Nel 1974, dopo il mese di Debrecen, il corso estivo
ebbe un’appendice di qualche giorno a Budapest. Di lì facemmo una gita a
Visegrád, situata su un’ansa del Danubio, dove il grande fiume divide
l’Ungheria dalla Slovacchia. A Buda eravamo alloggiati nell’enorme Budaörsi
kollegium dove potemmo avere una camera tutta per noi: la 717 del settimo
piano. Il collegio era tutt’altro che bello; non era per niente vicino alle
strade del centro dove la città sfoggia gli edifici venusti, come fa una donna
vanitosa con i vestiti eleganti, i monili raffinati e le pietre preziose.
Eravamo dunque lontani da luoghi ameni, da posti
eleganti e da ogni sfarzo costruito, scolpito o dipinto. Eravamo comunque
felici. Ricordo un pomeriggio. Affacciati all’alta finestra, senza avere niente
da fare, né compagni da frequentare siccome molti erano già partiti, né i
nostri libri da leggere, aspettavamo la pioggia da una nuvola inquieta che
prima aveva trasformato il sole splendente in un’ombra arancione, poi l’aveva cancellato
del tutto, quindi si era allungata in un cono nero e vorticoso fino alla
collina del Gellert, risucchiando con il suo turbinare le foglie già cadute da
tempo e diventate secche nella polvere della lunga canicola già prossima al
termine. La vacanza era quasi finita, finiva l’estate, probabilmente anche
l’amore nostro era vicino all’ultimo giorno, e stavamo là senza far niente.
Eppure tra noi non c’era angoscia né noia. La pena non c’era perché sentivamo
che i doni reciproci sarebbero comunque rimasti a nutrire e arricchire per
sempre gli spiriti nostri. Il tedio nemmeno, siccome tra noi lo scambio di idee
e sentimenti dettati dalla simpatia e dalla curiosità dell’uno per l’altra era
ancora vivace e frequente.
Gioivamo di ogni istante spremendolo in bocca, con i
denti, la lingua e il palato, come se quei minuti fossero un alimento prezioso
che ci avrebbe nutrito per anni. A questo punto della parabola ne sono passati
più di cinquanta. E ancora quel sapore rimane.
Le nostre parole, sebbene non dette nella lingua
madre, sapevano sempre di vita, di lavoro, di umanità, donne, bambine, bambini
e uomini, di fatti reali o progettati. Insomma non erano chiacchiere né luoghi
comuni. Vedevamo ogni cosa come problema, un ostacolo che ci faceva saltare e
salire sempre più in alto.
Dopo quei brevi giorni felici vissuti al Budaörsi, se
passo davanti a quella tomba monumentale dove giacciono i nostri ricordi,
situata come un guardiano alla porta occidentale di Budapest, a sinistra per
chi proviene dall’Italia e dal Balaton, mi fermo a osservare l’alta facciata
grigia, individuo la camera nostra, la 717 del settimo piano, la contemplo a
lungo, ricordo la sera nuvolosa che segnò la fine dell’estate del 1974, e mi
chiedo quando troverò di nuovo una donna dalla mente così lucida, dallo stile
tanto elevato, e capace di non annoiarmi mai con la sua presenza, di non
prosciugare né intorbidare le mie energie mentali, di non farmi sciupare il
tempo prezioso, il tempo pur troppo breve di questa vita mortale che scorre a
precipizio sulla nostra bellissima madre terra.
Il tempo è l’unico bene che considero veramente mio: “omnia
(…) aliena sunt, tempus tantum
nostrum est”1. Tanta roba mia
hanno rubato, ma il tempo non me lo sono mai lasciato portare via da nessuno.
Ora il tempo, che del resto già si era già annunciato
allora con l’assassinio di Allende, è quello del ritorno dell’invasore. C’è l’invasione
della prepotenza associata con l’ignoranza. “Bella ciao” era molto cantata
allora e lo è di nuovo. Ora comincio così, da solo : “questa mattina mi son
svegliato e ho ritrovato l’invasor”.
La nostra bambina non è venuta al mondo perché la
figliola di Päivi e mia, la bambina nata dal nostro amore non poteva e non
voleva nascere in un modo così sconciato.
Nota
[1] Seneca, Epistulae, I, 3.
Bologna 21 novembre 2025- ore 10, 11
giovanni
ghiselli
p.
s.
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