Forse avrei pianto anche se qualcuno mi avesse visto.
Piansi finché sopra il mio tavolino di ferro arrugginito si accese una piccola
lampada; allora asciugai le lacrime, aprii un quaderno che avevo con me, e
scrissi queste parole: “15 agosto 1975, ore 19,45. Sulla terrazza del casotto
di fianco allo stadio è già quasi buio. Questo luogo per me è un campo santo,
ma non un campo di morti, è un santuario di tante care persone vive nella
memoria. Mi vengono in mente tutti: Fulvio, Danilo deditus vino,
Luigino, Ulderico, Stefania, Elizabeth, Ezio, Alfredo, Claudio, Bruno, Silvano,
Eeva, Damaris, Faina, Katina, Kaisa, Helena, Josiane, Päivi, Päivi e la nostra
bambina.
Quasi tutti spariti: non sono più con me, qui nella
nostra polis fatata, piena di fate. E di fato. Dove siete finiti, poveri cari?
Anche tu Bruno mi sei caro adesso. Se tu fossi ancora
qui con me, almeno potrei litigare come facevamo nel tempo della tua vita
mortale: eravamo come una coppia di gladiatori allenati da Eros che, generoso
qual era con noi, premiava entrambi con quello di cui lo pregavamo.
L’anno scorso su questa terrazza celebravamo
ancora Eros e Dioniso cui sono care le danze e battevamo le mani alle fanciulle
d’Europa quando, come puledre balzavano agitando celeri i piedi e lanciavano in
aria le chiome quali Baccanti che folleggiano munite di tirso.
Mi vengono in mente tutti gli anni veloci trascorsi da
quando ne avevo ventuno: là nello stadio che ora si abbuia, nell’orto botanico
dalle piante strane, nel prato in mezzo ai collegi pieno di sole e di ragazze,
nel bosco , sul ponticello di legno, al Vigadó, al Palma, all’Aranybika, al
Müvesz[1], a Hortobágy, sul tram numero uno. Perfino sul tram, a parte la prima
volta che ci salii[2] nel 1966 da ragazzo terrorizzato, ho passato le ore più belle della
mia vita mortale con voi, in quest’ambiente di studio, di vacanza e di amori
dove non c’è mai stata competizione, né cattiva, livida invidia, cupo
risentimento, sordo e cieco rancore. Qui si veniva per imparare a vivere, a fare
l’amore. Una delle mie zie pretificate lo chiamava malevolmente “quel casino di
Debrecen”, mentre questo era un luogo sacro a Eros e a sua madre Afrodite che
ci riunivano in questa città incantata perché venerassimo con devozione il loro
nume possente.
Afrodite entrando in scena all’inizio dell’Ippolito di
Euripide si presenta così “Pollh;
me;n ejn brotoi'" koujk ajnwvnumo" - qea; kevklhmai Kuvpri~,
oujranou' t j e[sw ( vv. 1 - 2), grande e non oscura dea,
sono chiamata Cipride, tra i mortali e nel cielo.
Tale mi apparve Elena la sera della conoscenza del
1971. Ce la misi tutta per farmi benedire da lei. Lo fecero Elena e Cipride.
Dove siete finiti amici della mia gioventù? Sono
stanco Päivi, tanto stanco di inseguire la felicità senza raggiungerla. Avremmo
dovuto acciuffarla quando ci è passata davanti, poiché quella femmina - femina
- qhvlu" - felix - qhlhv - come la felicità, come la sorte, è
capricciosa, e ci ha presentato un solo kairov", un’occasione,chiomata
davanti ma calva di dietro.
Adesso, ispirato da due litri di birra, capisco, e,
anche se non sono un profeta[3], forse prevedo e presoffro già tutto[4]. Magari pregòdo anche qualcosa.
A parte la sbornia di adesso, ricordi la terra
desolata di Eliot, amore, e gli altri nostri autori - accrescitori? Quasi ci
eccitavamo nel citarli. Sì, poi facevamo l’amore. Era una cultura porno o santa
la nostra? Santa, santa, santa: tutto era santo qui a Debrecen.
Dove la troverò un’altra straordinaria come eri tu un
anno fa?
Ebbene, io non sono un profeta, non sono nemmeno un
aiuto profeta come il ragazzo che sostiene Tiresia cacciato dal tiranno, se non
altro poiché non sono più un ragazzo, ma non perdo i capelli per Bacco, né
divento canuto, grazie a Dio, e non ingrasso per niente, né ingrasserò, e se
questa sera ho bevuto birra a dismisura e ora sono ubriaco come Danilo,
tuttavia non sono ingrassato perché oggi non ho mangiato, ieri neppure, e
domani misurerò la giornata a cucchiaini di caffè[5].
Comunque non desidero la morte, anzi: crastinum
si adiecerit deus, laetus recipiam[6].
Ti devo ancora la mia snellezza. Päivi. Se un giorno
tu volessi vedermi di nuovo, mi troverai ancora belloccio come quando mi amavi.
Io dunque non sono Tiresia cui erano note l’una e l’altra Venere[7], poiché ne conosco una sola, sia pure con diverse donne.
Non sono Lazzaro, né sono Er figlio di Armenio, Panfilo
di stirpe, entrambi morti e trascinati alla nuova nascita con la velocità
delle stelle cadenti, ma so che continuerò a cercare l’amore, e tante volte
ancora lo troverò. E’ il mestiere più bello del mondo amare le donne e farsi
riamare da loro. Se per un giorno, un mese o un anno da ciascuna di loro, non
importa. Aborrisco il matrimonio ma adoro l’amore.
Almeno cinquanta. Almeno. Lo prometto a me stesso.
“Si sta bene a Debrecen, bisogna tornarci”, come
diceva Claudio prima che lo chiudessero in una tetra prigione. Debrecen rimane
il luogo dei ricordi più belli. Io ne sarò l’aedo, come ha predetto Fulvio,
sarò io il cantore ispirato dalla santità di questa cittadina tutta piena di
dèi. Le mie muse saranno le finniche amatae nobis quantum amabuntur
nullae. Sono ubriaco, ma un poco di latino e di Catullo li ricordo
tuttavia. E lo cito. Chi vuol essere lieto, sia. Però le sante Muse erano nove,
le mie finniche quattro o cinque, al massimo sei. Appena la sufficienza. Devo
completare il numero, colmare lo svantaggio rispetto alle figlie della
Memoria che sanno dire molte menzogne simili al vero, ma anche la verità[8].
Le italiane incontrate sinora in questo momento non
entrano nel conto.
Piuttosto
l’Elena cecoslovacca e la
Ciuvassa Faina. Josiane l’ho perduta con rimpianto.
Scusami Päivi ma chi a una sola è fedele, con le
altre è crudele. Don Giovanni era un bel tipo. Mi piace. E’ un modello per me.
Debrecen rimane il luogo dei ricordi più belli, dei giorni più felici della mia
giovinezza fuggente, la città dove ho conosciuto e frequentato gli amici più
cari di questi trent’anni di vita: Prima di tutti Fulvio che mi ha salvato
dalla disperazione rompendo gli odiosi catorci della cittadella di Dite dov’ero
racchiuso, poi Ezio, Alfredo, Luigi, Silvano, Danilo, sempre ebbro, come me adesso, e rubicondo.
Come sta facendosi il cielo, laggiù, sulla sinistra,
sopra la curva occidentale della pista da corsa.
Poi le mie donne migliori, le più intelligenti, le più
belle. Il catalogo non ha importanza. Mia passion predominante? Dopo i
fallimenti con le adultere scafate, con le intellettuali tristi e spietate, con
le colleghe nevrotiche, cercherò una giovin principiante[9].
Tra gli uomini il più bello, adesso che sei morto lo
ammetto, eri tu Bruno Pera. Delle donne Helena finnica, sì la pregnante
fascinosa. Forse per me anche un poco annosa. Coetanei eravamo noi due, Elena e
io. Fulvio ogni tanto dice con una certa concitazione: “eh sì eh, Gianni, la
donna deve essere giovane!” Poi si calma e aggiunge: “l’uomo no!”
Farò come Massimissa che ebbe un figlio a ottant’anni
suonati[10]. Sarà il primo. Poi altri dieci.
Allora, nel 2027 o 2028, mi accontenterò di
una quarantenne, quarantaduenne in ottima forma”.
Detto questo alzai verso il cielo il bicchiere quasi
svuotato e drizzai la testa con la bocca che schiumeggiava di birra.
Pensieri di un cervello ebbro in una stagione triste.
Note
[1] E’ un locale di Debrecen, come gli altri
nominati subito prima. Significa “artista”.
[2] Cfr. L’arrivo a Debrecen presente nel blog
[3] Cfr. T. S. Eliot, Il canto d’amore di
Alfred Prufrock, 84.
[4] Il doloroso grido "io ho presofferto
tutto" sarà ricorrente nella letteratura europea: dall'Eneide dove
il pio eroe risponde così alla Sibilla che gli ha preconizzato disgrazie:"non
ulla laborum,/o virgo, nova mi facies inopinave surgit;/omnia praecepi atque
animo mecum ante peregi "(VI, 103 - 105), nessun aspetto delle
fatiche, vergine, mi si presenta nuovo o inaspettato: io ho presofferto tutto e
ho compiuto in anticipo dentro di me con la mente.
In Curzio Rufo, Dario dice all’eunuco che gli portava
la brutta notizia della morte della moglie Statira: “cave miseri hominis
auribus parcas: didici esse infelix, et saepe calamitatis solacium
est nosse sortem suam” (4, 10, 26), non risparmiare le orecchie di un
pover’uomo.
Infine il Tiresia di T. S: Eliot:"and I
Tiresias have foresuffered all ", ed io Tiresia ho presofferto
tutto (La terra desolata, 243).
[5] Cfr. di nuovo Il canto d’amore di Alfred Prufrock di
Eliot.
[6] Cfr. Seneca, Ep. 12, 9.
[7] . Ovidio, Metamorfosi III, 323 Venus huic
erat utraque nota.
[8] Cfr. Esiodo, Teogonia, 27.
[9] Sto echeggiando qualche battuta del libretto di Da Ponte del Don
Giovanni musicato da Mozart.
[10] Nel XXXVI libro delle sue Storie Polibio racconta che
durante il secondo anno (148 a.
C.) della terza guerra punica morì, novantenne Massinissa, il re della Numidia
che viene elogiato per la sua vigoria, la sua fecondità (lasciò un figlio di
quattro anni ed altri nove figli) e rese fertile la sua terra, secondo il
principio che le capacità di un capo influenzano il suo popolo e perfino la
produttività della sua regione.
Bologna 22 novembre 2025 ore 18, 21 giovanni
ghiselli
p. s.
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