Οι Ερινύες |
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All’inizio del secondo episodio
delle Eumenidi (vv. 397-488)
Atena affronta le Erinni quali orrende
figure emerse da un'antichità remota:
"non siete simili a nessuna
stirpe dei seminati, né siete mai state viste tra le dèe dagli dèi
"(410-411). Tali creature dunque fanno paura, non solo perché crudeli, ma
anche come entità diverse, tanto dagli uomini quanto dai numi.
La corifèa risponde rivendicando tale
diversità:
"noi
siamo le figlie della notte eterna e Maledizioni siamo chiamate nelle dimore
della terra"(vv.416-417). Davanti a una dèa che riconosce valore soltanto
al mondo della luce e della coscienza chiara, le Erinni affermano il proprio
diritto a sopravvivere; un poco come faranno il Romanticismo con l'Illuminismo,
e il Decadentismo con il Positivismo. Queste donne furenti prefigurano non solo
Medea, ma anche i personaggi estremi dei
romanzi di Dostoevskij come Raskolnikov di Delitto
e castigo che uccide due vecchie, o Stavrogin di I demoni che seduce una bambina la quale poi si impicca: essi obbediscono
a oscuri impulsi che la ragione e la morale non possono giustificare. Eschilo
arriverà ad ammansire le Erinni; " per Dostoevskij soltanto la prospettiva di Sonia, della carità, può
risolvere il dilemma di Raskol'nikov"[1].
Oreste prova a difendersi da questi mostri
prodotti dal sonno della ragione con i calcoli del raziocinio: "io ho
ammazzato mia madre, non lo negherò (oujk ajrnhvsomai[2]) con
un omicidio di contraccambio per il carissimo padre"(Eumenidi, vv. 463-464).
Il matricida ricorda pure la
complicità di Apollo che lo aveva aizzato, ma il ragionamento e la
giustificazione non possono annullare l'istinto filiale e il rimorso nei
confronti della madre uccisa. Nessuna filosofia sofistica o illuministica,
nessuna religione, per apollinea o solare che sia, potrà stenebrare la parte
più profonda e oscura della nostra personalità.
La contesa sembra irrisolvibile;
allora Atena decide di fondare un tribunale, quell'Areopago che fino a pochi anni prima della rappresentazione di
questa tragedia, esercitava il controllo sulle leggi, sulle istituzioni e sui
costumi, dando un indirizzo oligarchico alla vita della polis, ossia
conservando il predominio degli abbienti. Poi, “liquidato Cimone, dovette
essere ormai facile condurre in porto le riforme costituzionali di Efialte[3]
e di Pericle: abolizione dei poteri politici dell’Areopago (la nomofulakiva, cioè
la sorveglianza sulla costituzione e forse anche la custodia dei testi delle
leggi) e riduzione dei poteri di quel consiglio alla sfera giurisdizionale dei
delitti di sangue (omicidi volontari). E’ questo anche il clima in cui,
probabilmente, maturano i progetti di creazione di una sorta di stato
assistenziale, che si doveva realizzare attraverso la remunerazione dei
magistrati, dei buleuti e soprattutto degli eliasti, cioè dei giudici delle
giurie popolari”[4].
Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi ricorda che
Solone incaricò l’Areopago che era già ejpivskopo~ th`~ politeiva~ ,
guardiano della costituzione, e regolava gli affari pubblici e puniva i trasgressori,
di sorvegliare il rispetto delle leggi (nomofulakei`n, VIII, 4 ). Plutarco nella Vita di Solone dice che il legislatore
ateniese insediò l’Areopago come sovrintendente di ogni atto e custode delle
leggi (ejpivskopon
pavntwn kai; fuvlaka tw`n novmwn, 19, 2). Il consiglio era formato da ex
arconti e venne aggiunto alla boulhv dei 400, pensando che ormeggiata a due
consigli come a due ancore, la città sarebbe stata meno ondeggiante (oijovmeno~ ejpi; dusiv
boulai`~ oJrmou`san h|tton ejn savlw/ th;n povlin e[sesqai).
Nel prologo dell’Edipo re, il sacerdote che informa Edipo
sulla situazione di Tebe, dice :"la città infatti, come anche tu stesso
vedi, troppo/già fluttua (saleuvei)
e di sollevare il capo /dai gorghi del
vortice insanguinato non è più capace" (vv.22-24).
Un conservatore come Isocrate, oltre un secolo
più tardi (357 a .
C.) rimpiangerà i “bei tempi” dell'Areopago, quando i cittadini "
consideravano la cura degli affari dello Stato (th;n tw'n koinw'n ejpimevleian) non
un traffico lucroso (ouj ga;r ejmporivan), ma un servizio pubblico ( ajlla; leitourgivan)”[5].
“La retribuzione delle cariche
pubbliche non è attestata in nessun’altra città greca”[6].
Comunque Atena nell'atto di fondazione del
tribunale afferma solennemente la sua intenzione di scegliere nella sua città
giudici giurati per i delitti di sangue e di farne un istituto che rimarrà nel
tempo"(vv.482-484). In queste parole di Atena-Eschilo si sente il timore
che la parziale esautorazione dell' Areopago porti a uno svuotamento di ogni suo
potere e significato .
Musti rileva che è
“Filoargivo anche il finale della
trilogia Orestea (Agamennone, Coefore, Eumenidi)
rappresentata nel 458” ;
quindi aggiunge: “ il problema storico-politico principale è comunque in essa
quello del ruolo dell’Areopago, dopo la riforma di Efialte. Eschilo sembra aver
voluto dare alla limitazione dei suoi poteri la legittimazione di una poesia di
così vasta risonanza pubblica, esaltando la tremenda dignità del residuo ruolo,
di tribunale giudicante i casi di omicidio volontario”[7].
La vendetta privata è superata
dall’istituzione. Sentiamo cosa ne scrive Thomas Mann: “la vendetta si
riproduce come vegetazione di palude e non vi è regola. Perciò quando Caino
ebbe ucciso Abele, Dio gli pose un suo segno perché tutti vedessero che
apparteneva a lui e disse: “ Chiunque uccide Caino subirà la vendetta sette
volte”[8].
Ma Babele istituì un tribunale affinché l’uomo nei delitti di sangue si pieghi
al giudizio della legge e la vendetta non prolifichi”[9].
La paura
Segue il Secondo Stasimo (vv.
490-565) con fosche previsioni delle Erinni le quali sostengono che il terrore
delle pene, umane e divine, talora è salutare:"a volte il terrore (to; deinovn) è un
buon ispettore anche delle anime e deve restarci a fare la guardia: giova giungere
alla saggezza sotto l’angoscia "(vv. 517-519). E’ il tw'/ pavqei mavqo~ dell’Agamennone (v. 177) che ritorna in forma
variata.
“La forma drammatica classica si
regge su un principio: che la sofferenza inevitabilmente connessa all’esistere
(anzi: al voler essere la via destinataci) conduca finalmente al mathos, a un ‘chiaro’ sapere”[10].
“Se, nonostante tutto, volessimo
ricercare un messaggio che i poeti tragici ci possano avere trasmesso, questo
messaggio si potrebbe enunciare nelle parole: “soffrire e conoscere”, oppure,
con una formulazione che -forse indebitamente- lascia intravedere una
possibilità di riscatto, un non appagante riscatto: “soffrire e però essere
consapevoli della propria sofferenza”.
Ma occorre essere attenti a
cogliere la specificità di questo conoscere del personaggio tragico. La qualità
di questo conoscere tragico ha connotazioni proprie e specifiche. E’ un
conoscere turbato in quanto si rapporta di regola a situazioni di sofferenza, o
anche di contrasto; e inoltre può presupporre profondità sinistre e recondite,
in riferimento al mondo arcaico-primitivo evocato attraverso il mito. La verità
della tragedia greca non è la verità della scienza (scienza della natura,
scienza medica, registrazione e valutazione di informazioni geografiche o
storiche) e non trova in sé motivo di compiacimento per avere acquisito nuova
conoscenza. La verità che consegue Edipo
nell’Edipo re o Agaue nelle Baccanti è una verità che dà sofferenza,
è una “infelice verità” la cui presenza si rivela molesta, come dice Cadmo
parlando appunto con Agaue (Eur. Bacch.
1287, con una accorata allocuzione alla verità stessa)”[11].
Poco
dopo le Erinni aggiungono:" mht j a[narkton bivon-mhvte
despotouvmenon-aijnevsh/" : panti; mesw/ to; kravto"
qeo;"-w[pasen "(526-530), non lodare una vita di anarchia né
una soggetta al dispotismo: in ogni caso il dio dà potenza al giusto mezzo.
“It looks to me as if the famous saying about
the superiority of to; mevson-which Aeschylus put so oddly into the
mouth of the Erinyes (530)-might in fact be taken…as an honest and corrept
description of the author’s own position”[12],
mi sembra che il famoso detto sulla superiorità del “mezzo” che Eschilo mette
così stranamente in bocca alle Erinni, potrebbe essere di fatto venire preso
…come una onesta e corretta descrizione della posizione personale
dell’autore.
Più avanti la stessa Atena consiglia ai
cittadini, che hanno cura della città, di rispettare uno stato senza anarchia
né dispotismo ("to; mhvt j a[narcon mhvte despotouvmenon",
v. 696) e di non scacciare del tutto la paura dalla città: infatti quale
mortale è giusto se non ha nessuna paura? ("kai; mh; to; deino;n pa'n povlew"
balei'n-tiv" ga;r dedoikw;" mhde;n e[ndiko" brotw'n;
" vv. 698-699).
Però c’è paura e paura
Nelle Troiane, Ecuba non approva la paura se uno teme senza essere
passato attraverso la ragione: “oujk aijnw` fovbon, o{sti~ fobei`tai mh; diexelqw;n
lovgw/”
(vv. 1165-1166). Nella fattispecie, la paura irragionevole è quella che i Greci
hanno avuto del piccolo Astianatte, al punto di mandarlo a morte.
Allora, la paura che spinge a
uccidere un bambino è vergognosa: sarà disonorevole per la Grecia l’iscrizione: “to;n pai`da tovnd j
e[kteinan j Argei`oiv povte” (v. 1191), questo bambino uccisero un
giorno gli Argivi per paura. Nell’ammazzare un bambino i Greci, li accusa
Andromaca, si rivelano quali i
: “w\ barbar j ejxeurovnte~ [Ellhne~ kakav,-tiv tovnde pai`da kteivnet j
oujde;n ai[tion;”
(vv. 764-765).
Hanno voluto colpire l’uomo dove
è più debole, dove è più uomo[13].
“Il mondo è divenuto
“illuminato”. L’angoscia si è dissolta, e la “libertà” minaccia di prevaricare.
Già il Prometeo ha mostrato come il
valore della “libertà” per Eschilo sia mutato, ed essa sia divenuta
problematica. Quindi la paura della costrizione diviene timore riverente di ciò
che sta all’ultimo. A Clitennestra era mancata questa soggezione, questo
scrupolo. La giustizia ora per Eschilo si trova a metà tra libertà e
costrizione…Eschilo conosce l’orgoglio dello spirito, che ardisce spingersi
fino all’estremo. Il suo Prometeo aveva offeso questa aijdw'~. Dalla
lotta e dalla problematica dell’essere nasce l’insegnamento del mevson, la
concezione classica dell’aureo mezzo[14] (Eum.,
525ss.)…Il compito dell’uomo è trovare il giusto mezzo tra indipendenza e
dipendenza”[15].
Il concetto della paura opportuna
all'ordine torna nel Bellum Iugurthinum[16]
di Sallustio:" Nam ante Carthaginem deletam...metus hostilis in bonis
artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet
ea quae res secundae amant, lascivia atque superbia, incessere" (41),
infatti prima della distruzione di Cartagine…il timore dei nemici conservava la
cittadinanza nel buon governo. Ma quando quella paura tramontò dagli animi,
naturalmente quei vizi che la prosperità ama, la dissolutezza e la superbia, si
fecero avanti.
La paura è il presupposto di un
ordinato vivere civile. Questa norma si trova anche nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio dove Machiavelli scrive:"Perché dove
manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto
dal timore d'uno principe che sopperisca a' defetti della religione" (I,
11).
Le
Erinni dunque si avvicinano alla soluzione del conflitto con Atena e
Apollo, prescrivendo regole accettabili
da qualsiasi religione rispettosa della vita: “La dismisura demenziale (u{bri~)[17] è figlia di empietà secondo il vero” (Eumenidi, v. 534).
Quindi,
proseguono le Erinni, sulla via di diventare Eumenidi: "Rispetta l'altare
di Giustizia, e non disprezzarlo calciandolo con piede ateo in vista del
guadagno: infatti poi segue il castigo"(vv.539-541).
Gli stessi accenti posati sulla forza vincente e
ineludibile della Giustizia si trovano nel primo stasimo dell’Agamennone. Eschilo è in effetti uno dei
profeti della Giustizia.
"infatti non c'è difesa di
ricchezza contro Sazietà, per l'uomo che con arroganza ha preso a calci il
grande altare di Giustizia, con il proposito di annientarla" (Agamennone, primo stasimo 381-384).
E, poco più avanti:
"Ogni rimedio è vano. Il
danno non rimane nascosto,
ma risalta, quale luce di
sinistro bagliore; e, come bronzo cattivo, per sfregamento e colpi, diventa
nero il colpevole sottoposto a giustizia, poiché
insegue, come un fanciullo, un
uccello che vola" ( Agamennone,
387-394).
Torniamo
alle Erinni le quali ripetono i precetti che facevano già parte dell'educazione
morale e pure formale dell'uomo omerico: ciascuno deve provare"venerazione
per i genitori"( Eumenidi, v. 545) e rispetto per gli ospiti.
La
religione delle Erinni si assimila
sempre più a quella degli dèi olimpici. Ancora: La Giustizia salva
dall'infelicità colui che la segue eJkwvn
d j ajnavgka~ a[ter (v. 550), di sua volontà, non costretto, mentre "ride
il demone sull'uomo violento, vedendo in sventure irrimediabili colui che non
se le sarebbe mai aspettate, e non ce la fa nella sua debolezza a superare la
vetta, quello che avendo scagliato il benessere di un tempo contro lo scoglio
della Giustizia[18]
va in malora per sempre, illacrimato, annientato"(vv. 560-565). Sono le
ultime parole del secondo stasimo.
continua
[1]
C. Magris, L'anello di Clarisse , p. 27.
[2] Cfr. Prometeo il quale, tutt'altro che pentito,
prorompe nel grido di ribellione con il quale afferma la dignità del suo
delitto:"io sapevo tutto
questo:/di mia volontà, di mia volontà ho compiuto la trasgressione, non lo
negherò (eJkw;n
eJkw;n h{marton, oujk ajrnhvsomai, Prometeo
incatenato, vv. 265-266).
Questa
rivendicazione di Prometeo fornisce una legittimazione all'ira di Zeus e
argomenti a Nietzsche in La nascita della
tragedia per distinguere "la
concezione ariana" dal " mito semitico":" La cosa migliore
e più alta di cui l’umanità possa diventare partecipe, essa la conquista con un
crimine, e deve poi accettarne le conseguenze, cioè l’intero flusso di dolori e
di affanni, con cui i celesti offesi devono visitare il genere umano che
nobilmente si sforza di ascendere: un pensiero crudo, per la dignità
conferita al crimine, stranamente contrasta
con il mito semitico del peccato originale, in cui la curiosità, il raggiro
menzognero, la seducibilità, la lascivia, insomma una serie di affetti
eminentemente femminili fu considerata come origine del male. Ciò che distingue
la concezione ariana è l’elevata idea del peccato
attivo come vera virtù
prometeica" (F. Nietzsche. La
nascita della tragedia, p. 69.)
[3]
o}ς katevluse to; kravtoς th̃ς ejx
jAreivou pavgou boulhς (Pltarco, Vita di Pericle, 7, 8), che abbatté il potere dell’Areopago.
[4]
D. Musti, Storia greca, p. 338.
[5]
Areopagitico, 25.
[6]
M. Finley, La democrazia degli antichi e
dei moderni, p. 51.
[7]
D. Musti, Storia greca, p. 373
[8]
Genesi, 4, 15.
[9]
T. Mann, Il giovane Giuseppe, p. 197.
[10]
M. Cacciari, Hamletica, p. 100
[11]
V. Di Benedetto (introduzione di) Eschilo,
Orestea, p. 10.
[12] Dodds, The ancient concept of
progress, p. 50.
[13]
Cfr. Vittoini, Uomini e no.
[14]
La formulazione più nota del giusto mezzo, ma solo una delle tante, è quella di
Orazio:" Est modus in rebus; sunt
certi denique fines,/quos ultra citraque nequit consistere rectum " (Satira I, 1, vv.106-107), c'è una misura
nelle cose; ci sono insomma limiti definiti al di qua e al di là dei quali non
può stare il giusto (ndr)..
[15]
B. Snell, Eschilo e l’azione drammatica,
p. 174.
[16]
Del 40 ca. a. C.
[17]
Sofocle, delfico ortodosso, scriverà che l’u{bri~
è madre e nutrice del tiranno: "u{bri" futeuvei tuvrannon,
(Edipo re , v. 873), la
prepotenza fa crescere il tiranno.
[18] L'immagine della collisione con Diche è ricorrente nella
tragedia: Sofocle nell'Antigone fa dire
al Coro queste parole:"Avanzando verso l'estremità dell'audacia, hai
urtato , contro l'eccelso trono della Giustizia, creatura, con grave
caduta."(vv.853-855).
bellissimo . Giovanna Tocco
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