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martedì 29 marzo 2016

Callimaco. Parte III

Cirene

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Abbiamo visto che Callimaco, autore di un'arte ironica e allusiva, imita molto, con un'imitazione del resto sempre evidenziata: "non ut lateat imitatio, sed ut pateat ", non perché rimanga nascosta l'imitazione, ma perché sia evidente, e significhi amore e fede, se non altro, per la tradizione letteraria.
D'altra parte il poeta di Cirene è stato anche oggetto di ammirazione  imitazione e traduzione: da Catullo, al Pope di Il ricciolo rapito (1712), al Foscolo che volgarizza la versione latina del La chioma di Berenice .

La vicenda del ricciolo sparito era la conclusione degli Aitia : Callimaco, con grazioso omaggio cortigianesco e raffinata perizia letteraria, canta l'assunzione in cielo della ciocca di capelli offerta da Berenice  perché suo marito, Tolomeo III Evergete, tornasse salvo e vittorioso da una spedizione militare contro Seleuco II di Siria (anno 246). Già l'astronomo di corte Conone aveva riconosciuto il ricciolo sparito dal tempio di Arsinoe Zefirite in una nuova costellazione da lui scoperta tra l'Orsa maggiore e la Vergine; ebbene il poeta diede il proprio contributo all'apoteosi della chioma regale con i distici che fanno parlare gli stessi capelli "incielati". Il testo è troppo mutilo per consentirci una traduzione letterale; i versi più chiari e interessanti sono quelli con i quali  il ricciolo ricorda la potenza ineluttabile del ferro che scavò il monte Athos per consentire il passaggio delle navi di Serse, quindi lamenta la crudeltà di questo metallo trovato dalla stirpe maledetta dei Calibi[1], in quanto l'ha  staccato dal capo augusto della regina la cui lontananza è dolorosa più di quanto sia motivo di piacere e di orgoglio trovarsi tra gli astri.
Anche Catullo nel carme 66 fa parlare la capigliatura (caesaries ) con note di rimpianto: "invita, o regina, tuo de vertice cessi ,/invita ", contro voglia o regina mi sono allontanata dal tuo capo, contro voglia, le fa dire, con un verso (39) che verrà in gran parte utilizzato anche da Virgilio (Eneide , VI, 460) a proposito della partenza quasi coatta di Enea dal lido cartaginese:"invitus, regina, tuo de litore cessi ", contro voglia o regina mi allontanai dalla tua costa. Così tenta di giustificarsi il pio eroe con l'ombra dell'amante ammazzatasi dopo la fuga delle navi troiane. Come si vede parole quasi identiche servono per un'adulazione cortigiana e per un estremo, accorato addio all'ombra di una persona morta.
Per quanto riguarda la forza  non resistibile del ferro che scava canali tra i monti, Catullo scrive (66, vv.45-47):
"cum Medi peperere novum mare, cumque iuventus
per medium classi barbara navit Athon.
Quid facient crines, cum ferro talia cedant? ",
 quando i Persiani crearono un nuovo mare, e quando la gioventù barbarica navigò con la flotta in mezzo all'Athos. Cosa possono fare i capelli, quando tali monti cedono al ferro?
 Il poeta latino inserisce dieci versi (79-88) che esaltano la fedeltà della sposa e biasimano l'adulterio: la chioma della regina bella e casta non accetta i doni votivi portati da mogli infedeli:
"namque ego ab indignis praemia nulla peto "(v.86), infatti dalle indegne io non desidero offerte.
Sappiamo quanto a Catullo stesse a cuore la fides di Lesbia e come solo nell'imminenza della propria morte poté rinunciarvi
"non iam illud quaero, contra me ut diligat illa,
aut (quod non potis est) esse pudica velit;
ipse valere opto et taetrum hunc deponere morbum "(76, 23-26):, non chiedo più quella grazia famosa, che quella là contraccambi il mio affetto,o (cosa di cui non è capace) che voglia essere pudica; io desidero stare bene e mettere via questo male oscuro.
Callimaco trattò vari generi letterari e per questo venne accusato dai detrattori.
 Nell'episodio di Aconzio e Cidippe , una famosissima storia d'amore compresa nel terzo libro degli Aitia, poi imitata da Ovidio nelle Heroides  (XXI lettera: Cidippe ad Aconzio) il poeta di Cirene afferma che l'ampiezza e la varietà del conoscere è un bene soltanto se conferisce a chi lo possiede e lo usa la capacità di padroneggiare la lingua:
" il molto sapere è un grave male, per chiunque non è padrone
della lingua: è proprio come per un bambino avere un coltello"(fr.75 Pf, vv. 8-9).
Il sapere che non è sapienza è un celebre verso delle Baccanti :"to; sofo;n d&ouj sofiva"(395).
E immediatamente dopo, per variare la serietà dell'argomento con una nota tragicomica, ricorda che all'alba stava stringendosi il cuore ai buoi del sacrificio che vedevano i coltelli riflessi nell'acqua.
Se la poluidreivh , il molto sapere, può essere un male, la polueivdeia, la varietà nell'uso dei generi letterari praticata dal poeta viene difesa nell'ultimo Giambo , il tredicesimo,  con l'osservazione che nessuno biasima l'artefice se fa vasi di molte specie. Il Giambo più noto però è il quarto, quello chiamato "dell'ulivo e dell'alloro", dove i due alberi si cimentano in una contesa che vede prevalere l'utilità e l'umiltà del primo sulla pretenziosità del secondo il quale viene ridicolizzata dall'ironia del poeta.
L’alloro (davfnh) rivendica la sua sacra presenza a Delfi, in quanto albero amato da Apollo. Spregia l’olivo la cui foglie hanno un lato bianco wJ~ udrou gasthvr, come ventre di biscia (IV, 22) e uno arso dal sole (hJlioplhvx).

Cfr. Giacomo Zanella (1820-1888) Alloro-Vite
Odio l’allor, che quando alla foresta
Le nuovissime fronde invola il verno,
avviluppato nell’intatta vesta
verdeggia eterno,
pompa de’ colli; ma la sua verzura
gioia non reca all’augellin digiuno;
ché la splendida bacca invan matura
non coglie alcuno.
Te, poverella vite, amo, che quando
Fiedon le nevi i prossimi arboscelli,
tenera l’altrui duol commiserando
sciogli i capelli.
Tu piangi, derelitta, a capo chino
Sulla ventosa balza. In chiuso loco
Gaio frattanto il vecchierel vicino
Si asside al foco,
Tien colmo il nappo: il tuo licor gli cade
Nell’ondeggiar del cubito sul mento;
poscia floridi paschi ed auree biade
sogna contento”.

I Giambi di Callimaco  non presentano la consueta aggressività del metro e possono essere ascritti al nuovo genere spoudogevloion, seriocomico, del quale troviamo già un esempio nell'Alcesti  di Euripide.
Indubbiamente a Callimaco l'argomento e il genere letterario interessano meno della forma che deve dare una giustificazione estetica a qualsiasi contenuto. Questo infatti può essere di ambientazione cortigiana come abbiamo visto, ma anche semplice e umile  quale troviamo nell'epillio in esametri Ecale  dove si racconta come Teseo, la notte prima della lotta contro il toro di Maratona venne ospitato dalla vecchina Ecale in una casetta rustica con cibo campagnolo. Il quadretto agreste, un poco di maniera, viene rifinito in tutti i particolari. Anche questo epillio  includeva  un aition (origine), in quanto Teseo al ritorno dallo scontro con il toro  trovava la vecchietta morta e istituiva in suo onore le Ecalesie, gare di corsa, poi fondava il santuario di Zeus Ecalio.
Un'imitazione di questo poemetto si trova nell'episodio di Filemone e Bauci delle Metamorfosi  di Ovidio (VIII, 625-723).
Leopardi utilizza un’espressione dell’Ecale (fr. 74, 26-27): a[xwn-tetrigw;~ uJp j a[maxan (l’asse che stride sotto ei carro-e sveglia chi abita sulla strada) in La quiete dopo la tempesta: “il carro stride-del passeggier che il suo cammin ripiglia” (23-24)

Un'anticipazione dell’ interesse per la vita degli anziani umili si trova nell'Ifigenia in Aulide  di Euripide (del 405) quando il grande capo Agamennone dice a un vecchio servitore: "Ti invidio, vecchio,/invidio tra gli uomini chi passa/una vita senza pericoli, ignoto, oscuro;/quelli che vivono tra gli onori li invidio meno"(vv. 17-19). Questi versi, pur poco curati formalmente, prefigurano già il "vivi appartato" di Epicuro e in generale  il disimpegno politico dell'intellettuale nella civiltà ellenistica.
Del resto l'invidia del potente per l'umile si ritrova parecchi secoli più tardi in  Guerra e Pace (p. 577):"-Discutiamo pure-, disse il principe Andrej.-Tu parli di scuole-, continuò, e piegava un dito.-Parli di istruzione, eccetera. Cioè vuoi togliere lui,-disse, indicando un contadino che passava davanti a loro levandosi il berretto-, dalla sua condizione d'animale e renderlo consapevole di esigenze morali, mentre a me sembra che l'unica felicità possibile sia la felicità animale...Io lo invidio e tu vuoi farlo diventare come me...".



continua 


[1] Cfr. la maledizione del ferro fatta da Erodoto (I, 68, 4): il ferro è stato inventato per il male dell'uomo :" ejpi; kakw'/ ajnqrwvpou sivdhro" ajneuvrhtai".

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