Virgilio, mosso a compassione della donna, e non volendo del resto incolpare il suo eroe, ritorce e fa ricadere sull'amore la maledizione indirizzata a Enea dall'amante abbandonata:"Improbe Amor, quid non mortalia pectora cogis!" (Eneide, IV, v. 412), malvagio Amore, a cosa non costringi i petti mortali!
E' un'apostrofe contro l'amore che viene messo allo stesso livello dell'auri sacra fames , la maledetta fame dell'oro la quale ha spinto il re di Tracia a sgozzare l'ospite Polidoro:"Quid non mortalia pectora cogis,/ auri sacra fames! " (Eneide , III, 56-57).
Apostrofe accusatoria di Eros simile a questa si trova nel quarto libro delle Argonautiche quando Apollonio Rodio rivolge un anatema ad Eros quale latore di infiniti dolori: Eros atroce, grande sciagura, grande abominio per gli uomini ("Scevtli j [Erw", mevga ph'ma, mega stuvgo" ajnqrwvpoisin" (IV, 445) da te provengono maledette contese e gemiti e travagli, e dolori infiniti si agitano per giunta.
Armati contro i figli dei miei nemici, demone, quale gettasti l'acciecamento odioso nell'animo di Medea ( oi|o" Mhdeivh/ stugerh;n fresi;n e{mbale" a[thn", v. 449).
Didone fa un'ultima prova: " ire iterum in lacrimas, iterum temptare precando/cogitur et supplex animos submittere amori,/ ne quid inexpertum frustra moritura relinquat " (Eneide, IV, vv. 413-415), è costretta ad arrivare di nuovo alle lacrime, a tentare di nuovo pregando e a sottomettere supplice l'orgoglio all'amore, per non lasciare nulla di intentato, destinata com'è a morire invano.-cogitur: riprende, con diatesi passiva, il cogis del v. 412 per significare l'invincibilità potenza di Eros. Quello dell'amore è un piano inclinato e scivoloso che conduce ineluttabilmente alla rovina (cfr. infelix, pesti devota futurae già nel I canto, v.712).
Dunque la regina manda la sorella Anna da Enea a chiedere l'ultima grazia (extremam...veniam , v. 435) di un rinvio:"tempus inane peto, requiem spatiumque furori,/dum mea me victam doceat fortuna dolere " (vv. 433-434), un tempo di intervallo chiedo, una tregua e un respiro al mio furore, finché la mia sorte insegni a me vinta a soffrire.
Con tali parole pregava Didone, e la sorella desolata riporta questi pianti a Enea “sed nullis ille movetur-fletibus aut voces ullas tractabilis audit-Fata obstant, placidasque viri deus obstruit auris” (438-440) non viene mosso dai pianti, e non ascolta nessuna parola disposto a trattare-lo impediscono i Fati e un dio chiude gli orecchi tranquilli dell’uomo
L'intervallo si deve concedere anche ai ragazzini nelle scuole[1] ma Enea, come un vero fatocratico rimane inesorabile:"fata obstant ", v. 440, i destini si oppongono, e la dura volontà dell'eroe si conforma alla necessità che ha le mani d'acciaio.
Come una valida quercia scossa dal vento viene agitata nelle foglie e nei rami però le radici che tendono al Tartaro rimangono immote, così l’eroe sente strazio nel cuore però mens immota manet; lacrimae volvuntur inanes (449) e le lacrime si versano nel vuoto.
Enea dunque ha respinto anche la richiesta di un differimento della sua partenza inviatogli da Didone che vorrebbe una tregua per imparare a soffrire senza morire, sicché è più spietato di Creonte che già nella Medea di Euripide poi in quella di Seneca concede una dilazione a Medea rispetto al comminato esilio.
Nella Medea di Seneca, Creonte concede alla moglie abbandonata da Giasone la brevis mora che ha richiesto (v. 288). Altrettanto fa il Creonte della Medea di Euripide sebbene entrambi temano la vendetta della donna deinhv che in effetti si vendicherà atrocemente.
Ma Enea è stato più accorto e pure più spietato del re di Corinto.
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Bologna 13 dicembre 2025 ore 19, 30 giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Danda est tamen omnibus aliqua remissio raccomanda Quintiliano nella sua Institutio oratoria , I, 8.