domenica 23 novembre 2025

Edipo a Colono, Secondo episodio vv. 740-752,


 

Creonte

Su, infelice Edipo, dammi ascolto 740

e vieni a casa. Tutto il popolo Cadmeo

ti reclama giustamente, e tra questi io soprattutto,

in quanto appunto, a meno che fossi il più malvagio degli

uomini, soffro per i tuoi mali, vecchio,

vedendoti malconcio e straniero 745

sempre vagabondo, e vai errando privo di risorse,  

con una sola accompagnatrice questa qui che io ahimé

non avrei creduto che sarebbe caduta in tanto

tormento, quanto il presente dove  è caduta questa disgraziata

che sempre si prende cura di te e della tua persona 750

con cibo e alloggio elemosinati, così giovane, inesperta

di nozze, ma tale da essere preda del primo venuto.752

Bologna 23 novembre 2025 ore 12, 02 giovanni ghiselli

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Un libro interessante.


Il castello di carte. Giovanna Albi.  Di Felice Edizioni (2025).

 

Oggi piuttosto che occuparmi del mio libro o di politica mi adopero per fare conoscere ai miei lettori questo romanzo di un’amica e collega. Presento la prima parte di un capitolo che mi ha attirato già con il titolo: “Il vitalismo di Leopardi” (pp. 92-95).

Ho sempre amato Leopardi e ho detestato Benedetto Croce che ci facevano studiare a memoria al liceo. La sua Letteratura italiana consta prevalentemente di aria fritta ma su Leopardi arriva alla totale incomprensione riguardo alla filosofia del Recanatesi e alla vita che “Fu, per dirla con un’immagine rozza , una vita strozzata (volume terzo, p. 73). Quindi: “La sua fondamentale condizione di spirito non solo era sentimentale e non già filosofica, ma si potrebbe addrittura definirla un ingorgo sentimentale”.

Ebbene, quando ero adolescente dovevo imparare siffatte panzane e ripeterle a pappagallo per prendere buoni voti . Mi sono accorto che tale critica era infondata sui testi di Leopardi leggendo a fondo il poeta e il filosofo. Giovanna Albi ha capito il Recanatese molto più e meglio di Benedetto Croce che oltretutto votò a favore di Mussolini mandante del delitto Matteotti.

Chiara, la protagonista del romanzo in questione, forse altera ego dell’autrice “Non trova giusto che uno dei poeti più vitali del panorama europeo passi alla storia della letteratura come lo sfortunato di turno” pure se è vero che le sue difficoltà nascono “dalla sua grandissima passione per la vita e dal fatto che la vita non rispose alle sue aspettative”. A me questo grande poeta e filosofo ha fatto amare la vita.

“Le aspettative di Leopardi, stante l’acutezza del pensiero, sono talmente alte e profonde che la vita non può rispondere” (p. 92)

Nemmeno le donne e gli uomini risposero a Leopardi durante la sua vita.

“Non a caso il poeta definisce il suo tempo “secol superbo e sciocco” (La ginestra, v. 53),  quindi aggiunge “ben ch’io  sappia che obblio/preme chi troppo all’età propria increbbe” ( vv.  67-68).  Sicché Leopardi fu tutt’altro che prono e pronto a piegare il capo innocente e renitente prima della morte inevitabile, come la sua ginestra “contenta dei deserti” e come l’onesto, eroico Giovanni Battista.

Ma torniamo a Giovanna Albi: “Chi pensa, come oggi, che la risoluzione del male di vivere, che nemmeno percepisce, stia nelle tre I (impresa, inglese, informatica), non può che vivere in un deserto emotivo, in cui certo funziona come animale produttivo, ma non come Uomo, nel senso pieno del termine. Ecco che cosa voleva essere Leopardi: Uomo nella pienezza del suo essere, esattamente come Chiara, che aborre i compromessi, le vie di mezzo, l’arrogante falsità e cerca l’autenticità dell’Essere, anche a costo di rimetterci del suo, cosa che le capita quotidianamente” (p. 93) .

Questo libro dunque ci mostra attraverso diversi episodi della vita di una donna libera la dimensione autentica e anche eroica della vita umana.

L’Odissea di Chiara mi è piaciuta perché tale donna mi è congeniale e mi sono congeniali pure le citazioni che Giovanna fa di alcuni tra i massimi autori della letteratura europea dai Greci nobili e antichi fino ai contemporanei.

Bologna 23 novembre 2025 ore 10, 43 giovanni ghiselli

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sabato 22 novembre 2025

La storia di Päivi. 35. Preghiera alle amiche e agli amici. Epilogo



Non volli che la tristezza prevalesse con voluttà depravata.

Mi venne in mente di nuovo Tacito: “Feminis lugere honestum est, viris meminisse "[1]

Mentre i fumi dell’alcol esalati svanivano a poco a poco, rivolsi una preghiera alle persone care le cui immagini aleggiavano lievi nel cielo sopra di me. Ora so che erano diventati gli exemplaria aeterna di amici, amiche e amanti che avrei incontrato nel seguito della mia vita e forse nelle prossime esistenze terrene.

 Elena l’ oujsiva[2] dell’amore, l’ijdeva di Afrodite, Danilo l’incarnazione di Dioniso, Fulvio l’exemplar dell’amico, Bruno l’eterno rivale cavalleresco  e così via,

Mi sentivo plenus his figuris quas Plato ideas appellat immortales, immutabiles, infaticabiles[3].

“Il ricordo di voi, la memoria del tempo felice passato insieme, rimarrà un bene prezioso, un tesoro conservato per costruire la felicità futura, la mia e quella delle persone cui vorrò bene nei prossimi anni.

Voi, donne della mia vita, mi avete nobilitato e potenziato rendendomi sempre meno debole, più capace di amare e meno incapace di farmi amare; poi, quando siete dileguate, mi avete comunque lasciato una forza che non è andata via. Avevi ragione tu Päivi: io rimango ottimista in ogni caso, amantissimo della vita e assai curioso di lei.

E non smetterò di cercare la felicità, come quella che ho provato nell’amore con te.

E tu Bruno, non eri un amico, eri piuttosto un rivale nell’agone premiato con gioielli veri, quelli  di carne e di anima, le donne dico, comunque sei sempre stato un antagonista degno di me. Ci siamo battuti in maniera leale per ottenere il favore delle femmine umane più belle. Devo ammettere che da vivo mi eri antipatico soprattutto perché anche tu piacevi. Proprio per questo te la sei goduta la breve vita che hai avuto in sorte, troppo breve ma per niente insignificante né triste. A Roma vivevi in un appartamento con vista sul Pantheon. Una sera ci siamo fatti una bevuta lì dentro, con Ezio e Alfredo. Ricordi, ricordi?

Siete ombre oramai, amici del tempo migliore, e io grazie a voi non sono un vecchio stanco delle ombre che vivono dentro di me, un lassatus senex in me viventibus umbris, non lo sarò mai. Continuerò a ricordarvi sempre con affetto e con la gioia della nostra gioventù.

Non lamentarti, povero Bruno.

Non lamentarti neanche tu gianni , e soprattutto, non disperare: tu adesso sei Odisseo o Ulisse che dire si voglia, non sei più Ettore, l’eroe perdente con il quale ti identificavi quando eri bambino, né l’infelice Leopardi dalla vita annegata nel dolore, il parente spirituale che citavi e recitavi da solo già negli anni Cinquanta osservando Recanati dal Pincio di Potenza Picena.  Nel frattempo hai imparato a non affogare nel mare in tempesta. A tratti sei stato sommerso dai flutti, ma sei riaffiorato sempre, come l’uomo maturo di Omero.

L’eroe della pazienza, dell’intelligenza e della conoscenza.

Presto tornerà il tempo bello e meritamente potrai gioire della luce del sole.

Non avvilirti: hai sofferto dolori più grandi di questo, e da poluvtla~[4] li hai sopportati, da poluvmhti~[5] e polumhvcano~[6], li hai superati, anzi, ne hai tratto sempre motivi di crescita. Quando in casa, o in parrocchia, tra gli scout, o in caserma, perfino a scuola, volevano mangiarti il cervello per assimilarti al conformismo di ognuno di quegli ambienti, hai sempre saputo difenderti con la tua sensibilità, il tuo amor proprio, la tua intelligenza, la tua volontà di ferro.

E ce l’hai fatta. Non sei diventato un morto vivente come volevano loro, i conformisti.

Luoghi comuni incarnati, cumuli di banalità.

Ce l’hai fatta perché non hai mai disperato: sei sempre rimasto deciso a trovare la felicità che ti spetta, magari con l’aiuto di Atena che pur senza essersi manifestata del tutto, ti ha dato una mano ogni volta, perché ti assomiglia e un giorno si lascerà incontrare da te”.

 

Epilogo. Gli amici celesti. La "circulata melodia"

 

Quando ebbi finito di scrivere queste parole, alzai dal quaderno gli occhi e guardai oltre lo stadio, verso l’occidente dove si vedeva ancora una striscia di colore acceso, rimasta a ricordarmi le estati felici degli anni passati, a far presagire i tempi belli degli anni futuri: su quella lista vermiglia, resistente al dilagare dell’azzurro che avanzava da oriente screziandosi già della luce brillante dei primi astri, mi apparvero i volti ridenti di tutti gli amici scomparsi eppure presenti.

Chiesi loro cosa volessero dirmi.

Risposero che non dovevo perdere la speranza, e non potevo sciupare il tesoro di umanità che ciascuno di loro mi aveva donato, ma con questo e con le mie forze dovevo continuare la lotta per la felicità, la mia e quella delle persone che il destino mi avrebbe fatto incontrare.

Questo mi dissero i compagni dei miei ventanni. Poi, mentre l’azzurro cupo del cielo si costellava tutto, gli amici si presero per mano, formarono una corona e cominciarono a cantare un canto popolare ungherese  girando intorno alla luce più viva; quindi il loro movimento diventò una danza gioiosa, rispondente alla circulata melodia 7 suonata dai violini degli tzigani, o degli angeli, che consolarono del tutto il mio pianto e lo trasformarono in un sorriso di speranza e fiducia.

Così vi ho visti riuniti per l’ultima volta, amici ventenni dei miei venti anni lontani, così voglio ricordarvi e farvi vivere in questa storia che anche voi mi avete ispirato: giovani, belli, felici, come siamo stati nelle estati “debrecine”, sorridenti come eravate in mezzo alle stelle sopra lo stadio e il grande bosco di Debrecen la sera del 15 agosto del 1975, quando i nostri venti anni ricchi di pathos terminarono e cominciò la comprensione dei sentimenti attraverso il logos, con una vita più responsabile, autentica e seria; meno immatura, superficiale, egoista.

 

 

 

 

Note

 

 

[1] "Per le donne è onorevole piangere, per gli uomini ricordare". Tacito, Germania (27, 1)

 

[2] Cfr. Fedro 247 C “oujsiva o[ntw" ou\sa”, l’essenza che essenzialmente è.

 

[3] Vfr. Seneca Ep. 65, 7.

 

[4] Odissea, 5, 354, paziente, che molto sopporta

 

[5] Iliade I, v. 311 e v. 440, molto intelligente

 

[6] Iliade II, v. 173, ricco di risorse

 

 7 Dante, Paradiso, XXIII, 109.


 

 

Bologna 22 novembre 2025 ore 18, 49 giovanni ghiselli

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La Pace auspicabile per salvare tante vite.


 

Gli anni passati da quando fallirono i tentativi di accordo diplomatico sulla contesa tra Russia e Ucraina sono costati distruzioni bibliche all’Ucraina e più di centomila morti tra giovani russi e ucraini. Più tanti civili soprattutto ucraini. Ora c’è un piano di pace che corrisponde più o meno a quanto chiedeva Putin. Sicché tutti quei morti potevano essere ancora vivi se la diplomazia scongiurava la guerra. C’è del resto chi ancora non la vuole. E quanti vogliono che “la guerra continui” non sono certamente i ragazzi Ucraini né quelli Russi bensì gli affaristi che lucrano sulle morti e le distruzioni. Il pretesto è che l’integrità dell’Ucraina non si tocca. Zelenskij che chiede altre armi ha già perso la guerra. Se questa continua l’Ucraina perderà altro territorio a meno che Macron, Kaia Kallas, Ursula von der Leyen e altri cosiddetti volonterosi si armino e partano per attaccare la Russia. Cosa molto improbabile, credo. Dunque intanto si faccia per lo meno una tregua e si smetta di ammazzare e distruggere.

Ce ne sono stati già troppi di morti.

All’Austria  sconfitta nella grande guerra fu tolto  il Sudtirolo, all’Ungheria la Transilvania, ma gli Austriaci e i Magiari non rinnovarono la guerra, e d’altra parte l’Italia concesse ai Sudtirolesi annessi al nostro Stato una larga autonomia e un benessere non inferiore ai Trentini e agli Altoatesini di lingua italiana. I fanatici martellatori della val Passiria smisero di compiere attentati.

La stessa cosa è possibile fare nelle regioni conquistate dall’esercito russo piuttosto che riprendere la guerra armata. Se non interverranno Stati europei in armi o armando Zelennskij di ordigni apocalittici , Putin conquisterà altro territorio, se interverranno rischiamo la terza guerra mondiale e l’uso delle armi atomiche con l’estinzione della nostra specie.

Sicchè è necessaria la ragionevolezza e la capacità di congetturare in base ai dati di fatto.

Bologna 22 novembre 2025 ore 19, 41 giovanni ghiselli

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La storia di Päivi 34. Pensieri ebbri nella sera di agosto che chiude un’epoca.


 

 

Forse avrei pianto anche se qualcuno mi avesse visto. Piansi finché sopra il mio tavolino di ferro arrugginito si accese una piccola lampada; allora asciugai le lacrime, aprii un quaderno che avevo con me, e scrissi queste parole: “15 agosto 1975, ore 19,45. Sulla terrazza del casotto di fianco allo stadio è già quasi buio. Questo luogo per me è un campo santo, ma non un campo di morti, è un santuario di tante care persone vive nella memoria. Mi vengono in mente tutti: Fulvio, Danilo deditus vino, Luigino, Ulderico, Stefania, Elizabeth, Ezio, Alfredo, Claudio, Bruno, Silvano, Eeva, Damaris, Faina, Katina, Kaisa, Helena, Josiane, Päivi, Päivi e la nostra bambina.

Quasi tutti spariti: non sono più con me, qui nella nostra polis fatata, piena di fate. E di fato. Dove siete finiti, poveri cari?

Anche tu Bruno mi sei caro adesso. Se tu fossi ancora qui con me, almeno potrei litigare come facevamo nel tempo della tua vita mortale: eravamo come una coppia di gladiatori allenati da Eros che, generoso qual era con noi, premiava entrambi con quello di cui lo pregavamo.

L’anno scorso su questa terrazza celebravamo ancora Eros e Dioniso cui sono care le danze e battevamo le mani alle fanciulle d’Europa quando, come puledre balzavano agitando celeri i piedi e lanciavano in aria le chiome quali Baccanti che folleggiano munite di tirso.

Mi vengono in mente tutti gli anni veloci trascorsi da quando ne avevo ventuno: là nello stadio che ora si abbuia, nell’orto botanico dalle piante strane, nel prato in mezzo ai collegi pieno di sole e di ragazze, nel bosco , sul ponticello di legno, al Vigadó, al Palma, all’Aranybika, al Müvesz[1], a Hortobágy, sul tram numero uno. Perfino sul tram, a parte la prima volta che ci salii[2] nel 1966 da ragazzo terrorizzato, ho passato le ore più belle della mia vita mortale con voi, in quest’ambiente di studio, di vacanza e di amori dove non c’è mai stata competizione, né cattiva, livida invidia, cupo risentimento, sordo e cieco rancore. Qui si veniva per imparare a vivere, a fare l’amore. Una delle mie zie pretificate lo chiamava malevolmente “quel casino di Debrecen”, mentre questo era un luogo sacro a Eros e a sua madre Afrodite che ci riunivano in questa città incantata perché venerassimo con devozione il loro nume possente.

 Afrodite entrando in scena all’inizio dell’Ippolito di Euripide si presenta così “Pollh; me;n ejn brotoi'" koujk ajnwvnumo" - qea; kevklhmai Kuvpri~, oujranou' t j e[sw ( vv. 1 - 2), grande e non oscura dea, sono chiamata Cipride, tra i mortali e nel cielo.

Tale mi apparve Elena la sera della conoscenza del 1971. Ce la misi tutta per farmi benedire da lei. Lo fecero Elena e Cipride.

Dove siete finiti amici della mia gioventù? Sono stanco Päivi, tanto stanco di inseguire la felicità senza raggiungerla. Avremmo dovuto acciuffarla quando ci è passata davanti, poiché quella femmina - femina - qhvlu" - felix - qhlhv - come la felicità, come la sorte, è capricciosa, e ci ha presentato un solo kairov", un’occasione,chiomata davanti ma calva di dietro.

Adesso, ispirato da due litri di birra, capisco, e, anche se non sono un profeta[3], forse prevedo e presoffro già tutto[4]. Magari pregòdo anche qualcosa.

A parte la sbornia di adesso, ricordi la terra desolata di Eliot, amore, e gli altri nostri autori - accrescitori? Quasi ci eccitavamo nel citarli. Sì, poi facevamo l’amore. Era una cultura porno o santa la nostra? Santa, santa, santa: tutto era santo qui a Debrecen.

Dove la troverò un’altra straordinaria come eri tu un anno fa?

Ebbene, io non sono un profeta, non sono nemmeno un aiuto profeta come il ragazzo che sostiene Tiresia cacciato dal tiranno, se non altro poiché non sono più un ragazzo, ma non perdo i capelli per Bacco, né divento canuto, grazie a Dio, e non ingrasso per niente, né ingrasserò, e se questa sera ho bevuto birra a dismisura e ora sono ubriaco come Danilo, tuttavia non sono ingrassato perché oggi non ho mangiato, ieri neppure, e domani misurerò la giornata a cucchiaini di caffè[5].

Comunque non desidero la morte, anzi: crastinum si adiecerit deus, laetus recipiam[6].

Ti devo ancora la mia snellezza. Päivi. Se un giorno tu volessi vedermi di nuovo, mi troverai ancora belloccio come quando mi amavi. Io dunque non sono Tiresia cui erano note l’una e l’altra Venere[7], poiché ne conosco una sola, sia pure con diverse donne.

Non sono Lazzaro, né sono Er figlio di Armenio, Panfilo di stirpe, entrambi morti e trascinati alla nuova nascita con la velocità delle stelle cadenti, ma so che continuerò a cercare l’amore, e tante volte ancora lo troverò. E’ il mestiere più bello del mondo amare le donne e farsi riamare da loro. Se per un giorno, un mese o un anno da ciascuna di loro, non importa. Aborrisco il matrimonio ma adoro l’amore.

Almeno cinquanta. Almeno. Lo prometto a me stesso.

 

“Si sta bene a Debrecen, bisogna tornarci”, come diceva Claudio prima che lo chiudessero in una tetra prigione. Debrecen rimane il luogo dei ricordi più belli. Io ne sarò l’aedo, come ha predetto Fulvio, sarò io il cantore ispirato dalla santità di questa cittadina tutta piena di dèi. Le mie muse saranno le finniche amatae nobis quantum amabuntur nullae. Sono ubriaco, ma un poco di latino e di Catullo li ricordo tuttavia. E lo cito. Chi vuol essere lieto, sia. Però le sante Muse erano nove, le mie finniche quattro o cinque, al massimo sei. Appena la sufficienza. Devo completare il numero, colmare lo svantaggio rispetto alle figlie della Memoria che sanno dire molte menzogne simili al vero, ma anche la verità[8].

Le italiane incontrate sinora in questo momento non entrano nel conto.

 Piuttosto l’Elena cecoslovacca e la Ciuvassa Faina. Josiane l’ho perduta con rimpianto.

 Scusami Päivi ma chi a una sola è fedele, con le altre è crudele. Don Giovanni era un bel tipo. Mi piace. E’ un modello per me. Debrecen rimane il luogo dei ricordi più belli, dei giorni più felici della mia giovinezza fuggente, la città dove ho conosciuto e frequentato gli amici più cari di questi trent’anni di vita: Prima di tutti Fulvio che mi ha salvato dalla disperazione rompendo gli odiosi catorci della cittadella di Dite dov’ero racchiuso, poi Ezio, Alfredo, Luigi, Silvano, Danilo,  sempre ebbro, come me adesso, e rubicondo.

Come sta facendosi il cielo, laggiù, sulla sinistra, sopra la curva occidentale della pista da corsa.

Poi le mie donne migliori, le più intelligenti, le più belle. Il catalogo non ha importanza. Mia passion predominante? Dopo i fallimenti con le adultere scafate, con le intellettuali tristi e spietate, con le colleghe nevrotiche, cercherò una giovin principiante[9].

Tra gli uomini il più bello, adesso che sei morto lo ammetto, eri tu Bruno Pera. Delle donne Helena finnica, sì la pregnante fascinosa. Forse per me anche un poco annosa. Coetanei eravamo noi due, Elena e io. Fulvio ogni tanto dice con una certa concitazione: “eh sì eh, Gianni, la donna deve essere giovane!” Poi si calma e aggiunge: “l’uomo no!”

Farò come Massimissa che ebbe un figlio a ottant’anni suonati[10]. Sarà il primo. Poi altri dieci.

Allora, nel 2027 o 2028, mi accontenterò di una quarantenne, quarantaduenne in ottima forma”.

Detto questo alzai verso il cielo il bicchiere quasi svuotato e drizzai la testa con la bocca che schiumeggiava di birra.

Pensieri di un cervello ebbro in una stagione triste.

 

 

Note

 

[1] E’ un locale di Debrecen, come gli altri nominati subito prima. Significa “artista”.

 

[2] Cfr. L’arrivo a Debrecen presente nel blog

 

[3] Cfr. T. S. Eliot, Il canto d’amore di Alfred Prufrock, 84.

 

[4] Il doloroso grido "io ho presofferto tutto" sarà ricorrente nella letteratura europea: dall'Eneide dove il pio eroe risponde così alla Sibilla che gli ha preconizzato disgrazie:"non ulla laborum,/o virgo, nova mi facies inopinave surgit;/omnia praecepi atque animo mecum ante peregi "(VI, 103 - 105), nessun aspetto delle fatiche, vergine, mi si presenta nuovo o inaspettato: io ho presofferto tutto e ho compiuto in anticipo dentro di me con la mente.

In Curzio Rufo, Dario dice all’eunuco che gli portava la brutta notizia della morte della moglie Statira: “cave miseri hominis auribus parcasdidici esse infelix, et saepe calamitatis solacium est nosse sortem suam” (4, 10, 26), non risparmiare le orecchie di un pover’uomo. 

Infine il Tiresia di T. S: Eliot:"and I Tiresias have foresuffered all ", ed io Tiresia ho presofferto tutto (La terra desolata, 243).

 

 

[5] Cfr. di nuovo Il canto d’amore di Alfred Prufrock di Eliot.

 

[6] Cfr. Seneca, Ep. 12, 9.

 

[7] . Ovidio, Metamorfosi III, 323 Venus huic erat utraque nota.

 

[8] Cfr. Esiodo, Teogonia, 27.

 

[9] Sto echeggiando qualche battuta del libretto di Da Ponte del Don Giovanni musicato da Mozart.

 

[10] Nel XXXVI libro delle sue Storie Polibio racconta che durante il secondo anno (148 a. C.) della terza guerra punica morì, novantenne Massinissa, il re della Numidia che viene elogiato per la sua vigoria, la sua fecondità (lasciò un figlio di quattro anni ed altri nove figli) e rese fertile la sua terra, secondo il principio che le capacità di un capo influenzano il suo popolo e perfino la produttività della sua regione.

 

Bologna 22 novembre 2025 ore 18, 21 giovanni ghiselli

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La storia di Päivi. 33 Il ritorno a Debrecen, in automobile, da solo, nel 1975. Il pellegrinaggio ciclistico con tre amici, nel 2011

Poi mi riscossi. Considerata la reticenza irata di Päivi e dei numi, decisi di andare in cerca di Anneli, l’amica dell’estate precedente, per consultarla.

Non la trovai nella sua stanza del collegio universitario di Yväskylä. Allora andai a cercarla nella casa dei genitori, in campagna: tra le betulle, i mirtilli, le folaghe e i cigni selvatici. Qualche uccellino sbiadito provò a farmi coraggio con il suo cinguettare querulo e fioco.

I due canuti signori finnici dissero che la loro figliola non era lì, né in Finlandia, poiché era partita per Debrecen due settimane prima.

Sicché , forzando la nera Volkswagen ormai stanca, portai Silvano a Bologna e ripartii immediatamente per la città del mio apprendistato amoroso, dove speravo di trovare la bionda, dolce, cosciente Anneli. Ma quando arrivai, era già ripartita, né alcuno seppe dirmi per dove.

Era il 15 agosto, l’ultimo giorno del corso estivo che si chiudeva con il Búcsú est[1].

Al tramonto andai a osservare lo stadio delle mie corse. Sedetti sulla terrazza delle feste dei miei vent’anni, della mia gioventù.

Non c’era anima viva. A quell’ora la gente cenava prima della festa finale.

Bevvi una birra grande e pensai alle mie finlandesi, a Eeva, a Katina, a Helena, a Kaisa, a Päivi; pensai pure a Josiane, a Faina, a Claudio in galera da un anno, a Fulvio che, infelicemente sposato, andava a piangere tutte le sere sulla riva del mare, siccome la moglie non gli piaceva più, a Bruno morto da quattro mesi, alla mia bambina non nata, a me stesso senza amore, senza amici, là nella puszta, trentenne solo e infelice, come quando ci ero arrivato la prima volta, ragazzo ventenne grasso, depresso, miope, foruncoloso, inetto, del tutto inidoneo e inadeguato all’amore , nel luglio del 1966[2]. Non avevo acquisito niente di solido in tutti quegli anni. Lapidi e fantasmi. Potevo sì trattarli come care immagini, icone belle dentro di me, però vicino a me non c’era anima viva, né corpo umano. Quale piega poteva prendere la mia vita così desolata? Avrei passato il tempo che mi restava, ogni sera come quella, da sordido anacoreta che rimugina tristi pensieri, o sarei andato in cerca di altre donne da donnaiolo più o meno contraccambiato, mai pago, piuttosto ognora vago di esperienze nuove, sempre più dissolute, finché annoiato dalla facilità degli adultèri avrei cercato di soddisfare libidini inaudite?[3]. Come Messalina, la meretrice Augusta, o come un vecchio sibarita annoiato della vita.

Avevo fatto l’amore con una donna incinta di un altro; una incinta di me aveva abortito. Quale poteva essere la prossima tappa erotica? Una suora smonacata?

Una novizia in calore?

L’avrebbero detto i giorni a venire che sono i testimoni più sapienti[4].

Avevo una cartolina: la scrissi a Päivi di cui mi era rimasto in mente l’aspetto migliore: l’interesse per la cultura, lo spirito e la bellezza.

Le tradussi in inglese questi versi di Dante: “Or puoi la quantitate/comprender dell’amor ch’a te mi scalda,/quand’io dismento nostra vanitate,/trattando l’ombre come cosa salda”[5]. E conclusi: “Ti amo.

gianni, o piuttosto la svigorita ombra di gianni”.

 

Poi andai a procurarmi un’altra birra grossa. Sedetti e bevvi ancora. Veramente ne avevo bisogno poiché non mangiavo da un paio di giorni, durante i dì e le notti passati a guidare la mia automobile nera, scura come può essere solo un feretro.

Me ne nutrii e inebriai quasi del tutto. Quindi, mezzo briaco, fui preso da un’immensa pietà per me stesso, uomo adulto, già più che trentenne, affettivamente fallito, senza una donna, senza un amico al mondo che mi pensasse volendomi bene. Mia madre, forse e le zie ma erano lontane e con altri problemi. Il nonno Carlo era già morto cadendo dalla bicicletta novantunenne e fratturandosi il femore. Non l’avevano operato perché troppo vecchio. Mi mancava anche lui.

Compassione per me stesso dunque, solo e senza affetti, compassione per il povero Bruno morto ante diem, quando per giunta era tutto contento di godersi la vita, a dire il vero un po’ disordinata, ma non più della mia. Nei miei confronti non era stato sempre un amico, però l’anno prima, lì a Debrecen, tra i giovani in festa su quella terrazza con lui potevo discutere; quel giorno invece, il 15 agosto del 1975, il dì del redde rationem, ero solo del tutto, senza nemmeno un gatto o un cagnolino da accarezzare, non più giovanissimo, pressocché disperato di trovare ancora l’amore, l’amicizia, la gioia di studiare, di vivere e di lottare.

 In quel momento neanche il mio impegno di educatore mi consolava: mi avevano dato una scuola professionale dove non potevo impiegare tutta la mia forza mentale che, rimanendo senza esercizio, presto si sarebbe afflosciata. Ero proprio solo nel mondo e non avevo niente da fare che mi piacesse. Come dopo il liceo Mamiani di Pesaro. Come quando, sei anni più tardi, la notte fra il 12 e il 13 giugno del 1981, Ifigenia sarebbe scivolata nel pozzo.

Appena il sole fu tramontato, bevvi la terza birra, enorme, e piansi. Piansi provando una strana consolazione, piansi a lungo, tanto non c’era nessuno.

 

 

Quando tornai a Debrecen in bicicletta, nell’estate del 2011, trentasei anni più tardi, una sera al tramonto, lasciati gli amici Fulvio, Maddalena, Alessandro, andai a rivedere il casinetto del tennis. La terrazza dove si danzava la sera è prospiciente lo stadio dove correvo di giorno.

Erano quasi le otto, non c’era anima viva.

Bevvi anche quell’ultima volta di Debrecen  una birra e pensai di nuovo alle mie Finlandesi. A Elena incinta, a quando lei e io eravamo uni e bini come ero stato con la mamma mia che aspettava la mia nascita, a Kaisa l’adultera dagli occhi azzurri, a Päivi che nel 1974 aveva abortito a Oulu la bambina concepita a Debrecen ; pensai a Bruno morto nemmeno trentenne, a me stesso, rimasto come sempre strutturalmente solo, ma non insicuro e infelice come quando arrivai nella puszta la prima volta, ragazzo sconciato, nel luglio del 1966.

Nel frattempo diverse altre amanti italiane e straniere mi avevano lasciato. Tutte, tranne quattro o cinque, mi avevano lasciato, o mi ero fatto lasciare io da loro, non lo so.

Veramente le tracce di alcune rimanevano in me.

Lì a Debrecen però pensavo soprattutto alle Finlandesi tornate a camminare sulla loro terra boscosa, a nuotare nei laghi dove le folaghe si tuffano a gara, dove veleggiano i cigni dal collo ricurvo come  prue, e zampettano le anatre azzurre. Non sapevo nemmeno se fossero ancora vive su questa terra meravigliosa. Erano state loro a renderla tale ai miei occhi, a farmela amare.

“Eravate a me care e ora nemmeno una è qui con me a bere la birra, tra sorrisi, carezze e baci, come si faceva allora”.

Affetti solidi li avevo acquisiti in tutti quegli anni. Fulvio, Maddalena e Alessandro erano venuti a Debrecen, in bicicletta con me. 1200 chilometri: una prova non piccola.

 Le donne mie benedette, più di cinquanta oramai, come era stato nei voti di tanti decenni prima, però erano volate via come uno stormo di uccelli spaventati da uno sparo. Eterna gratitudine anche a loro. Continuavo a piangere tanto ero solo.

 

Note

 

[1] Sera dell’addio.

 

[2] Vedi il capitolo L’arrivo a Debrecen, presente nel blog. Forse lo scriverò di nuovo, con senno rinnovato.

 

[3] Cfr. quanto scrive Tacito di Messalina, la meretrix Augusta: "iam (...) facilitate adulteriorum in fastidium versa, ad incognitas libidines profluebat " (Annales, XI, 26) oramai volta alla noia per la facilità degli adultèri, si lasciava andare a dissolutezze inaudite

 

[4] Cfr. Pindaro Olimpica I " "(vv.33 - 34)

 

[5] Purgatorio XXI, 133 - 136.

 

Bologna 22 novembre 2025 ore 18, 03 giovanni ghiselli

p. s.

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