lunedì 28 agosto 2023

"Alcibiade, la seconda peste di Atene". Di Giuseppe Moscatt

Alcibiade, la seconda peste di Atene (Atene, 450 a. c./413 a.c.)

di Giuseppe Moscatt

  
Recita il Dizionario della lingua italiana che un individuo è pestifero quando per le eccessive ambizioni di Potere, o per qualunque altro interesse, si dimostra insistentemente molesto, genera un grave e diffuso motivo di danno e di dolore per gli altri, rappresenta calamità, rovine e sventure. Insomma ha in sé il germe del diavolo, è un soggetto divisivo e assolutamente perverso (vd. Devoto-Oli, ad vocem, ed. 2001). Tale fu Alcibiade, figlio di Clinia e di Dinomache. sorella della madre di Pericle. Nato in una famiglia di Cavalieri, come li chiama Aristofane e Plutarco, visse ad Atene dal 450 a. c. morì esule in Frigia, esule e spesse volte maledetto per le sue controverse imprese, morto nel 404 a. c. in circostanze non chiarite, forse suicida, forse ucciso.
 
Il contesto della sua vita più che avventurosa, tale da influenzarlo come sarà per Cesare, Cromwell e Napoleone, appare essenziale per capirne la straordinaria esistenza. La nascita (450 a. c.) fu segnata all'acme dell'impero ateniese, che come la Firenze del '400 e la Weimar di metà 700, rappresentano il periodo di massimo splendore culturale dei due Paesi - l'Italia e la Germania - che non a caso gli sono paragonati per la grandezza delle rispettive classi dirigenti e che da quelle esperienze storiche trarranno linfa per il loro successivo processo di unificazione nazionale. Si è detto che lo stesso processo evolutivo lo ebbe l'Atene del V secolo, salvo a degenerare in un collasso istituzionale dovuto alla guerra con gli eterni nemici di sempre, Sparta per prima e poi la Persia di Tissaferne. E tuttavia, sulle spoglie di Atene della stesa Sparta, sorgerà a metà del IV secolo l'altra grande figura di Alessandro Magno, che sicuramente erediterà il processo unitario della Grecia, peraltro di breve durata per la rapida morte dell'eroe Macedone e per la successiva invasione romana alle soglie del secondo secolo. Intanto l'età di Pericle.
Qui ci limitiamo a rammentare, ove ce ne fosse bisogno, il suo periodo d'oro, vale a dire il quarto secolo - dal 480/404 al 430 a. c. - dove la storia culturale e quella politica vedono spiccare la figura di Pericle (495-429 a. c.), Politico eccellente, oratore mirabile e militare invitto che di fatto governò in modo autoritario la città dalle guerre persiane (499-449) alla prima guerra del Peloponneso (431-429), morendo di peste, lasciando un impero privo di adeguato successore. Dal lato politico, Pericle - a dire degli storici Erodoto, Tucidide e Plutarco - era di nobile famiglia, assunse il potere della città con un consenso acquisito attraverso un abile dialettica fra oligarchi conservatori e nuovi borghesi democratici. Di lui si ricorda un famosissimo discorso alla nazione ateniese che Tucidide ci ha tramandato sulla natura della democrazia politica ed in politica estera riuscì a conseguire una Lega con le città dell'Attica che vide la predominanza politica e militare di buona parte della sua città sulla Grecia meridionale.
 
In particolare, fu in grado di costituire un fondo finanziario comune (Il tesoro di Delo) proprio ad Atene, dopo aver stipulato col tradizionale nemico Persiano un trattato di amicizia e di reciproca non belligeranza, tanto che solo dopo alcuni decenni questo ricomparve sul palcoscenico del Mediterraneo alle soglie del conflitto con Sparta. Approfittando forse della fiducia sulla gestione del tesoro, promosse opere culturali che ancora oggi si ammirano. Vissero infatti in quell'epoca grandissimi tragediografi e commediografi, Eschilo, Sofocle, Euripide e Aristofane. Non mancarono storici che lo elogiarono, pur con tutti i suoi limiti quali Erodoto e Tucidide. Ma anche lo scienziato Ippocrate - padre della medicina - e Socrate, fondatore della filosofia. Nondimeno, non mancarono opere di sculture e architettura, quali la ricostruzione del tempio di Zeus a Olimpia; quello di Apollo a Delfi; la costruzione dell'Acropoli ed il Partenone. E ancora si citano per la loro abilità e innovazione tecnica, Fidia, Mirone e Policleto. Eppure, la magnificenza delle sue attività di promozione artistica, trovò però non pochi critici proprio allo scoccare della prima guerra peloponnesiaca (431-421), detta Archidamica, dal nome del vecchio Re Archidamo di Sparta. Il suo maggiora oppositore fu un mercante democratico, tale Cleone di Anfipoli di Tracia, venuto ad Atene per commerciare cuoio molto utile per le armature militari.
Questi insinuò il sospetto che il finanziamento del tesoro della Lega di Delo, in guerra con la lega peloponnesiaca, fosse stato utilizzato per fini personali e non per fini culturali, proprio mentre la città soffriva per la peste e per la mancanza di rifornimenti alimentari venuti meno per l'invasione spartana dell'attica (non è strana la somiglianza di quelle critiche con quelle che oggi assillano i governanti occidentali rispetto alle critiche dei pacifisti contrari alle forniture militari all'Ucraina invasa dalla Federazione Russa). Intanto, l'imperversare della peste ebbe per vittima lo stesso Pericle (429 a. c. ) e si aprì quindi il problema della successione. Mentre il citato Cleone per i democratici ed il generale Nicia oligarca litigavano in merito, salvo a ritrovare un minimo di unità contro gli spartani alle porte; un giovane di bell'aspetto, di viva intelligenza e colto un po' più degli altri, bussò alla porta del Potere: Alcibiade, nipote dello stesso Pericle e da lui allevato in casa. Il decennio fra il il 429 e il 419, più o meno coincidente con la guerra, è per Atene il consolidamento di potenza militar marittima, quanto lo sia in campo terrestre quella spartana. Ma la fine di Pericle - per altro scosso negli ultimi anni da una serie di processi imbastiti da Cleone per le ragioni già dette, ma condite da piccanti questioni di corruzione legate all'amante Aspasia - si aprì con un senso di decadenza che alimentò il terrore della sconfitta con Sparta. I grandi oligarchi, eroi di Maratona e Salamina, i cc. dd. Cavalieri di Aristofane, guardavano al passato, come gli oligarchi di Putin oggi celebrano gli onori dello Zarismo e del Comunismo.
 
L'età di Pericle, appena trascorsa, era già divenuta mitica per il loro titanismo (come avvenne nell'800 per la Weimar di Goethe e Schiller) e per la loro probità morale piuttosto che per la tirannia di Pisistrato (come dirà Tucidide riportando il famoso proclama democratico di Pericle). Ma i politici che gli succedettero alla guida dello Stato - Alcibiade, Nicia e Iperbolo, nonché lo stesso Cleone di parte democratica - vennero criticati già da Tucidide e poi da Plutarco nei decenni successivi, sia per una condotta squilibrata, sia per un pacifismo disarticolato, o peggio per una serie di subdoli atti di arroganza che gettarono il popolo ateniese in uno stato di malinconia e di pessimismo che accelerò la caduta dell'Impero. Se gli ateniesi figli di Pericle precipitarono nella guerra Archidemica combattuta con pressapochismo già nella vicenda di Sfacteria (425) e di Pilo (426); una grandissima decadenza morale si ebbe con l'entrata in politica attiva di Alcibiade.
Sappiamo da Plutarco, le cui fonti non nascondono una certa antipatia per il personaggio, che era il beniamino d'Atene, per amori, ricchezza e per gusti raffinati (Platone in un suo dialogo lo aveva già designato come il pupillo di Socrate e che per analogia ci appare un novello Lafayette durante la prima fase della Rivoluzione Francese). A 30 anni inaugurò la politica trasformista: dopo aver militato da giovane coi conservatori dello zio Pericle, capì presto che Nicia gli avrebbe soffiato il posto di premier di quel partito, tanto più che l'imprenditore Iperbole teneva la borsa della fazione oligarchica e poco spazio gli dava. Di qui, il salto nel Partito democratico, ovvero la conquista di parte di quella fazione e l'alleanza con una parte di quei notabili. Creò cioè un blocco di centro dove nullatenenti e piccoli borghesi non lo amavano, ma si sentivano più sicuri che con Cleone.
Alcibiade era un oratore perfetto come lo zio; polemico a destra con Nicia, troppo molle come un Giolitti e litigioso a sinistra, con il coriaceo ignorante di Cleone, come avvenne con Colajanni durante la crisi di fine '800 in Italia. Alcibiade era un temerario alla Crispi (abbiamo usato volutamente i nomi dei notabili al primo parlamento dell'Italia Umbertina perché rispecchia la politica del salto da uno schieramento all'altro, fra liberali progressisti e liberali democratici nei primi '60 anni del Regno d'Italia, quando il trasformismo divenne la tecnica politica più nota). Invece il decisionismo di Pericle fu la fede operativa di Alcibiade, peraltro arricchita da una vigorosa attività amministrativa nel continuare a proteggere le Arti e a governare da innovatore spregiudicato dall'alto delle sue conoscenze estere, tanto che tentò di riappacificarsi di nascosto con gli Spartani, mente Nicia e Lachete tardavano a trattare, dopo le vicende di Anfipoli riconquistata al caro prezzo dalla morte eroica di Cleone, capo dell'esercito ateniese.
 
La politica interna di Alcibiade era analoga a quella estera: mentre tentava di allearsi ad Argo, città legata a Sparta; nell'areopago si alleò con Iperbolo per ostracizzare Nicia da ogni carica di Potere. Solo che di notte a notte - come un consumato politico della nostra prima repubblica - ritornò sui suoi passi e si riaccordò improvvisamente con Nicia. L'indomani, il povero Iperbolo - oligarca come lui, ma molto più onesto, amante della Patria e coerente nel trattare senza cedimenti con gli spartani - si trovò lui ad essere ostracizzato dall'inedita coalizione di Alcibiade e Nicia, alleanza inusitata e analoga a quella che avvenne nel Parlamento italiano dopo la marcia fascista su Roma che vide improvvisamente quel movimento eversivo convergere al Governo con cattolici e socialisti riformisti. Anzi, a Iperbolo fu perfino riservata la morte all'esilio di Samo, quando fu definitivamente ucciso da emissari degli oligarchi nel 411, durante il colpo di Stato ad Atene che avrebbe inaugurato la dittatura dei 400, manovra cui non era estraneo proprio Alcibiade. Giunto finalmente alle cariche supreme di stratega militare e a quella di capo della politica estera (420 -418), Alcibiade compiva il primo atto di non belligeranza, ma di significativa scelta contro la pace di Nicia, che nel 421 aveva interrotto la guerra del Peloponneso.
Il suo partito radicale antipacifista e conservatore - legato alla borghesia degli affari e con un codazzo di giovani violenti insoddisfatti dal Governo di Nicia che li aveva emarginati dopo la pace, e senza mezzi per continuare la vita goliardica e militare, che li aveva qualificati come mercenari al soldo del loro capo Alcibiade. Questi si era inserito nelle politiche interne di Argo e Mantinea, città alleate del Peloponneso che lamentavano come la pace di Nicea le avesse depotenziate delle loro quote nel tesoro di Delio e che questo era stato speso da Nicia per usi personali. Inoltre, i vecchi alleati pretendevano un piano di rilancio dell'agricoltura nell'attica, senza contare che Tebe era stata troppo aiutata da Nicia, malgrado il suo aiuto fosse stato minimo. La perdita di Sfacteria poi bruciava agli Spartani. Nei suoi bellicosi comizi elettorali, Alcibiade rivendicava la città di Pilo, strappata ad Argo e mai più restituita, al pari di D'Annunzio che voleva Fiume all'Italia mutilata della vittoria nel 1918. Gli Spartani caddero nella sua rete e attaccarono Epidauro come ritorsione per Pilo ritornata nel frattempo nelle mani argive.
La guerra per mandato di Atene contro Sparta riprese nel 419, molto meno degli anni programmati da Nicia e Lachete con gli Spartani per l'ottimista previsione di 50 anni, quasi un'anticipazione di quello che Wilson nel 1918 aveva pronosticato per l'Europa a Versailles. Benché il tentativo di Argo, ora alleata di Atene, di occupare Epidauro non fosse riuscito con gravi perdite, Alcibiade non cessò di punire gli antichi avversari, finché questi decisero di rompere le relazioni segrete con Alcibiade, classico doppiogiochista e quindi assediare Argo. Era la mossa che Alcibiade non si aspettava perché troppo presto era passato dai lutti della prima guerra peloponnesiaca. Così Argo cinta d'assedio subì un forte assedio e quindi passò alla lega peloponnesiaca spartana. Un primo smacco ad Alcibiade, che perse il terzo mandato governativo nel 417 e si ritrovò Nicia al Governo. Cessato un breve periodo di tregua, Alcibiade tornò in auge col suo progetto guerrafondaio: dopo un'astuta campagna dietro le quinte da semplice politico di opposizione - ma Plutarco fa capire che per qualche mese tempestò di lusinghe e di denari i capi di Argo - Argivi e Ateniesi, col consenso di Nicia ancora corrotto dall'instancabile Alcibiade, ridiedero battaglia a Mantinea contro Sparta.
 
Si tornava finalmente in campo aperto. Astutamente, Alcibiade se la fece alla larga e si salvò dal disastro: ben 200 opliti attici e due generali ateniesi rimasero uccisi e Sfacteria era stata vendicata con onore delle armi spartane. Nicia e Alcibiade, le anime nere della disfatta, però approfittando del luttuoso evento e di comune accordo per salvare la faccia compirono il disdicevole fatto di Iperbole appena narrato, che da allora (417) cessò di essere il terzo incomodo di quel discutibile governo. Che fare, ora con gli spartani ringalluzziti, arrivati ad invadere l'Attica? Per prima cosa tornarono a spartirsi il Potere: divennero di nuovo strateghi e poi l'anima nera di Alcibiade riattivò una mossa strategica che già i nemici avevano con successo sperimentato: spostare le operazioni militari - mai cessate del tutto dal 421, se non per brevi scaramucce per procura, come si disse per la guerra del Vietnam negli anni '60 del '900 - dal Peloponneso verso Anfipoli di Tracia, porto commerciale ateniese fin dai tempi di Cleone. Anche qui, il voltafaccia di Perdicca, re Macedone e zio del futuro Alessandro, bloccò l'iniziativa, perché chiuse il suo territorio agli ateniesi e lo aprì a Sparta. Allora Alcibiade pensò di attaccare un’isoletta delle Cicladi, ex colonna spartana, cioè Milos.
Ora si assistette a quello che avverrà quindici secoli dopo a Varsavia: come nel 1944 la capitale polacca andò in rivolta contro l'occupante nazista, che represse nel sangue quell'insurrezione con gravi perdite e la distruzione di gran parte della città; così l'isola di Milos, sotto l'anello di ferro degli ateniesi di Alcibiade, fu costretta ad arrendersi verso la metà dell'inverno. Nel caso di Varsavia, l'esercito Sovietico non intervenne a salvare la città perché i nazisti fecero il lavoro sporco di massacrare molti dissidenti democratici non comunisti, che da lì a poco potevano impedire la sovietizzazione della Polonia, nel caso di Milos la morte di uomini, donne e bambini, o la loro schiavizzazione, fu voluta dagli spartani che non vollero soccorrerli dal mare, visto che gli isolani erano chiaramente impotenti di fronte alla flotta ateniese.
 
Neppure gli ateniesi furono clementi, come era capitato con Mitilene (415), risparmiata da notevoli massacri di popolazione inerme, differenza che lo storico Tucidide non mancò di rilevare, addossando la maggiore responsabilità indiretta allo stesso Alcibiade, di cui era nota l'idea che un esempio ammonitore fosse necessario per tutti gli alleati. Del resto, erano palesi i contatti personali con Argo del duce ateniese, che da anni aspirava alla guida autoritaria della lega. Alla fine della fiera, e mentre era ancora in atto l'assedio di Milos, ultima spiaggia delle pretese di Alcibiade; un'altra guerra per procura, sembrò cadere a fagiolo per il Duce ateniese, la cui fama di stratega militare sembrava segnare il passo. Dalla Sicilia veniva una richiesta di aiuto da parte di Lentini, i cui oligarchi erano aggrediti dalle pretese di Siracusa, il cui nuovo governo li minacciava di invasione. E Selinunte. Legata a Sparta, nel 416 aggredì Segesta, vecchia colonia ateniese quanto Lentini.
Le richieste non erano nuove dalla Magna Grecia: già Turi in Puglia nel 433 aveva avuto e ottenuto per un caso analogo l'appoggio di Pericle. In un momento di difficoltà politica, Alcibiade colse la palla al balzo: con una flotta agguerrita e con alleati locali ben disposti; un'azione invasiva in grande stile avrebbe riportato l'Impero in auge e il suo capo - naturalmente Alcibiade!- ne avrebbe avuto l'occasione per indossare la corona di Dittatore. Nicia nicchiava: da pacifista razionale, conscio delle difficoltà operative di fronte al pericolo che gli Spartani finalmente si fossero decisi di attaccare alle spalle l'Attica; proponeva una piccola spedizione solo a Segesta, temendo le reazioni di Gela contro la quale aveva combattuto all'epoca di Pericle con qualche pericolo anche personale. Ci volle la retorica di Alcibiade e tutta la violenza non solo verbale delle squadre armate di giovinastri favorevoli alla guerra, oltre alle proverbiali manovre di corruzione del Duce, per convincere l'assemblea popolare ad accettare le richieste degli ambasciatori di Segesta e Lentini. 134 Triremi e 6000 fanti partirono per la Sicilia. Nicia abbandonò i dubbi e Alcibiade - come Napoleone in partenza per la campagna d'Italia del 1797 e come Mussolini per la spedizione in Russia nel 1941 - si fregò le mani credendo che fosse scoccata finalmente l'ora del suo destino. I due capitani fremevano per la conquista di un'isola ricca che veramente avrebbe trasformato la logora Repubblica in un Impero Asiatico. Sebbene non fosse chiara la guida finale delle operazioni; l'entusiasmo popolare secondo Tucidide era inversamente proporzionale al rischio che si correva di impantanarsi in uno definitivo fallimento, che gli eterni nemici non cessavano di sperare. Ma all'evento inaspettato della Sicilia, un altro si aggiunse ancora di più eccezionale, il cosiddetto scandalo delle Erme, avvenuto proprio nei giorni della partenza della flotta per la Sicilia.
 
Questo consistette nello sfregio notturno sulle teste scolpite su pilastri quadrangolari posti agli angoli delle strade di Atena, lesive degli organi genitali maschili. Un segno spettacolare di Malaugurio a dire del Popolo che smorzò l'eccitazione popolare che Alcibiade e i suoi avevano attizzato a favore della spedizione. Chi si era permesso di vilipendere in quel momento i sacri simboli? E a maggior ragione, Alcibiade non poteva sembrare non estraneo, anche perché il fatto che le masse popolari, a stento convinte della necessità della spedizione, rapidamente avrebbero mutato opinione per il cattivo auspicio che i promotori politici avrebbero ottenuto. Tucidide (libro VI, par. 28) narra che le indagini ebbero risultati molto scarsi: servi e nutrici - immigrati privi di cittadinanza - negavano le loro responsabilità; ma gli interrogatori di un accusato molto sospetto trovavano che il blasfemo Alcibiade, in precedenti occasioni in pubblico e con l'appoggio di filosofi sofisti che praticava, aveva deriso i misteri Eleusini. Platone invero lo aveva accennato in un dialogo con Socrate proprio a casa sua. Del resto, i commissari d'inchiesta erano coloro che da membri dell'assemblea legislativa non avevano perdonato ad Alcibiade il tradimento fatto ad Iperbolo e che nel gesto irriverente vedevano una subdola manovra contro Nicia, senza contare che le speranze di un buon esito della spedizione lo avrebbe candidato alla tirannia. E non è un errore pensare che Cesare e Napoleone, lettori di Tucidide e Plutarco, lo avevano preso ad esempio per le conquiste di Roma e Parigi dopo le imprese in Gallia e in Egitto. Alcibiade pretese subito un processo quando le navi erano già al Pireo pronte a partire per difendere la sua fama di condottiero e di uomo senza paura, un eroe da contrapporre agli spartani per vendicare la sconfitta di Mantinea. Il rischio che Nicia ne avrebbe approfittato - come farà Pompeo e Barras - indusse Alcibiade a proporre un accordo: rinviare il processo e chiamare un altro generale - Lamaco - che insieme a lui avrebbe rafforzato il comando e il controllo sulla spedizione e sulle mire del giovane duce. Nicia accettò con rassegnazione ma pretese una contropartita: attaccare subito la filo-cartaginese Selinunte e poi rivolgersi contro la potente Siracusa, accampandosi a Lentini, città alleata; nonché allargare la spedizione alle forze di Argo e Mantinea, onde impedire che la stessa Selinunte e Siracusa facessero fronte comune. Strategia che venti secoli dopo premiò Hitler che arrivò nel 1940 a Parigi prima che Stalin e Churchill si accordassero contro la Germania.
Con queste premesse, che già prefiguravano una disfatta - dato che Nicia di fatto non aderì a nessuna di tali proposte - iniziò quella drammatica impresa e che costituì il principio della fine della peste politica di Alcibiade. Infatti dal giorno della partenza della grandissima flotta per la Sicilia, armata ed equipaggiata più della flotta di Omero per Troia, a dirla con Tucidide; la fortuna di Alcibiade, fino ad allora ben manovrata su consiglio dell'amico Socrate era stata in ascesa. Ma l'abilità del giovane parvenu poco poteva resistere all'evento più temuto dagli Ateniesi fin dal 421, vale a dire la ripresa diretta della guerra col nemico di sempre, la Sparta dei Lacedemoni. Malgrado la pace ottenuta dal generalissimo Nicia, dopo la morte in guerra dei due capi delle rispettive potenze - Cleone e Brasida - una tregua non belligerante si era mantenuta per più di 5 anni. Poi le rispettive politiche espansive nel Mediterraneo e in Sicilia in ispecie si erano di nuovo riaperte.
La guerra fredda o meglio la guerra per procura fra Atene e Sparte riprese vigore proprio nell'isola: mentre i nemici barbari - Persiani, Cartaginesi e Macedoni; stavano a guardare, come oggi Cina, India e Turchia non si esprimono né contro né a favore degli U.S.A. e della Russia nella vicenda Ucraina. Selinunte e Siracusa si guardavano storto per il possesso dell'isola; e per converso, Segaste e Lentini chiedevano ad Atene di aiutarle, solleticando la loro origine attica contro la simpatia spartana delle altre due, ma non disdegnavano neppure una a certa attenzione ai commerci con i Cartaginesi. Atene ruppe gli indugi e Alcibiade e Nicia, i due consoli - o meglio strateghi - dopo le schermaglia che abbiamo visto, partirono con un terzo comandante, Lamaco, che somigliava molto al terzo triumviro romano Lepido, che fungeva più da arbitro che da capo militare fra Cesare e Pompeo.
 
Proprio allo scadere del giorno della partenza, lo scandalo notissimo dello sfregio alle Erme sembrò raffreddare gli uomini, come quando Napoleone Buonaparte, poco prima dello sbarco in Egitto, seppe che l'armata francese del Reno guidata dall'omologo generale Moreau, aveva subito a Cassano d'Adda uno scacco da parte degli Austro-Russi di Suvorov. come Napoleone poi, anche Alcibiade dell'evento delle Erme non ebbe preoccupazioni. Nicia e Lamaco, nonché il Consiglio di Stato (la c.d. Bauli) non si fermarono ad incriminarlo, benché le accuse generiche di blasfemia a suo carico non erano da dimenticare. Turi, Reggio e Catania furono i primi porti dove la grande flotta fece rifornimenti, mentre Siracusa si preparava a resistere ad un probabile doppio assedio di mare e di terra; Selinunte, conscia della scarsezza delle truppe, pensava invece di intavolare negoziati . Alcibiade proponeva la sua vecchia strategia: conquistare i piccoli centri con una politica militare del carciofo, senza attaccare direttamente Siracusa, una potenza locale coriacea, che poteva cadere per fame quasi senza gravi perdite. Nicia e Lamaco volevano piuttosto stanare e abbattere l'isolotto aretuseo, cosa che Lamaco, il sergente di ferro di turno aspirava a conquistare al più presto per tornare presto a casa. Da dove intanto giungevano notizie di una svolta del processo sulle Erme; un classico pentito, tale Andocide, confessò la responsabilità dello sfregio risaliva alla società segreta (eteria) di Eufileto, un sodale conclamato di Alcibiade, promotore del fatto proprio per dimostrare l'inesistenza degli Dei sfregiati. L'arroganza di quel gesto - a dire delle stesso Andocide - ci somiglia al comizio di Mussolini del 1904 quando sfidò Dio a fulminarlo mentre parlava e malediva, con lo stesso intento di sfatarle forse su consiglio dell'amico Socrate. Sebbene i colleghi del partito democratico - nonché gli oligarchi conservatori che gli erano in simpatia - non credettero affatto a tale voce, non vedendo alcuna utilità per uno stallo alla partenza per la guerra. Eppure il moderato Tessalo, nonché il radicale Androcle, fedeli ai loro partiti avversari, convinsero l'assemblea legislativa a mandare la nave Salamina per prelevare senza indugio il generalissimo e riportarlo in patria per il processo.
Si apriva quindi l'ennesimo duello fra le classi dirigenti dell'impero: i democratici non cessavano di criticare Alcibiade per corruzione morale e politica, rinfacciandogli sempre la condotta trasformista che lo aveva visto prevalere contro l'onesto Iperbolo, avviando contatti e complotti segreti con lo stesso Nicia e provocando l'esilio forzato del primo. Le analogie con Cesare, Napoleone e Mussolini, non cessano di stupire: Cesare più volte giocò a due mani con Pompeo; Napoleone tramò con gli esuli monarchici perché gli giurassero obbedienza da Imperatore, Mussolini si alleò con gli agrari e industriali affinché fosse più facile occupare Roma e poi a sciogliere di fatto il sistema liberaldemocratico. Di Alcibiade dalle narrazioni di Tucidide e Plutarco - per altro non suo coevo, ma cronista del 2° secolo d. C. - era fortemente influenzato dalla corruzione politica di Roma dilaniata dallo scontro fra Ottaviano e Marco Antonio. Da una parte si dubitava di affidarsi alla forza delle armi per arrivare alla dittatura come fu per Napoleone e Cesare; ma dall'altra si sperava - come per Mussolini - piuttosto di mantenerne il consenso popolare affidandosi alla giustizia favorevole e sembrava che Alcibiade si schierasse con chi pretendeva di mandarlo a giudizio, magari dopo il rientro da vincitore in Sicilia. Sbarcato a Turi, però capì subito che la guerra non sarebbe stata né breve né facile.
La politica pattizia di Nicia e la resistenza di Siracusa lo preoccupavano. E quando arrivò la Salamina a prelevarlo decise di ritornare subito, come Napoleone dall'Egitto, dove già ad Abukir sul Nilo la flotta francese aveva subito una rotta dalla flotta inglese di Nelson. Alcibiade forse seppe che Siracusa, coll'aiuto degli spartani, si era ben armata e che la sconfitta sul campo non era affatto impossibile. Quindi scelse di tornare ad Atene sulla Salamina. Durante il viaggio però cambiò opinione e capì che il rischio di condanna a morte era altrettanto reale e dunque raggiunse Sparta dove venne accolto fra gli onori, divenendo il primo consigliere di quello Stato e sperò che il vento cambiasse a suo favore. Gli riuscì dopo che però vide la sua condanna in contumacia e la tristissima pena capitale irrogata ai suoi familiari, nonché la perdita di tutti i beni.
 
Fu un tradimento quello di servire Sparta? Fu un rancore tipico di molti esuli, come per i fratelli Rosselli in Spagna e di Brecht in America! Oppure lo smascheramento della sua coscienza tirannica che assillò come Mussolini a Salò? Fu una rivolta contro la debolezza della democrazia che dall'altare lo ributtò nella polvere, come Manzoni poetò di Napoleone? Gli storici romantici - da Nieburg al Wilamowitz - misero in evidenza i vecchi rapporti con i conservatori spartani e con il radicale ateniese Pisandro, che organizzatore del futuro Colpo di Stato autoritario del 411 ad Atene e che a sua volta complottava contro Androcle, nuovo governante da sempre suo acerrimo nemico. In realtà, Canfora, nostro storico contemporaneo, ha qui rilevato la vera natura tirannica di Alcibiade che ormai aveva assunto pubblicamente alleandosi con Sparta. Nondimeno va rilevato come Alcibiade avesse accolto le teorie politiche dei Sofisti dell'epoca: si pensi al filosofo di lui contemporaneo Antifonte che sul concetto di politica e di democrazia aveva parlato di relativismo ideologico fra Democrazia ed oligarchia, anticipando la formula di Nietzsche, senza contare anche le considerazioni di Socrate sul potere della forza e sulla forza del diritto. Convinzione che lo spingevano comunque a tornare in Patria anche se il potere gli fosse stato garantito dalla spada di Sparta. Un po' come Mussolini che da Salò sperava di ritornare a Roma come governatore dei nazisti. Intanto, fallita la spedizione a Segesta, Lamaco e Nicia per quasi un anno ebbero qualche piccolo scontro attorno a Siracusa, senza risultati essenziali e dunque nel Novembre del 415 si acquartierarono a Catania.
Alcibiade suggeriva agli spartani di attaccare i compatrioti e fu contento che Gilippo, generale spartano di lungo corso, già vincitore di Atene a Turi nel 433 a. C. fosse inviato in soccorso di Siracusa. Anzi offriva informazioni sulla conformazione del porto di Siracusa e già avvertiva che Nicia avrebbe attaccato l'isolotto di Ortigia, cuore della città. E così fu: dapprima sembrò la situazione favorevole all'aggressore Nicia perché Siracusa, benché fosse circondata da un muro molto alto che chiuse l'isola dall'esterno, era già stata occupata dal mare dall'imponente flotta ateniese. Già ad Atene i fuochi di festa erano acesi; ma Nicia non si accorse di una manovra alle spalle del muro. Vale a dire uno sbarco a sorpresa ad Imera, a nord dell'isola da parte di un commando spartano guidato dallo stesso Gilippo con non molti opliti ben determinati, a marce forzate entrò dal muro e portò i rifornimenti alla città molto utili per l'offensiva.
Nicia chiedette rinforzi ad Atene, che tardarono. Vi fu un lungo periodo di combattimenti che portarono ad una sanguinosa sconfitta degli ateniesi. Anche qui merita di ricordare che qualcosa di analogo avvenne nel secondo conflitto mondiale durante lo sbarco di nordamericani e degli inglesi nel luglio del '43. Così nel 413 il Porto Grande di Siracusa fu ripreso e iniziò la marcia di ritirata di Nicia e compagni verso la costa. L'esempio delle due ritirate di Russia nel 1812 e nel 1943 da parte di Napoleone e Hiltler ci pare sufficiente per segnalare l'analogia con questa tremenda ritirata. Solo un uomo poté gioire di questa tremenda sconfitta: il pestifero Alcibiade che da Sparta osservò contento quella disfatta. Non mancarono amici ad Atene che speravano come lui diabolicamente ad un ritorno del generalissimo, come i tanti che speravano nel ritorno dei fascisti al potere prima del'8 settembre del'43.
 
Quando ad Atene i messaggeri a bordo dello scafo veloce Parolo riferirono questi dolorosissimi fatti, lo scoramento del Governo democratico è enorme. Mentre gli Spartani irrompevano in Attica e a Decelea, a pochi passi da Atene, facevano base; mentre la spedizione di soccorso dello stratega Demostene trova Nicia e i resti della prima spedizione attestati sulle colline del Siracusano circondati dai locali e dalle forze fresche di Gilippo; mentre ormai la flotta spartana era padrone del porto aretuseo; mentre Alcibiade continuava a suggerire all'antico nemico ogni punto debole dell'armata attica; mentre Nicia e Demostene venivano fatti a pezzi e i pochi prigionieri soffrivano la fame e le torture nelle carceri siracusane; già nel 412 gli alleati di Atene rompono ogni legame con la città - Stato e perfino lo spartano Endio, su mandato delle isole Clio e Gerbo, tesse relazioni segrete col persiano Tissaferne, per strangolare la potenza di Atene. Uno scempio nella storia Mediterranea orientale dai tempi delle Guerre Persiane che ora tanto ricorda il patto Molotov-Ribbentrop del 1939 che strozzò la Polonia e che accelerò l'inizio della Seconda guerra Mondiale. Dietro gli accordi di Endio stava il mefistofelico Alcibiade, che anzi suggerì a Tissaferne di prendere Mileto, il porto subalterno di Atene e la cui conquista apriva la strada per Atene stessa. Di più: Tissaferne lo manda a chiamare proprio come suo consigliere. Alcibiade accetta di buon grado e si stabilirà a Samo, altra isola ora ribelle e qui continua a corteggiare i Persiani.
Forse lo spartano Lisandro, astro nascente di quel governo, ha capito la natura di quel genio del male e in nome della comune nazione greca non vuole passare per il traditore delle Termopoli. E quella peste, non più suo amico, ha pure capito che l'aria a Sparta gli è divenuta irrespirabile. Pensiamo allora a Rudolf Hesse, gerarca nazista di prim'ordine e delfino di Hitler, che il 10.5.1941 decollò da Augsburg e si paracadutò in Scozia e che voleva trattare con la Gran Bretagna per una pace onorevole nel momento in cui questa si trovava isolata. Tuttavia l'imbarazzo inglese e l'assoluta autonomia del gesto non sortirono effetti. Rinchiuso nelle carceri inglesi, fu condannato a morte a Norimberga nel 1946, senza che fosse provata la sua strategia pacificativa, anche per la forte contrarietà Sovietica di clemenza neppure pienamente sostenuta dalle Potenze occidentali.
Del resto lungo il 411 a. c. Alcibiade tenterà ogni via diplomatica per avvicinare Tissaferne alla patria e di portarlo contro gli Spartani, facendo leva sul partito democratico e sui sempre più numerosi aderenti al suo progetto di cambio di regime. Mentre gli oligarchi tentennano e temono che Tissaferne passi dalla parte opposta; Alcibiade soffia sempre sul fuoco. Gli oligarchi allora tentano il tutto per tutto: nel giugno di quell'anno, prima di arrivare alle barricate per le strade, 400 di loro si costituiscono in Consiglio e varano una dittatura conservatrice, revocando ogni organo istituzionale.
 
Il Colpo di Stato, però, voleva un uomo solo di polso alla guida. E chi se non Alcibiade? Richiamato finalmente in Patria, rimesso una seconda volta sull'altare, sempre seguendo le parole del Manzoni su Napoleone; fra il novembre del 411 e del 408 a.c., il generalissimo batte ad Abido gli Spartani e cattura perfino una buona parte della loro flotta. Ha l'ardire perfino di recarsi da Tissaferne per discutere di pace. Ma il Satrapo persiano non ci casca più: lo sbatte a Mileto in carcere e solo con l'appoggio di un amico, tale Mantiteo - o suo amante, o suo corrotto, non si sa - riesce a fuggire e a rientrare a Clazomene, città amica. La terza guerra del Peloponneso si accende. Il governo democratico ad Atene ritorna al potere: il nuovo esercito vince gli spartani e i persiani in Calcedonia e a Bisanzio. Tuttavia, la missiva di pace dello spartano Endio è respinta e al più questi ottiene una tregua, simile a quella di Nicia, forse in occasione di Olimpiadi. Il 410 passa in relativa tranquillità. Alcibiade si sposa con Ipparete, figlia del ricchissimo Ipponico, il classico nuovo arricchito e pescecane di affari fatti nel periodo di guerra.
Il maturo Alcibiade tesse il suo trionfale ritorno ad Atene, festeggiato e riproposto alla guida dello Stato e delle truppe, amnistiato per il caso delle Erme, ritornato il parvenu del Paese, per la terza volta è sugli altari, più di Napoleone! Ma ecco il suo Nelson, quel Lisandro che durante l'esilio di Alcibiade a Sparta lo aveva temuto, rispettato e praticamente copiato. Divenuto Re della città lacedemone, comincia il duello con Alcibiade, forse ormai appagato dalla agognata conquista del Potere. I Persiani ritornano l'obiettivo di Lisandro, anche per riaprire il secondo fronte con Atene. E accettano la sua proposta di aumentare la paga ai marinai greci sulle loro navi e quindi si ebbe un certo esodo di marinai esperti, senza contare che la nascente flotta spartana ormai è dotata di una maggiore consistenza tecnica. Ma il vecchio lupo si risveglia: Alcibiade tenta di riaprire un nuovo dialogo con Artaserse, un altro Imperatore Persiano. Siamo nel 406, anno decisivo per il Peloponneso e per Atene. Stavolta le manovre diplomatiche per un ennesimo campo rovesciato di alleanze non hanno successo. Invece una certa disattenzione, se non sfortuna lo perseguita: crede in Antioco, un giovane ammiraglio che gli appare idoneo a guidare la nuova flotta; poi si muove con l'esercito verso Nord per riunirsi al generale Trasibulo, altro generale di belle speranze che lo ha influenzato nei conviti notturni di Atene, ozi e vizi antichi che lo distraggono per un'altra volta come avvenne nei giorni preparatori della disgraziata spedizione in Sicilia. Le cattive scelte di collaboratori pagano: Trasibulo - come Grouchy a Waterloo - non riesce ad agganciare l'armata, nella Tracia per fermare i persiani in Anatolia; Antioco - come l'ammiraglio De Villeneuve a Trafalgar - non riuscì a distanziare le triremi pesanti dalle barche più piccole e veloci guidate da marinai greci mercenari e cadde a Nozio, vicino Efeso, in un mare Egeo ormai perduto per Atene. Di qui il secondo esilio di Alcibiade, cacciato ancora una volta da un raro accordo politico fra democratici e oligarchi. Anche qui ci sovviene un paragone storico: per un breve periodo la Convenzione Nazionale nel 1792 quasi al completo dichiarò la guerra alla Prussia e all'Austria che avevano invaso da Verdun il territorio francese. A Valmy la resistenza delle forze militari e la relativa controffensiva impedì la fine della Repubblica. E Goethe, inviato dal Principe di Weimar, ne gioì, ricordando nei suoi resoconti di aver visto là la fine del Medioevo. Invece lo scontro navale fra la flotta ateniese del mediocre navarco Filocle e il più quotato Lisandro vide appunto la vittoria di questi a Egospotami, una battaglia navale che potremo dire fatale non solo per l'impero ateniese, ma che neppure giovò a Sparta, altrettanto decaduta dopo decenni di guerra.
 
Una vittoria temporanea che produrrà fra qualche decennio il prevalere del regno di Macedonia che conquisterà tutta la Grecia con la nascita dell'Età ellenistica, periodo di civiltà paragonabile all'età romantica dell''800. Ma torniamo alla parabola finale di Alcibiade. Fra il 406 a.c. e il 404, il nipote di Pericle si fa un proprio feudo a Pattia nella Tracia e segue con sgomento la vicenda di Egospostami, che ben gli pare un segnale che anticipava la caduta dell'Impero ateniese. Forse la guerra di brigantaggio e pirateria contro la flotta spartana da lui ore perseguita avrebbe portato migliore fortuna che non lo scontro finale voluto da Filocle. E pensiamo al ruolo di Francis Drake che nelle sue guerre corsare al soldo di Elisabetta I favorì la vittoria della flotta inglese sulla invincible armada di Filippo II nel mar del Nord, quando nel 1588 questa poderosa squadra navale subì una rotta indimenticabile al largo del Devon, inaugurando il dominio dei mari della Gran Bretagna fino al Secondo Conflitto Mondiale. Nel 404, Alcibiade non è ancora domo: conquista la città frigia di Grinio e la dona al potente Farnabazo, Satrapo Persiano molto potente ed amico di Ciro contro il citatato Artaserse. Inoltre si fa strada l'ultima idea diabolica di Alcibiade: trattando proprio con Farnabazo, gli sottrae il piano di Ciro, fratello dell'imperatore Artaserse II, che voleva appunto detronizzarlo. Con la giovane amante Timandra - una delle etere del vecchio harem che aveva mantenuto negli anni giovanili ad Atene - raggiunge un villaggio della costa della sua Frigia, pronto a raggiungere la Corte di Susa. Ma i sicari di Farnabazo lo massacrarono la notte prima di partire, come sarà per Pompeo, fatto uccidere dal re Tolomeo di Egitto per compiacere Cesare suo tradizionale nemico. Una morte ingloriosa di colui che contribuì grandemente alla fine dell'Impero Ateniese e che però causò il processo unificativo della Grecia sotto l'Impero Macedone, con un Alessandro Magno non di meno privo di scrupoli e altrettanto genio militare come vedremo in seguito. Fu vera gloria quella di Alcibiade? Ai posteri l'ardua sentenza!
 
 
 
Nota bibliografica
        La natura avventurosa della vita di Alcibiade è stato oggetto del magnifico romanzo storico The Days of Alkibiades di C.E. ROBINSON, ed. London Edward Arnold, 1916, pubblicato sul sito archive.org
        Per la figura di Alcibiade intrecciata alle vicende della guerra del Peloponneso, vd. LUCIANO CANFORA, Il mondo di Atene, Roma - Bari, Laterza, 2011.

        Sulla morte di Alcibiade, vd. anche su questo blog, l'intervento del 31.5.2023 del prof. Ghiselli.

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