martedì 24 ottobre 2023

Ifigenia XXXVIII. L’assemblea studentesca. Prima parte

Mi ero dunque mosso dal primo piano per scendere a fare la lezione preparata e dovuta agli scolari. Nel separarmi da Ifigenia, ella mi fece un cenno amichevole con volto rasserenato. Simili alla pioggia e al sole nel cielo, sul volto di lei si alternavano, talora perfino si mescolavano sorrisi e lacrime.

Dopo l’intervallo c’era un’assemblea studentesca. Il popolo degli studenti si radunava nella palestra. Mentre accompagnavo i miei, attendevo un altro segno da Ifigenia sperando che sarebbe stato buono. Infatti mi venne vicina con volto disteso e disse che intendeva parlare agli studenti in assemblea. Se tornare a casa dal marito o in quella dei genitori l’avrebbe deciso più tardi.
Alla fine di novembre gli studenti liceali, in particolare quelli educati da me nei due anni precedenti, non avevano fatto il callo al nuovo predominio  della cricca clericale e fascista: i giovani non erano ancora deculturalizzati e spoliticizzati come sarebbero diventati nel giro di pochi mesi. Il non impedito assassinio di Aldo Moro era stato un segnale forte per la stessa classe politica italiana. Aleggiava nell’aria il detto di Caifas: “expedit ut unus moriatur homo”. Il suo tentativo di avvicinare il PCI al governo non era piaciuto a molti. Il 9 maggio del 1978 ha segnato una svolta nella vita politica italiana. Quindi sarebbero stati annientati politicamente Craxi e Andreotti per ragioni analoghe.
 
Da un paio di mesi il preside appena arrivato e i suoi complici pretendevano che a scuola non si facesse politica né cultura, che non si evidenziassero le immagini belle né le idee originali, sovversive, secondo loro, anche se lette nell’opera di Seneca. Erano guardati e trattati male i pochi docenti che impiegavano i testi per aprire le menti dei giovani a quanto di intelligente e di bello c’è nell’umanità e nel mondo al di là degli stereotipi imposti dalla pubblicità e dalla propaganda del potere.
Nel campo del latino e del greco docenti e discenti dovevano fermarsi a declinazioni, coniugazioni, regole ed eccezioni vere o presunte, senza arrivare al messaggio politico, estetico e morale contenuto nei testi. Come seppe che insegnavo il latino con la grammatica e la sintassi necessarie attraverso i testi di Seneca e i suoi messaggi morali avversi all’ingiustizia e alla prepotenza, il preside entrò in classe e cercò di sbugiardare il filosofo, del quale leggevo e commentavo la lettera 47, dicendo ai ragazzini che Seneca bastonava gli schiavi. Le parole “Servi sunt, immo homines. Servi sunt immo contubernales. Servi sunt immo humiles amici. Servi sunt immo conservi si cogitaveris tantundem in utrosque licēre fortunae (47, 1) secondo lui erano ipocrite e ingannevoli come chi le spacciava.
Gli alunni insomma dovevano pensare di meno e obbedire di più.
Pretendere che lo studio dei classici si fermi prima di dotare  i ragazzi dei mezzi della critica nei confronti delle varie tirannidi che vogliono annientare la libertà di parola, di pensiero e di sentimento, è come imporre che nel letto dove si nasce si dorme e si muore non si faccia l’amore o che nel bagno si faccia ogni cosa fuorché lavarsi.
 
Bologna 24 ottobre 2023 ore 11, 57 
giovanni ghiselli

p. s.
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