le rie voglie insane.
28 De' ceti tutti, i
vizi tutti; è questo
29 Il patrimonio
eccelso di vostr'arte;
30 Ma non di alcun
de' ceti aver l'onesto.
31 D'ogni Città voi
la più prava parte,
32 Rei disertor delle
paterne glebe,
33 Vi appello io
dunque in mie veraci carte,
34 Non Medio-ceto, no,
ma Sesqui-plebe.
La XII satira, Il
commercio, riprende il tema. Vediamone la conclusione.
154 In qualche error, ma sempre vario, impazza
155 Ogni età: Cambiatori,
e Finanzieri;
156 Gli Eroi son
questi, ch'oggi fa la Piazza:
157 Questi, in cifre
numeriche sì alteri,
158 Ad onta nostra, dall'età
future
159 Faran chiamarci i
Popoli dei Zeri.
160 Ma morranno anco
un dì queste imposture,
161 Come tant'altre
ch'estirpò l'Obblìo:
162 E si vedrà, basi
mal ferme e impure
163 Aver gli Stati, ove
il Commercio è Dio;
164 E tornerassi
svergognato all'Orco,
165 Donde, uccisor
d'ogni alto senso uscio,
166 Quest'obéso
impudente Idolo sporco.
Le satire furono scritte fra il 1786 e il 1797.
Vittorio Alfieri nella Vita[2]
racconta che un banchiere cui aveva regalato un cavallo di pregio, in Spagna, nel
1772, lo contraccambiò truffandolo attraverso una cambiale: “ Ma io non avea
neppur bisogno di aver provato questa cortesia banchieresca per fissare la mia
opinione su codesta classe di gente, che sempre mi è sembrata l’una delle più
vili e pessime del mondo sociale; e ciò tanto più, quanto essi si van
mascherando da signori, e mentre vi danno un lauto pranzo in casa loro per
fasto, vi spogliano per uso d’arte al loro banco; e sempre poi sono pronti ad
impinguarsi delle calamità pubbliche” (3, 12).
Il mercante, indocilis pauperiem pati, incapace di
accettare una condizione modesta, e antitetico al poeta, si trova nella prima
ode di Orazio (vv. 15-18) e nell'ode Alla Musa del Parini: "Te il mercadante che con
ciglio asciutto/fugge i figli e la moglie ovunque il chiama/dura avarizia nel
remoto flutto, /Musa, non ama" (vv. 1-4) Questa figura negativa del resto
trova una rivalutazione, sebbene velata di ironia, in Gozzano: "Oh! questa vita sterile, di sogno!/Meglio la vita
ruvida concreta/del buon mercante inteso alla moneta". [3]
Abbiamo già detto che Schopenhauer vede il borghese come
"l'uomo privo di ogni bisogno spirituale... è per l’appunto ciò che viene
chiamato…un filisteo. Costui è e rimane cioè l' a[mouso"
ajnhvr", ossia l'uomo estraneo alle muse (Parerga e Paralipomena, Tomo I, p. 462).
Oscar Wilde nel De
Profundis (del 1897) identifica il filisteo con il nemico della
spiritualità. Cristo “capì che gli uomini non dovevano prendere troppo sul
serio gli interessi materiali, quotidiani; che non essere pratici è una gran
cosa; e che non occorreva angustiarsi eccessivamente per gli affari…la guerra
più dura la muoveva ai filistei. La guerra che ogni figlio della luce deve
combattere. Tutti eran filistei nel tempo e nella comunità in cui viveva. Nella
loro cieca incapacità d’accogliere nuove idee, nella loro ottusa rispettabilità,
nella loro tediosa ortodossia, nel loro culto dei meschini successi, nel loro
preoccuparsi esclusivamente del lato grossolano, materiale dell’esistenza, nella
loro ridicola presunzione e vanagloria, gli ebrei di Gerusalemme al tempo di
Cristo corrispondevano esattamente ai nostri filistei britannici”[4].
H. Hesse in Il lupo della steppa definisce il borghese:
"una creatura di debole slancio vitale... l'assoluto gli è
intollerabile" (p. XVII).
Quando si esclude l’assoluto fiorisce la chiacchiera: “Perché
c'è soltanto un'antitesi assoluta all'assoluto e cioè la chiacchiera vana"[5].
In La montagna incantata di T. Mann ci sono
due personaggi che si contendono l’anima del giovane protagonista Hans Castorp.
Ebbene il quasi gesuita[6]
Naphta considera il rivale, l’umanista, “il signor Settembrini, il letterato…l'uomo
del progresso, del liberalismo, della rivoluzione borghese”. Ma “il progresso
era puro nichilismo ed il borghese liberale l’uomo del nulla e del diavolo. Anzi
egli negava Dio, l'Assoluto, per darsi in braccio al diabolico antiassoluto, e
nel suo pacifismo di morte si credeva chissà quanto devoto e pio"[7].
Questo grande libro di T. Mann, un “romanzo come architettura di idee”[8],
è una di quelle opere che i giovani dovrebbero legge per il loro arricchimento
mentale e per la loro educazione.
Torniamo a Pasolini e sentiamo un suo anatema contro la
cultura pragmatica che è poi quella borghese: “io per borghesia non intendo
tanto una classe sociale quanto una vera e propria malattia. Una malattia molto
contagiosa: tanto è vero che essa ha contagiato quasi tutti coloro che la
combattono: dagli operai settentrionali, agli operai immigrati dal Sud, ai
borghesi all’opposizione, ai “soli” (come son io). Il borghese - diciamolo
spiritosamente – è un vampiro, che non sta in pace finché non morde sul collo
la sua vittima per il puro, semplice e naturale gusto di vederla diventar
pallida, triste, brutta, devitalizzata, contorta, corrotta, inquieta, piena di
senso di colpa, calcolatrice, aggressiva, terroristica, come lui. [9]”
“Nessuna opera, di narrativa, di poesia, di filosofia che
conti può conciliarsi ideologicamente-per
la contradizion che nol consente-con il lettore medio borghese: ogni opera
di poesia è fondamentalmente innovativa, e quindi scandalosa. E il borghese
teme soprattutto, come la peste, l’innovazione e lo scandalo: egli è
conservatore quando non è reazionario. La poesia lo contraddice alle radici”[10].
Il borghese è pure il conformista, spesso razzista: “L’uomo
per vivere, ha bisogno di fondamenta sicure: di abitudini. Quando una di tali
abitudini scompare, un’altra ne prende il posto modellandosi sulla precedente, perché
ne prende la meccanica funzione di protezione contro il caos. Dai campi di
Buchenwald o di Dachau, il razzismo può giungere a dei fenomeni apparentemente
piccoli, ma fondamentalmente gravi, come l’assassinio di domenica sera”. Un
ladruncolo, tal “Moscucci Rossano” era stato ammazzato a Roma, in piazza Navona,
da “un idiota” che andava in giro armato di pistola. “Il razzismo, infatti, è
una meccanica: non gli importa l’oggetto. Che può essere sostituito con la
massima facilità. L’odio contro gli Ebrei può essere sostituito dall’odio
contro i Negri: l’importante è che ci sia una minoranza di persone, una
categoria, da odiare. In nome, naturalmente, della maggioranza, di coloro che sono tutti uguali fra loro,
la cui vita è regolata dalle stesse norme, i cui lineamenti finiscono per
assumere una analogia quasi fisica, ecc. ecc.: in nome del conformismo, insomma.
Sono certo che nella testa di quell’essere odioso che andava in giro armato di
pistola, i giovani ladruncoli del quartiere si erano inseriti in una idea
generalizzante di tipo razzistico. Il suo odio contro di loro era dunque, in
definitiva, una forma sia pur degenerata e particolare, di odio di classe… mi
interessano le “conferme” che l’assassino ha avuto della sua aberrazione
ideologica, del suo classismo razzista. Non c’è giornale italiano, anche il
meno borghese come impostazione politica, che in qualche modo non abbia la sua
pur minima parte di responsabilità. I giornali borghesi per autentico
conformismo borghese, quelli anti-borghesi per timore di andare contro quel
conformismo, ossia di urtare l’opinione pubblica-a cui tengono tanto-, non
hanno mai saputo o voluto dare una immagine esatta di persone come è stato
nella sua breve vita il povero Moscucci Rossano…Così anche i giornali dei
radicali o dei socialisti o dei comunisti quando parlano di persone come
Moscucci Rossano ne parlano come di tipi di una “razza” diversa, predestinati
al disprezzo, all’inesistenza, alla condanna morale. Persone prive di peso
umano. Di prestigio umano. Capri espiatori di una situazione umana infetta, di
una vita nazionale corrotta e ipocrita…Bisogna avere il coraggio di
scandalizzare. Non bisogna mai, per nessuna ragione di tattica o di compromesso,
adottare di fronte all’opinione pubblica, il suo punto di vista di perbenismo
borghese, non bisogna confondere la morale col moralismo conformista”[11].
La borghesia non lascia tra uomo e uomo "altro vincolo
che il nudo interesse, lo spietato pagamento in contanti. Essa ha affogato
nell'acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell'esaltazione
religiosa, dell'entusiasmo cavalleresco"[12].
“E che cosa d’altronde poteva esserci di comune tra lui e
quella borghesia che s’era fatta a poco a poco, profittando per arricchirsi di
tutti i disastri, suscitando catastrofi pur d’imporre il rispetto dei suoi
misfatti e delle sue ruberie…Autoritaria e sorniona, bassa e vigliacca, essa
infieriva senza pietà contro l’eterna necessaria sua vittima, il popolino, cui
pure aveva di sua mano tolta la museruola e che aveva appostato perché saltasse
alla gola delle vecchie caste…Conseguenza della sua salita al potere, era stata
la mortificazione di ogni intelligenza, la fine di ogni probità, la morte di
ogni arte. Gli artisti umiliati, s’eran buttati ginocchioni a divorar di baci i
fetidi piedi dei grandi sensali e dei vili satrapi, delle cui elemosine
campavano…. Era insomma la galera in grande dell’America trapiantata nel nostro
continente; era l’inguaribile incommensurabile pacchianeria del finanziere e
del nuovo arrivato che splendeva, abbietto sole, sulla città idolatra che
vomitava, ventre a terra, laidi cantici davanti all’empio tabernacolo delle
Banche”[13].
“Una classe che non ha esitato a scatenare il fascismo, il
razzismo, la guerra, la disoccupazione. Se occorresse “cambiare tutto perché
non cambi nulla” non esiterà a abbracciare il comunismo”[14].
“La vita borghese è micrologia, visione analitica e
riduttiva nella quale l'esistenza non fa più balenare un senso globale che la
illumini e le dia valore”[15].
La cultura pragmatica, che diventerà quella del borghese, arriva
a strumentalizzare tutto. Si pensi al secondo coro della Medea di Seneca che rimpiange, in dimetri anapestici, il tempo
della non strumentalizzazione degli astri.
"Alla breve presentazione dell'audacia del primo
navigatore segue la descrizione (vv. 309-317) del tempus precedente come
tempo di pura contemplazione o comunque di non strumentalizzazione del
cosmo-starei per dire dello spazio-da parte dell'uomo: “nondum quisquam sidera norat, /stellisque
quibus pingitur aether/non erat usus”[16].
Nessuno ancora conosceva i nomi degli astri né faceva uso delle stelle di cui è
dipinta la volta celeste.
Il fatto è che il borghese deve continuamente riaffermare e
rafforzare la propria identità attraverso la roba: “Il borghese deve affermare
quella che sarà la sua identità per tutta la vita. L’aristocratico si manifesta
per quello che è già al momento della nascita. Il borghese si sente costretto
ad accumulare, o quanto meno a salvaguardare”[17].
[1]
Cfr. G. Ghiselli, Medea, p. 124.
[2]
La prima stesura della Vita, datata
1790, comprende la prima parte. Alfieri continuò a comporre la propria
autobiografia fino alla morte, avvenuta nel 1803.
[3]
La signorina Felicita, vv. 301-303.
[4]
De Profundis in Wilde Opere, p. 737.
[5]S.
Kierkegaard, In vino veritas, p. 58.
[6] “Il signor Naphta non è padre. La malattia gli ha
impedito finora di diventarlo. Ma ha fatto il noviziato ed anche i primi
voti…Ma è un membro dell’Ordine. ”, T. Mann, La montagna incantata, II, p. 74. E’ Settembrini che parla.
[7] T. Mann, La
montagna incantata (del 1924), p. 201, II vol.
[8]
T. Mann, Saggio autobiografico in Thomas
Mann Nobiltà dello spirito e altri saggi, p. 1466.
[9]
P- P. Pasolini, Il caos, p. 39.
[10]
P. P. Pasolini, Le belle bandiere, p.
128,
[11]
P. P. Pasolini, Detesto chi gira con la pistola in tasca “Paese sera”, 14 marzo
1963 in
Pasolini Saggi sulla politica e sulla
società, p. 114
[12]
Manifesto
del partito comunista di
Marx-Engels, p. 59.
[13]
J. K. Huysmans, Controcorrente (del
1884) p. 218.
[14]
La frase fra virgolette è nel romanzo “Il Gattopardo”. La dice un principe
siciliano all’arrivo dei garibaldini (1860). Poi fa il garibaldino anche lui e
così non perde né i soldi né il potere. Scuola di Barbiana. Lettera a una professoressa, p. 74.
[15]
C. Magris, L’anello di Clarisse, p. 191
[16]
G. Biondi, Il mito argonautico nella Medea. Lo stile 'filosofico' del
drammatico Seneca, "Dioniso" 1981 p. 427. Sono citati i vv. 309-311
del secondo coro della Medea.
[17]
Sàndor Màrai, La donna giusta, p. 18.
[18]Il pensiero storico classico, I vol., p.
329. Sulla doppia dike di Eschilo torneremo al cap. 33.
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