Augusto |
Altri dubbi: I Romani,
gens togata, sono stati pacificatori
e civilizzatori, oppure ladroni del mondo? L’ultima età è quella dell’oro, oppure,
segnata com’è dall’avidità e dall’ambizione, è piuttosto simile a quella del
ferro? Risposte diverse: Virgilio (Eneide,
I, VI, VIII), Orazio (Carmen saeculare),
Ovidio (Ars amatoria e Metamorfosi con due posizioni
contrastanti), Petronio (Bellum civile),
Sallustio (De coniuratione Catilinae). Riferire il punto di vista
del nemico esterno che denuncia l’avidità dei Romani fa parte della “obiettività
epica” della storiografia precristiana: Tacito (Calgaco nell’Agricola) e Sallustio (Mitridate nelle Historiae). Limiti dell’obiettività
degli storiografi antichi. Tucidide (Cleone), Sallustio (i nobili romani), Tacito
(gli imperatori). Fine dell’obiettività: Paolo Orosio. Proclamazione di
imparzialità da parte di Tacito all’inizio delle Historiae e degli Annales.
Luciano: Come si deve scrivere la storia.
Foscolo e i Romani “ladroni del mondo”. Lucano e l’incipit della Pharsalia quale anti-Eneide. La distruzione dei grandi miti
augustei. Il gesto autodistruttivo del “popolo potente”, in sua victrici
conversum viscera dextrā (Pharsalia,
I, 3), corrisponde a quello di Agrippina negli Annales e di Giocasta nell’Oedipus
di Seneca.
Un altro giudizio
critico dissacratorio può essere quello dei Romani avidi ladroni del mondo, da
contrapporre all’interpretazione canonica, uscita dal circolo di Mecenate, dell'impero
pacificato da Augusto, latore di civiltà, giustizia, benessere.
Tale è il contenuto
della profezia di Anchise quando conclude la rassegna dei futuri eroi di Roma
nel canto dei morti dell’Eneide: "tu regere imperio populos, Romane, memento/ (haec tibi erunt artes) pacique
imponere morem, /parcere subiectis et debellare superbos" (Eneide, VI, 851-853), tu, Romano,
ricorda di guidare i popoli con il tuo impero (queste saranno le tue arti) e di
imporre una norma alla pace, risparmiare i sottomessi e ridurre all'obbedienza
i superbi[1].
Similmente Giove
nel I canto della stessa Eneide, parlando a Venere, preconizza un infinito
impero di pax e di fides favorito da lui
stesso e perfino da Giunone, che non sarà ostile ai Troiani: "imperium sine fine dedi. Quin aspera Iuno, /quae
mare nunc terrasque metu caelumque fatigat, /consilia in melius refert mecum
fovebit/Romanos rerum dominos gentemque togatam…aspera tum positis mitescent
saecula bellis/cana Fides et Vesta, Remo cum fratre Quirinus/iura dabunt; dirae
ferro et compagibus artis/claudentur Belli portae; Furor impius intus/saeva
sedens super arma et centum vinctus aëneis/post tergum nodis fremet horridus
ore cruento " (vv. 279-281 e
291-296), ho assegnato un impero senza fine. Anzi la dura Giunone che il mare
ora e le terre con la paura e il cielo tormenta, rinnoverà in meglio i progetti
e con me favorirà i Romani signori del mondo e la gente vestita di toga[2]…allora, deposte le guerre, diventeranno
miti le epoche feroci, e la Fede
veneranda, e Vesta, e, con il fratello Remo, Quirino daranno le leggi; le
atroci porte della guerra verranno chiuse con stretti serrami di ferro; l'empio
Furore dentro, seduto sopra le armi crudeli, e legato dietro la schiena con
cento nodi di bronzo, fremerà orribile nel volto insanguinato.
Nell' VIII canto Eneide
la decadenza delle età è collegata alla guerra e alla volontà di impossessarsi
delle ricchezze: "Aurea quae perhibent illo sub rege fuere/saecula: sic
placida populos in pace regebat, /deterior donec paulatim ac decŏlor[3]
aetas/et belli rabies et amor successit habendi " (VIII, 324-327), i
secoli d'oro di cui si narra furono sotto quel re[4]:
così reggeva i popoli in placida pace, finché un poco alla volta succedette
l'età scolorita e la furia di guerra, e l'amore del possesso.
L'età dell'oro ovviamente, secondo la profezia di Anchise, ritornerà
con Augusto: “ Augustus Caesar, Divi genus, aurea condet/saecula qui rursus
Latio regnata per arva Saturno quondam" (Eneide VI, vv. 792-793), Cesare Augusto stirpe divina, che
stabilirà di nuovo nel Lazio l'età dell'oro su cui regnò nei campi arati un
tempo Saturno.
Assai nota è la IV Bucolica[5]
dove viene annunciato una nuovo ciclo di età (saeclorum ordo, v. 5) coincidente
con la nascita di un puer (v. 8), il ritorno di Astrea, la vergine dea
della Giustizia (iam redit et Virgo, v. 6), dei Saturnia regna (v. 6), l’avvento di una nova
progenies, una razza nuova (v. 7) e il cambio che la gens aurea darà a quella ferrea
(v. 8 e v. 9). C'è dunque l'attesa della seconda età dell'oro, che giungerà
alla perfezione quando il misterioso puer sarà arrivato all'età virile: allora
ogni terra produrrà tutto da sola, senza subire violenza dall'uomo, le dure
querce suderanno roridi mieli, il mare sarà libero dalle navi, mentre gli
animali nocivi periranno, quelli utili verranno liberati, e, per quanto
riguarda la donna-madre ella dovrà sorridere al puer simbolo della
rinascita, chiunque egli sia. Infatti il bambino privato del sorriso dei
genitori non potrà mai raggiungere l'eccellenza.
Il poeta mette la
navigazione, con la guerra e l'agricoltura, tra le attività perfide e dure a
morire dell'età ferrea: anche quando l'uva penderà rossa dai rovi incolti e le
querce suderanno mieli rugiadosi "pauca tamen suberunt priscae vestigia
fraudis, /quae temptare Thetin ratibus, quae cingere muris/oppida, quae iubeant
telluri infindere sulcos" (vv. 31-33), tuttavia sotto resteranno poche
tracce dell'antica perfidia, quelle che spingono a tentare il mare con le navi,
a cingere di mura le fortezze, a scavare solchi nella terra.
Con l’affermarsi pieno dell’età aurea però la terra e gli
animali non subirànno più la violenza dell'uomo: "non rastros patietur humus, non vinea falcem, /robustus quoque iam
tauris iuga solvet arator ", (vv. 40-41), la terra non soffrirà i
rastrelli, né la vigna la falce, anche il robusto aratore scioglierà i tori dal
giogo.
Tale visione di
pace, come quella del Carmen seculare[6] di Orazio, è l'opposto dell'età del ferro
descritta da Ovidio[7] nel I libro delle Metamorfosi[8]. E' un’ età prossima alla nostra [9], un’età non più redimibile, quella
del male integrale, quando omne nefas, ogni empietà, irrompe nel genere
umano: "fugitque pudor verumque fidesque;/in quorum subiere locum
fraudesque dolusque/insidiaeque et vis et amor sceleratus habendi. /…effodiuntur
opes, inritamenta malorum/ iamque nocens ferrum ferroque nocentius aurum/
prodierat: prodit bellum, quod pugnat utroque, /sanguineaque manu crepitantia
concutit arma. / Vivitur ex rapto; non hospes ab hospite tutus, /non socer a
genero, fratrum quoque gratia rara est [10]. /Imminet
exitio vir coniugis, illa mariti;/lurida terribiles miscent aconita
novercae;/filius ante diem patrios inquirit in annos. /Victa iacet pietas, et
Virgo caede madentes, /ultima caelestum, terras Astraea reliquit" (I, 129-131
e 140-150) e fuggì il pudore la sincerità, la fiducia; e al posto di questi
valori subentrarono le frodi, gli inganni, le insidie e la violenza e l'amore
criminale del possesso…si estraggono dalla terra le ricchezze, stimolo dei
mali; e già il ferro funesto[11]
e, più funesto del ferro, l'oro[12]
era venuto alla luce: venne alla luce la guerra, che combatte con l'uno e con
l'altro, e con mano sanguinaria scuote ordigni che scoppiano. Si vive di
rapina; l'ospite non è al riparo dall'ospite, non il suocero dal genero, anche
l'accordo tra fratelli è poco frequente. Il marito minaccia di rovina la moglie,
questa il marito; mescolano squallide pozioni velenose le terrificanti
matrigne; il figlio scruta la morte anzi tempo negli anni del padre. Giace
sconfitta la pietas e la Vergine Astrèa, ultima dei celesti, ha lasciato le
terre sporche di strage.
Petronio nel Bellum civile[13] del Satyricon condanna
l'avidità insaziabile degli imperialisti con un giudizio morale: i Romani
avevano già occupato (globalizzato diremmo ora) il mondo e ancora non bastava: "orbem iam totum victor Romanus habebat, /qua
mare, qua terrae, qua sidus currit utrumque. /nec satiatus erat" (119, vv. 1-3), il Romano vincitore
possedeva già l'universo mondo, per dove si stende il mare, per dove le terre, per
dove corrono l'una e l'altra costellazione. E non era ancor sazio.
Sentiamo ancora il vecchio Eumolpo: "si quis sinus abditus ultra, /si qua foret tellus, quae fulvum mitteret
aurum, /hostis erat, fatisque in tristia bella paratis/quaerebantur opes" (119, vv. 4-7), se c'era qualche
golfo nascosto più in là, se qualche terra che esportasse biondo oro, era
nemica, e preparato a tristi guerre il destino, si cercavano le ricchezze.
Non è vero quanto
affermano in molti, ossia che questo poemetto si limita a riproporre il repertorio
mitologico virgiliano, né, tanto meno lo fa in maniera filogovernativa, anzi è
totale la condanna dell'imperialismo avido, oltre a quella, ancora più evidente,
del decadimento culturale.
Tale impianto non è
estraneo alla storiografia: si può pensare a Sallustio[14]: "primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi materies omnium
malorum fuere " (De coniuratione
Catilinae[15], 10) prima
crebbe la brama del denaro, poi quella dell'impero, ed esse furono per così
dire l'esca di tutti i mali[16].
Ma la condanna più celebre[17] dell’imperialismo romano è il discorso di
Calgaco, il capo dei Caledoni ribelli, ricostruito nell'Agricola[18] di Tacito: " Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus
defuere terrae, mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi,
quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari
adfectu concupiscunt. Auferre
trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem
appellant " (30), ladroni del mondo, dopo che alle loro
devastazioni totali vennero meno le terre, frugano il mare: se il nemico è
ricco, avidi, se povero, tracotanti, essi che né l'Oriente né l'Occidente
potrebbe saziare: soli tra tutti bramano i mezzi e la loro mancanza con pari
passione. Rubare, massacrare, rapire con nome falso chiamano impero e dove
fanno il deserto lo chiamano pace.
Non dice meno
sull’avidità dei colonizzatori romani il Mitridate di Sallustio che nelle Historiae[19], scrive al re dei Parti Arsace una lettera[20]
anti-imperialista: "Namque Romanis
cum nationibus populis regibus cunctis una et ea vetus causa bellandi est, cupido
profunda imperi et divitiarum " (Epistula
Mithridatis, 2), infatti i Romani hanno un solo e oramai vecchio e famoso
motivo di fare guerra a nazioni, popoli, re tutti: una brama senza fondo di
dominio e di ricchezze. Quindi aggiunge: " an ignoras Romanos, postquam ad Occidentem pergentibus, finem Oceanus
fecit, arma huc convortisse? neque quicquam a principio nisi raptum habere, domum
coniuges, agros imperium?" (4),
come, non sai che i Romani dopo che l'Oceano ha posto termine alla loro marcia
verso Occidente, hanno rivolto le armi da questa parte? E che fin dal principio
non hanno nulla, patria, mogli, terra, potenza, se non frutto di rapina?
Il fatto di riferire il punto di vista del nemico o di raccontarne le
gesta non senza ammirazione è presente nell’opera di Erodoto[21],
il padre della storia, e testimonia l'obiettività "epica" degli
storiografi greci e latini. Già Omero
raccontava le gesta eroiche non solo dei Greci ma anche dei Troiani. Si ricordi che nella storiografia questa
obiettività riguarda soltanto il nemico esterno: “ Tucidide riesce
ad essere "obiettivo", ed anzi entusiasta, quando rievoca od esalta
l'opera di Brasida. Ma non può perdonare Cleone"[22],
Altrettanto vale per Tacito che è
obiettivo con Calgaco ma non con Tiberio, e per Sallustio, obiettivo con
Mitridate ma non con i nobili romani. L’obiettività sparisce del tutto nel V
secolo d. C. con la storiografia cristiana di Paolo Orosio: si consideri il titolo
programmatico delle sue Historiae adversus paganos, in sette
libri che abbracciano la storia dell’umanità dalle origini al 417 d. C.
L’imparzialità viene proclamata da Tacito, all’inizio delle Historiae: “incorruptam fidem professis neque amore quisquam et sine odio dicendus
est” (I, 1), chi fa professione di veridicità inconcussa deve esprimersi su
ciascuno mettendo da parte l’amore e senza odio.
Quindi nel primo capitolo degli Annales dove l’autore dichiara che partirà dagli ultimi anni del
principato di Augusto, poi procederà raccontando di Tiberio e dei successori sine ira et studio quorum causas procul
habeo (I, 1) senza risentimento e partigianeria, di cui tengo lontani i
motivi.
Luciano ribadisce la norma dell’imparzialità dello storico: “Toiou'to~ ou\n moi oJ suggrafeu;~ e[stw, a[fobo~,
ajdevkasto~, ejleuvqero~, parrhsiva~ kai; ajlhqeiva~ fivlo~…ouj mivsei oujde; filiva/ ti nevmwn oujde; feidovmeno~ h] ejlew'n h] aijscunovmeno~
h] duswpouvmeno~, i[so~ dikasthv~…xevno~
ejn toi'~ biblivoi~ kai; a[poli~, aujtovnomo~, ajbasivleuto~, ouj tiv tw'/de h]
tw'/de dovxei logizovmeno~, ajlla; tiv pevpraktai levgwn. J O d j ou\n
Qoukidivdh~ eu\ mavla tou't j ejnomoqevthse kai; dievkrinen ajreth;n kai;
kakivan suggrafikhvn…[23]”,
tale dunque deve essere il mio storiografo, impavido, incorruttibile, libero, amico
della libertà di parola e della verità…un uomo che non attribuisce per amicizia
e non lesina per odio, o uno che prova compassione o vergogna, o si lascia
intimorire, giudice imparziale…straniero nei suoi libri e senza patria, indipendente,
non sottoposto al potere, uno che non tiene in alcun conto di cosa sembrerà a
questo o a quello, ma che racconta i fatti. Tucidide dunque legiferò molto bene
e distinse la buona dalla cattiva storiografia.
Luciano prosegue ricordando il capitolo metodologico delle Storie di Tucidide (I, 22) nel quale
l’autore afferma di avere scritto con la sua opera un acquisto per l’eternità, piuttosto
che un saggio di bravura per il presente e di non accogliere come ospite il
mito (mh; to; muqw'de~ ajspavzesqai),
ma di lasciare ai posteri la verità dei fatti avvenuti[24].
“All’ideale storiografico della seconda sofistica Luciano
oppone un ideale che ad un epoca malata non dice alcunché, l’ideale
dell’obiettività pura; questa poteva avere un senso all’epoca di Tucidide, ma
non aveva senso in un periodo che nella imitazione paludata cercava di
nascondere la minaccia di una dissoluzione delle forme antiche”[25].
La condanna
dell'imperialismo romano ha un seguito nelle Ultime lettere di Iacopo Ortis: "vi furono de' popoli che per non obbedire a' Romani ladroni del
mondo, diedero all'incendio le loro case, le loro mogli, i loro figli e sé
medesimi, sotterrando fra le gloriose ruine e le ceneri della loro patria la
loro sacra indipendenza"[26]. E più avanti: " quando i
Romani rapinavano il mondo, cercavano oltre i mari e i deserti nuovi imperi da
devastare, manomettevano gl' Iddii de' vinti, incatenavano principi e popoli
liberissimi, finché non trovando più dove insanguinare i loro ferri li
ritorceano contro le proprie viscere"[27].
Quest’ultimo gesto ricorda la fine di Giocasta nell’Oedipus (vv. 1038-1039) di Seneca, o
quella di Agrippina negli Annales di
Tacito (XIV, 8) e rappresenta la tendenza autodistruttiva di Roma intera
durante la guerra intestina: nei primi versi della Pharsalia Lucano, annuncia
che comincia a cantare (canimus): "bella…plus
quam civilia…iusque datum sceleri…populumque potentem/in sua victrici conversum
viscera dextra " (Pharsalia,
I, vv. 1-3), guerre più che civili e il diritto dato al delitto e il popolo
potente girato con la destra vincitrice dentro le sue viscere. E’ una specie di
anti-Eneide.
“Il poema di Lucano è qualcosa di più che l’ulteriore e più
chiara prova del fallimento dell’equilibrio tentato da Seneca: è la distruzione
dei grandi miti augustei: funzione provvidenziale dell’impero, certezza del suo
risanamento e della sua eternità, alone soteriologico del principe, ritorno
all’età aurea ecc. ”[28].
[1] Questi sono i popoli riottosi degli “Stati canaglia”
dell’epoca.
[2] La toga è la
divisa del romano in pace, è "quell'indumento così fortemente marcato, dal
punto di vista dell'identità e dell' "appartenenza" romana, da
costituire una vera e propria "uniforme de la citoyennetè" (F.
Dupont, La vie quotidienne du citoyen romain sous la république, Hachette,
Paris, 1989, p. 290.). La toga
costruisce il corpo del cittadino alla maniera di una veste rituale…"
M. Bettini, Le orecchie di Hermes, p. 345.
[3] Nell’Oedipus
di Seneca la Tebe
ammorbata dagli scelera del re è
colpita dall’aridità, dalla siccità e pure dallo scolorimento che significano
sterilità e morte: "Deseruit
amnes humor atque herbas color, /aretque Dirces; tenuis Ismenos fluit, /et
tingit inǒpi nuda vix undā vada " (Oedipus, vv. 41-43), l'acqua
ha lasciato i fiumi e il colore le erbe, è disseccata Dirce; l'Ismeno scorre
vuoto, e con la povera onda bagna a stento i guadi nudi. La malattia toglie
umore e colore alla vita prima di annientarla: "Il sole della peste
stingeva tutti i colori e fugava ogni gioia" A. Camus, La peste, p.
87.
[4]
Saturno (cfr. redeunt Saturnia regna
di Bucolica IV, v. 6) che diede alla
terra dove si era rifugiato il nome di Latium, "his quoniam
latuisset tutus in oris " (Eneide,
8, v. 323), poiché era rimasto latitante sicuro in queste contrade.
[5]
Scritta nel 40 a. C., l’anno del consolato di Asinio Pollione. Il puer potrebbe essere suo figlio, oppure
l’auspicato figlio di Antonio e Ottavia, sorella di Ottaviano, i quali si
sposarono per sancire l’accordo di Brindisi in quell’anno. Poi nacque una
bambina.
[6]
Cfr. 13. 2 e 39. 1.
[7]
Vedi anche 13. 2.
[8]
Poema epico di quindici libri in esametri. Narra la storia del mondo
dall'origine all'età contemporanea attraverso racconti che hanno in comune il
tema della metamorfosi. Fu composto fra l'1 e l'8 d. C.
[9]
“L’età ferrea non siamo noi, data che questa umanità sarà poi cancellata dal
diluvio (cfr. v. 188: diversamente Esiodo, Op.
175). L’effetto di romanizzazione è accompagnato dall’eco di un passo del carme
64 di Catullo (397 sgg.) sulla decadenza che segue all’età eroica e da echi più
generici della tematica delle guerre civili e delle proscrizioni a Roma. I
tempi narrativi accompagnano questa illusione di “presentizzazione” del mito, dato
che a partire dal v. 140 una sequenza di perfetti e piuccheperfetti cede il
passo a un blocco di verbi al presente; cfr. Landolfi 1996, pp. 84 e 88 sg. Nonostante
tutti questi indizi concomitanti, il poeta non dice, come Esiodo, di vivere
nell’età ferrea, mentre più tardi ammetterà di essere parte della razza
“pietrosa”, iniziata dopo il diluvio (cfr. v. 414 sg.) ”, Alessandro Barchiesi
(a cura di) Ovidio Metamorfosi, volume
I, p. 172. Noi siamo un genus durum
experiensque laborum, una razza dura e rotta alle fatiche, in quanto nati
dalle pietre lanciate da Deucalione e Pirra (Ovidio, Metamorfosi, I, 411-415). In questo modo i due vecchi “non
sostenendo, come erano sconfortati e disdegnosi della vita, di dare opera alla
generazione… restaurarono la specie umana” (Leopardi, Storia del genere umano).
[10] Lucrezio
afferma che gli uomini, credendo di sfuggire al terrore della morte, gonfiano
gli averi col sangue civile, e ammassano avidi le ricchezze, accumulando strage
su strage, godono crudeli dei tristi lutti fraterni, e odiano e temono le mense dei consanguinei "et consanguineum mensas odere timentque
" (De rerum natura, III, 73).
[11]E'
un topos antitecnologico che risale a Erodoto: " ejpi; kakw'/ ajnqrwvpou sivdhro"
ajneuvrhtai, (Storie,
I, 68), il ferro fu scoperto per
il male dell'uomo. Euripide nelle Fenicie attribuisce alla strage un cuore di
ferro: "sidarovfrwn…fovno"
" (vv. 672-673). Del resto, anche il ferro, come l’oro e altri metalli può
avere significati diversi, persino contrastanti: “nos e terrae cavernis ferrum elicimus, rem ad colendos agros
necessariam, nos aeris argenti, auri venas penitus abditas invenimus et ad usum
aptas et ad ornatum decoras” (Cicerone, De
natura deorum, 2, 151), noi estraiamo dalle cavità sotterranee il ferro, attrezzo
necessario per coltivare i campi, noi troviamo vene di bronzo, d’argento, di
oro nascoste in profondità appropriate per l’uso e confacenti all’abbellimento.
[12]
Si può pensare a quello nero: il petrolio per il quale si è versato tanto
sangue. Che il ferro e l'oro creino discordia tra gli uomini portando
differenziazioni economiche e sociali lo afferma anche Platone nelle Leggi (679b).
[13]
Un carme di 295 esametri sulla guerra
civile tra Cesare e Pompeo recitato da Eumolpo sulla via per Crotone.
[14]
86-35 a. C.
[15]
Del 42 a. C.
[16] Più avanti (cap. 48) vedremo che la causa principale
del dilagare dei vizi fu la fine del metus
hostilis coincidente con la distruzione di Cartagine (146 a. C.).
[17]
L’ultima frase era uno slogan per noi studenti del ’68.
[18]
Del 98 d. C.
[19]
Le quali prendevano in esame il periodo 78-67 a. C. Furono composte fra il 40 e
il 35. Ci sono giunti solo dei frammenti.
[20]
Dovrebbe risalire al 68 a. C.
[21]
Il quale indicava sia gli Elleni sia i barbari quali agonisti della grande
guerra e autori delle opere grandi e meravigliose, il cui racconto darà
visibilità e gloria tanto ai vincitori quanto ai vinti
[22]
S. Mazzarino, Il Pensiero Storico
Classico, p. 250 I vol.
[23] Come si deve
scrivere la storia, 41-42. Il trattatello è del 164 d. C.
[24]
Come si deve scrivere la storia, 42.
[25]
S. Mazzarino, L’impero romano, 2, p. 331.
[26]
28 ottobre 17 97.
[27]
Ventimiglia, 19 e 20 febbraro.
[28]
A. La Penna, Aspetti del pensiero storico
latino, p. 24.
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