sabato 26 agosto 2023

Percorso amoroso VIII, 16. La donna quale nemica o inganno.

Esiodo considera la femmina umana quale agente patogeno per l'umanità. In tutta la sua opera "traspare un apprezzamento crudo e malevolo della donna quale causa d'ogni male, estraneo alle concezioni cavalleresche"[1] .

Nella Teogonia  il poeta racconta che Zeus si era sdegnato poiché Prometeo l' aveva ingannato donando agli uomini il fuoco, ed egli, subito, in cambio del fuoco preparò per loro un malanno ( " aujti;ka d& ajnti; puro;" teu'xen kako;n ajnqrwvpoisi " (v. 570). Esso fu plasmato da Efesto con la terra: era  simile ad una vereconda fanciulla  che Atena adornò con un cinto, una veste, un velo, serti di fiori e una corona d'oro dove lo stesso Ambidestro aveva cesellato figure di fiere terribili, quanti ne nutre la terra ed il mare (v. 582). Una prefigurazione delle leonesse, le tigri e le scille in cui abbiamo visto trasfigurate Clitennestre e Medee. Comunque questa creatura divenne uno splendido malanno ("kalo;n kakovn", v. 585) per gli uomini, un inganno scosceso (" dovlon aijpuvn"[2], v. 589) e senza rimedio. Ecco già delineato il "popolo nemico" da cui derivano a quello dei maschi malanno e sciagura ("ph'ma", v.592). 

 

La donna come inganno scosceso e letale rimarrà topica: Orazio mette in guardia da Pirra, che è simplex munditiis ma provoca il naufragio degli amanti inesperti,:"Miseri, quibus/intemptata nites : me tabula sacer/votiva paries indicat uvida/ suspendisse potenti/vestimenta maris deo  ", poveretti quelli cui brilli senza che ti abbiano conosciuta: la sacra parete con la tavola votiva rivela che io ho appeso le vesti fradicie al potente dio del mare  (Odi , I, 5, 12-16). Il poeta scampato al pelago dell'amore è grato al dio Nettuno che l'ha salvato.

L'uomo innamorato è come un marinaio nel mare in tempesta. Chi si libera dall'amore fugge da un pericolo mortale.  Questo locus  sembra capovolgere il mito di Ulisse il quale si salva dai flutti per tornare dalla sua donna.

Properzio nella penultima elegia del III libro identifica la fine dell'inganno amoroso con l'ingresso della sua nave nel porto dove finalmente può sentirsi libero dal servitium amoris .

Cito alcuni versi nei quali oltre il topos  del naufragio  si trova quello della cottura  :"Correptus saevo Veneris torrebar aeno,/vinctus eram versas in mea terga manus./ Ecce coronatae portum tetigere carinae,/Traiectae Syrtes, ancora iacta mihi est " (III, 24, 13-16), afferrato venivo arrostito nella caldaia tremenda di Venere, ero stato legato con le mani girate dietro la schiena. Ecco che la nave ha toccato il porto incoronata di fiori, e oltrepassate le Sirti, ho gettato l'ancora. L' incantatrice  è stata travisata dallo sguardo ammaliato dell'amante il quale a sua volta adorandola l'ha illusa sull'onnipotenza della bellezza che ha visto in lei :"Falsa est ista tuae, mulier fiducia formae,/olim oculis nimium facta superba meis./ Noster amor tales tribuit tibi, Cyntia, laudes " (III, 24, 1-3), è ingannevole questa tua fiducia nell'aspetto, donna, resa una volta troppo superba dai miei occhi. Fu il mio amore a donarti, Cinzia, tali lodi. Nell'ultima elegia di questo libro  lo schiavo d'amore per liberarsi dal servitium  si aiuta con il ricordo (di ascendenza catulliana[3]) dell'iniuria: "Flebo ego discedens, sed fletum iniuria vincit " (III, 25, 7), piangerò nel lasciarti, ma l'offesa vince il pianto, e si consola con  la previsione dell'invecchiamento della sua  domina  :"At te celatis aetas gravis urgeat annis,/et veniat formae ruga sinistra tuae./Vellere tum cupias albos a stirpe capillos/ah speculo rugas increpitante tibi,/ exclusa inque vicem fastus patiare superbos,/ et quae fecisti facta queraris anus./ Has tibi fatalis cecinit mea pagina diras./Eventum formae disce timere tuae " (III, 25, 11-18), ma l'età greve incomba sugli anni dissimulati e vengano rughe sinistre sulla tua  immagine bella.  Che allora tu voglia strappare dalla radice i capelli bianchi, quando lo specchio ti rinfaccerà le rughe, e a tua volta respinta possa tu sopportare la sprezzante alterigia, e lamentarti ormai vecchia del male che hai fatto. Questi cattivi presagi ti ha cantato la mia pagina fatale, impara a temere la fine della tua bellezza.

Questa dunque è ingannevole come l'amore ed effimera come mutevoli sono le donne.

  In conclusione:"Giovane: un antro arabescato di fiori. Vecchia: un drago che esce fuori"[4].

Ancora qualche considerazione sull'iniuria  che, ovviamente, appartiene anche alla sfera morale giuridica, politica ed economica: Cicerone nel De Officiis  afferma che essa deve essere sempre evitata"fugienda semper iniuria est " (I, 25). Ebbene grandissimo movente di iniuria è la cupiditas : in questo caso non quella amorosa ma imperiorum, honorum, gloriae . E' il caso di Giulio Cesare qui omnia iura divina et humana pervertit  (I, 26) il quale sconvolse tutte la leggi divine e umane. Anche in questo caso è stato messo in discussione il diritto di proprietà: non dell'uomo sulla donna ma del padrone di casa. Sentiamone il commento di C. E. Gadda:"Così...fra Poseidonio e Panezio, fra Peripatetici ed Accademici, e nel bel mezzo dell'onesto e dell'utile, della Giustizia e della Temperanza, della Prudenza e della Fortezza, salta fuori tutt'a un tratto, una rabbia pazza, da padron di casa con la museruola, contro i decreti-legge del 707[5] che rimettevano agli inquilini...non i loro peccati, ma i fitti arretrati. Con repertini morsi di vipera il risentimento del moralista-padron di casa azzanna da morto colui , "qui omnia iura divina et humana pervertit " . La stizza dell'aver dovuto condonare quei fitti mescolata con quella del prestito forzoso imposto dal dittatore a tutti gli optimates, gli fa esclamare che quegli non fu un uomo, ma un mostro, un sadico folle, assetato di voluttà malvagia:"Tanta in eo peccandi libido fuit, ut hoc ipsum eum delectaret peccare, etiamsi causa non esset "[6], tanto grande fu in lui la brama di commettere falli che gli piaceva questo stesso commetterli, anche se non c'era motivo.

La causa che scatena l'iniuria  e il peccare  è comunque la libido . 

Voglio prendere ancora una riflessione ciceroniana sull'iniuria  e applicarla al nostro discorso erotico: se la più odiosa delle offese è quella fatta con la frode, meno quella con la forza, il tradimento amoroso è quello più lontano dalla dignità dell'uomo (e della donna):"Cum autem duobus modis, id est aut vi aut fraude, fiat iniuria, fraus quasi vulpeculae, vis leonis videtur; utrumque homine alienissinum, sed fraus odio digna maiore " ( De officiis , I,  41), siccome l'offesa si fa in due modi, cioè con la violenza o con la frode, la frode sembra il mezzo della volpastra, la violenza del leone; l'una e l'altra sono del tutto estranee all'uomo, ma la frode merita maggior odio.

Dante fa ripetere a Virgilio questo concetto::

“D’ogni malizia, ch’odio in cielo acquista,

ingiuria è il fine, ed ogni fin cotale

o con forza o con frode altrui conquista.

Ma, perché frode è dell’uom proprio male,

più spiace a Dio; e però stan di sutto

gli frodolenti, e più dolor gli assale” (Inferno, XI, 22-27)

 

Nelle Opere  Esiodo torna sull'argomento: Zeus diede agli uomini un male, la donna in cambio del fuoco:"Toi'" d j ejgw; ajnti; puro;" dwvsw kakovn" (v. 57). Anche nel  " più recente e paesano dei due poemi di Esiodo che ci restano"[7]  la donna riceve ornamenti e attributi speciosi, e, per quanto riguarda il nostro tema, Afrodite le versò sul capo la grazia e la passione struggente  e gli affanni che fiaccano le membra ("cavrin...kai; povqon ajrgalevon kai; guiokovrou" meledwvna" ", vv. 65-66).

 

Nella Teogonia   [Ero" stesso viene qualificato come lusimelhv"  (120-121), che strugge le membra.

Questo epiteto viene attribuito alla brama amorosa pure da Archiloco (frammento 118 D)  :"mi prostra, amico, il desiderio che strugge le membra"(lusimelhv"...povqo").

 Il topos dello struggimento  dovuto a Eros viene riproposto da Saffo:" Eros che strugge le membra (lusimevlh") di nuovo mi agita,/dolceamara (glukuvpikron) implacabile (ajmavcanon) belva (o[rpeton) (fr. 130 V.).

"La parola lusimevlh"  è tradizionale[8], ma Saffo le conferisce una forza nuova combinandola con quello che segue. Amore è visto come o[rpeton, e il termine è, senza dubbio intenzionalmente, vago: esso può indicare pressoché ogni creatura che cammina a quattro zampe o striscia, da un serpente[9]  fino al gigante Tifone imprigionato sotto l'Etna[10]; e può anche implicare qualcosa di sinistro, e quindi è precisato con ajmavcanon, poiché da una creatura del genere non ci si può difendere...Infine c'è glukuvpikron; e con questa parola, che non si ritrova più sino all'età ellenistica, Saffo esprime la quintessenza dei suoi sentimenti contraddittori riguardo all'amore. Il grado di concentrazione espressiva di Saffo si può vedere paragonandolo con la maniera più diffusa di Teognide, che dice di Amore

pikro;" kai; glukuv" ejsti kai; ajrpalevo" kai; ajphnhv"”,  1353è amaro e dolce e rapace  e crudele.

In pochissime parole Saffo esprime la propria tumultuosa condizione, insieme fisica e mentale, desiderata e odiata ad un tempo"[11].

L'amore dolceamaro trova un'eco nel carme 68 di Catullo (vv. 17-18):"non est dea nescia nostri,/quae dulcem curis miscet amaritiem ", non mi ignora la dea[12] che agli affanni mescola dolce amarezza. L'ossimoro è divenuto un luogo comune della letteratura: si possono ricordare il dulcium/mater saeva Cupidinum , madre crudele[13] di dolci amori  di Orazio (Odi , IV, 1, 4-5) e  la "dolcezza amara", sia pure non erotica, di Giuseppe Giusti (Sant'Ambrogio , 65).

 

La prima donna, chiamata Pandora poiché tutti gli dèi le avevano fatto un dono, questo inganno scosceso e senza rimedio ("dovlon aijpu;n ajmhvcanon" Opere , v. 83), accolto incautamente da Epimeteo invano avvertito da Prometeo, diffuse mali e malattie sulla terra e sul mare togliendo il coperchio all'orcio dove erano rinchiusi:"pleivh  me;n ga;r gai'a kakw'n, pleivh de; qavlassa", v. 101, piena è la terra di mali e pieno il mare. Nel vaso, sul quale infine Pandora ripose il coperchio per volere di Zeus, rimase solo la Speranza (Mouvnh d j aujtovqi jElpiv", v. 96). Probabilmente un male anche questa

Il mito della prima donna si collega a quello dell'età dell'oro.

La storia del decadimento dall'aurea stirpe primigenia (cruvseon me;n prwvtista gevno", v. 109) a quella finale, e attuale, ferrigna ( nu'n ga;r dh; gevno" ejsti; sidhvreon, v. 176), prende l'avvio dal racconto dei mali conseguiti alla mossa malaccorta o malvagia di Pandora, l'Eva dei Greci. La descrizione dell'età del ferro è ancora attuale: i suoi delitti assomigliano molto a quelli dell' epoca moderna che "Fichte definisce epoca della colpevolezza, della "compiuta peccaminosità" ovvero della libertà vuota, del feroce conflitto che disgrega ogni ordine, della lotta egocentrica e spietata di tutti contro tutti, dell'anarchia dei particolari sradicati da ogni totalità"[14].

In sintesi estrema Esiodo afferma che gli uomini useranno il diritto del più forte (ceirodivkai , v. 189) in tutte le loro relazioni, una legge che è naturale per gli animali ma non per gli uomini: infatti la violenza è cattiva per il misero mortale (v. 214) e la giustizia prevale sulla violenza:"divkh d j uJpe;r u{brio" i[scei" (v. 217).

Lucrezio  considera non del tutto aurea l'età primitiva: allora un genere umano molto più duro (multo...durius  V, 925-926) in quanto creato da una tellus...dura , tirava avanti la vita secondo il modo errabondo delle belve ("vulgivago vitam tractabant more ferarum ", v. 932). Gli esseri umani non coltivavano la terra accontentandosi di quello che essa creava "sponte sua ", v. 938). Mangiavano ghiande e corbezzole e altre dure pasture (pabula dura , v. 944) comunque abbondanti per i miseri mortali (miseris mortalibus ampla ).

Per quanto riguarda  il nostro tema, ossia il rapporto tra i sessi, "Et Venus in silvis iungebat corpora amantum;/conciliabat enim vel mutua quamque cupido/vel violenta viri vis atque impensa libido/vel pretium, glandes atque arbuta vel pira lecta " (V, 962-965), e Venere nelle selve congiungeva i corpi degli amanti; infatti conquistava ciascuna o la reciproca brama o l'impetuosa violenza dell'uomo e la passione sfrenata o una mercede: ghiande e corbezzole o pere scelte.

Condizioni, a dire il vero, non molto diverse dalle attuali. In fondo la prima mossa che si fa, tra persone civili, quando si vuole corteggiare una donna è invitarla a cena.

 Il pericolo delle belve era più terrificante e deleterio: capitava spesso che qualcuno di quei primitivi offrisse viva pastura alle fiere (pabula viva feris praebebat , v. 991) "et nemora ac montis gemitu silvasque replebat/viva videns vivo sepeliri viscera busto " (vv. 992-993), e riempiva i boschi i monti e le foreste di gemiti, vedendo  visceri vivi venire sepolti in un vivo sepolcro. Nota bene Ivano Dionigi che "la sapiente combinazione degli elementi fonici (allitterazione e poliptoto) conferisce al verso pateticità e anche cupezza (si badi al martellante suono v )"[15].

Il professore e rettore dell'Ateneo bolognese ricorda anche, molto a proposito, che l'immagine dell'animale come sepolcro vivente risale a Gorgia che definisce così gli avvoltoi:"  Gu'pe" e[myucoi tavfoi" (in Subl.  3, 2).

Quelli che non morivano subito rimanevano straziati finché atroci spasimi li privavano della vita. Questa è la parte negativa, ma ce n'è anche una positiva nell'età più antica: le guerre non distruggevano in un sol giorno molte miglia di uomini schierati, né c'era la morte per acqua marina:"nec poterat quemquam placidi pellacia ponti/subdola pellicere [16] in fraudem ridentibus undis./Improba navigii ratio tum caeca iacebat  "(V, 1004-1006), né la seduzione subdola del mare in bonaccia poteva trarre in inganno alcuno con il sorriso delle onde[17]. Allora la detestabile arte del navigare giaceva sconosciuta.

 E' questa una delle tante espressioni contrarie alla navigazione dettata da brama di lucro. Si ritrova nell'età dell'oro raffigurata da Tibullo: sotto il regno di Saturno, al tempo dell'armonia tra l'uomo e la natura, non c'erano le navi, non c'era il commercio,   l'aggiogamento del toro, né l'imbrigliamento del cavallo, né la proprietà privata, né il profitto: allora la terra con i suoi figli, piante e animali, erano generosi nei confronti degli uomini e questi vivevano senza preoccupazioni :"nondum caeruleas pinus contempserat undas,/effusum ventis praebueratque sinum;//nec vagus ignotis repetens compendia terris/presserat externa navita merce ratem.// llo non validus subiit iuga tempore taurus,/non domito frenos ore momordit equus; // non domus ulla fores habuit, non fixus in agris/qui regeret certis finibus arva lapis//  Ipsae mella dabant quercus, ultroque ferebant/obvia securis ubera lactis oves" (I, 3, 37-46), ancora il pino non aveva sfidato le onde azzurre, e non aveva esposto ai venti il seno aperto[18]: né il marinaio errante cercando profitti in terre ignote aveva caricato la barca di merci straniere. in quel tempo il toro robusto non si sottopose al giogo, il cavallo non morse il freno con bocca domata; le dimore non avevano porte, non c'era pietra conficcata nei campi che segnasse la terra da arare con limiti certi. Le querce  offrivano il miele da sé, e le pecore spontaneamente portavano le poppe gonfie di latte a quegli uomini senza preoccupazioni.

La navigazione è uno degli aspetti della violenza umana nei confronti della natura, come fa notare già Sofocle nel Primo Stasimo dell'Antigone .  

 

 Non meno negativamente considera la traversata marina Properzio il quale anzi  impreca contro l'inventore di quel viaggiare marino che lo ha portato lontano da Cinzia:"A pereat, quicumque ratis et vela paravit/primus et invito gurgite fecit iter "  (I, 17, 13-14), ah, perisca chiunque per primo costruì le navi, e si aprì il cammino tra i gorghi riluttanti.-ratis=rates.

Anche Seneca attraverso il coro della Medea  maledice la navigazione come attività troppo audace per l'uomo:" Audax nimium, qui freta primus/rate tam fragili perfida rupit/terrasque sua posterga videns/animam levibus credidit auris " (vv. 301-304), Audace troppo chi per primo ruppe con la barca tanto fragile i perfidi flutti e vedendo alle spalle la terraferma affidò la vita ai venti incostanti.  

 

Ma torniamo a Lucrezio il quale procede con una riflessione anticonsumistica e con una denuncia morale dal tono ironico:" Tum penuria deinde cibi languentia leto/membra dabat, contra nunc rerum copia mersat ./Illi imprudentes ipsi sibi saepe venenum/vergebant, nunc dant (aliis) sollertius ipsi " (vv. 1007-1010), allora la penuria di cibo dava di conseguenza alla morte le membra stremate, ora al contrario le sommerge la dismisura dei consumi. Quelli senza saperlo spesso versavano veleno a se stessi, ora più ingegnosamente gli stessi lo somministrano ad altri. 

Seguono alcune luci sull'incivilimento che ammorbidisce gli animi , ma come si vede non mancano le ombre. Il verbo mollescere del v. 1014:"tum genus humanum primum mollescere coepit " significa diventare mollis  e quindi si può tradurre con "rammollirsi". Dionigi nel commento citato sopra sostiene che Lucrezio "sembra preferire" la vita dell'uomo primitivo "a quella dell'uomo civilizzato, minacciato da guerre, sazietà, inganni (vv. 999-1010)"[19], mentre secondo Bettini l'intento di Lucrezio è stato quello di indicare "nel lavoro un valore positivo e laico, l'unico mezzo attraverso il quale, faticosamente, l'uomo poteva elevarsi al di sopra di una condizione primitiva semiferina"[20].

Forse la soluzione di sintesi tra la bellezza antica e quella moderna si trova nella dichiarazione di Pericle, emblematica non solo della cultura greca ma di tutta la migliore cultura europea  :"filokalou'mevn te ga;r met& eujteleiva" kai; filosofou'men a[neu malakiva""(II, 40, 1), amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza.

 

 A proposito del classicismo che si ripropone periodicamente nella nostra Civiltà, possiamo aggiungere che la bellezza si coniuga non solo con la semplicità ma anche con l'antichità. Lo suggerisce Plutarco nella Vita di Pericle quando afferma che ognuna delle "opere di Pericle", ossia degli edifici fatti costruire sull'Acropoli, era,  kavllei, per la bellezza  già allora antica , ajrcai'on;  mentre per la loro rifioritura (ajkmh'/ ) appare ancora oggi recente e appena ultimata (13, 5).

Credo che anche la letteratura se pure tratta di fatti contemporanei debba apparire antica per la bellezza.

 

Pesaro 26 agosto 2023 ore 17, 07 giovanni ghiselli

p. s.

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[1]W. Jaeger, Paideia  1, p. 129.

[2] Nell'Odissea  l'aggettivo è riferito alla morte:" aijpu;n oJvleqron", I, 11.

[3] Cfr. 72, 7-8.

[4]Nietzsche, Di là dal bene e dal male , p. 157.

[5]47 a. C.

[6]Da "San Giorgio in casa Brocchi" in Le novelle del ducato in fiamme,  ristampato in I racconti. Accoppiamenti giudiziosi , Milano, 1963, pp. 97-100.

[7]Jaeger, Paideia  1, p. 121.

[8]Archil. fr. 118 D; Hes. Theog. 121.

[9]Eur. Andr.  269.

[10]Pind. Pyth. I, 25.

[11]C. M. Bowra, La lirica greca da Alcmane a Simonide , p. 265

[12] Venere, naturalmente.

[13] Sempre Venere.

[14]C. Magris, L'anello di Clarisse , p. 17.

[15]Lucrezio, LA NATURA DELLE COSE, BUR, Milano, 1997, p. 496.

[16]Si noti l'allitterazione con la p  che sembra preludere all'esplosione della successiva tempesta marina.

[17]Traduco così, come del resto ha già fatto Luca Canali nel testo commentato da Dionigi  citato sopra, poiché a parer mio l'espressione di Lucrezio risente di quella eschilèa:" pontivwn te kumavtwn-ajnhvriqmon gevlasma" (Prometeo incatenato , 89-90), innumerevole sorriso

delle onde marine.

[18]Quello delle vele, quasi fossero donne sfacciate.

[19]Op. cit., p. 493.

[20]M. Bettini, La letteratura latina 2 , p. 453.

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