venerdì 28 novembre 2025

Didone, Enea e altri amanti tragici.

Titolo.

Didone Enea, e altre coppie di amanti tragici.

L'amore come guerra, ferita, follia e morte.

 

Quarta di copertina.

 

Questo studio presenta la storia di Enea e Didone insieme con quelle di altri amanti feriti dal loro stesso amore. I testi fanno parte principalmente della poesia  classica latina al cui centro si trova Virgilio quale  poeta  non solo delle letterature antiche ma di tutta la civiltà letteraria europea.

Il percorso di questo volume contiene diverse situazioni topiche tanto nell'arte quanto nell'esperienza umana: per questo si è certi che susciterà un forte interesse sia negli studenti sia negli insegnanti.

L'aspetto contenutistico, di forte richiamo emotivo, consente altresì di educare i giovani, attraverso "lo bello stilo"  di Virgilio,  a un uso preciso ed elegante della parola, in necessario contrasto con quella poltiglia linguistica , la quale sta provocando una vera e propria entropia comunicativa che impedisce  la comunione umana e fsavorisce la guerra. La mancata cura delle parole infatti diviene prima o poi indifferenza  pure per l’umanità.  Il bello è difficile, ma, quando viene bandito, l'animo umano ne  sente una  nostalgia acuta. Gli autori presenti e vivi in questo percorso sono dei classici siccome ci hanno lasciato pagine esemplari  che creano meraviglia, suscitano domande e riflessioni, suggeriscono pensieri, e in definitiva accrescono la nostra vita intessendola con quelle splendidamente immaginate da loro.

 

 

Didone Enea e altre coppie di amanti tragici.

L'amore come guerra, ferita, follia e morte.

Introduzione.

 

Al precedente lavoro sulla tragedia Medea di Euripide  affianco questo lavoro su Didone e  altre donne della letteratura ferite a morte per amore. Questa volta privilegio il latino che costituisce l'altra parte di quella "corrente sanguigna"  della quale vive  la letteratura europea: "e come un solo, non già due distinti sistemi di circolazione; giacché è attraverso Roma che possiamo ritrovare la nostra parentela con la Grecia"[1]. 

Per quanto riguarda la mia metodologia rimando all'introduzione del volume precedente; per l'importanza capitale del latino e la necessità della sua sopravvivenza cito alcune parole di Schopenhauer:"   

L'uomo che non conosce il latino somiglia a colui che si trova in un bel posto, mentre il tempo è nebbioso: il suo orizzonte è assai limitato; egli vede con chiarezza solamente quello che gli sta vicino, alcuni passi più in là tutto diventa indistinto. Invece l'orizzonte del latinista si stende assai lontano, attraverso i secoli più recenti, il Medioevo e l'antichità.-Il greco o addirittura il sanscrito allargano certamente ancor più l'orizzonte.-Chi non conosce affatto il latino, appartiene al volgo, anche se fosse un grande virtuoso nel campo dell'elettricità e avesse nel crogiuolo il radicale dell'acido di spato di fluoro"[2].

Il latino verrà presentato e reso  interessante attraverso il tema amoroso, con i suoi aspetti topici e le parole chiave del sermo amatorius (servitium amoris, domina, urere, ardor, vulnus, ulcus, sagitta) usate dagli auctores più accrescitivi nei testi più significativi.

Questo percorso attraversa diverse epoche e molti autori, greci, latini e dell'Europa moderna, tra i quali è centrale Virgilio con la sua poesia che raccoglie gran parte delle correnti spirituali del mondo classico anticipando non pochi aspetti della cultura odierna .

Sentiamo ancora T. S. Eliot:" fra i grandi poeti greci e romani, credo che andiamo massimamente debitori del nostro ideale di classicità a Virgilio (…) La speciale natura della sua comprensività è dovuta alla posizione, unica nella nostra storia, dell'Impero romano e della lingua latina: una posizione che può dirsi conforme al suo fato.  Questo senso del fato prende coscienza di sé nell'Eneide. Lo stesso Enea è, dal principio alla fine, una creatura del fato: un uomo che non è un avventuriero o un intrigante, un vagabondo o un arrivista; un uomo che compie il proprio destino non per forza o per decreto arbitrario-né certamente per brama di gloria - ma sottomettendo la propria volontà a un potere più alto (…) e dal punto di vista umano non è uno che sia felice o abbia successo. Ma è il simbolo di Roma, e quello che è Enea per Roma, l'antica Roma è per l'Europa. Così Virgilio si conquista la "centralità" del classico supremo; è lui il centro della civiltà europea, in una posizione che nessun altro poeta può condividere o usurpare"[3]. 

 Eliot è uno dei più convinti laudatores moderni del poeta mantovano, ed è un suo allievo ortodosso: in fondo il metodo mitico[4] è praticato già da Virgilio, quando, come vedremo, attraverso Didone l'autore dell'Eneide ripropone Medea, sia quella di Euripide, sia quella di Apollonio Rodio.

 

Detrattori di Virgilio.

 

Non mancano d'altra parte gli obtrectatores di cui anche devo dare conto per mettere a disposizione dello studente una critica contrastiva dentro la quale gli sia possibile fare una scelta autonoma attraverso un giudizio personale.

Faccio intanto un esempio riferendo la stroncatura nauseata di Huysmans: il protagonista di Controcorrente,  Des Esseintes, dà giudizi dissacratòri  su alcuni classici usualmente celebrati come sommi e ribalta le valutazioni canoniche, al punto che il giovane può  magari trovare autorizzata la sua antipatia per questo o quell'altro autore universalmente consacrato dalla critica scolastica.

"Virgilio (…) gli appariva non solo uno dei più esosi pedanti, ma anche uno dei più sinistri rompiscatole che l'antichità abbia mai prodotto. I suoi pastori, usciti pur mo' dal bagno e azzimati di tutto punto, che si scaricano a vicenda sul capo filastrocche di versi sentenziosi e gelati; il suo Orfeo ch'egli paragona a un usignolo in lacrime [5]; il suo Aristeo che piagnucola per delle api; il suo Enea, questo personaggio indeciso e ondeggiante che si muove come un'ombra cinese, con mosse da marionetta".

Virgilio avrebbe per giunta compiuto "impudenti plagi [6] di cui fan le spese Omero, Teocrito, Ennio, Lucrezio"; la metrica  sarebbe stata "tolta in prestito alla perfezionata officina di Catullo". In conclusione: "quella miseria dell'epiteto omerico che torna ogni momento e non dice nulla, non evoca nulla; tutto quell'indigente vocabolario sordo e piatto, lo mettevano alla tortura"[7].

 

Questo mio lavoro non raccomanda ortodossie né condanna le eresie. Eventualmente segnala con scarsa simpatia i luoghi comuni non autorizzati dalla ragione, contrari alla giustizia, ignari della bellezza. L’ortodossia è la “retta opinione”-la dovxa ojrqhv-.  e ognuno può averne una sua. L’eresia è una scelta ai{resi", una preferenza e questa non può né deve essere  obbligatoria.

Talora il bianco e il nero possono coesistere in una logica aperta al contrasto.

 

 Robert Graves nel suo pamphlet antivirgiliano[8] presenta l'autore dell'Eneide " come l'antipoeta per eccellenza, seguace di Apollo (non di Dioniso) nel costruire un poema come gioco di alta matematica letteraria e politica"[9].

 

Non è detto però che la matematica, quella alta in particolare, sia in contrasto con la poesia:  E.Pound[10] ha scoperto il correlativo oggettivo scrivendo:"Poetry is a sort of inspired mathematics, which gives us equations, not for abstract figures, triangles, spheres, and the like, but equations for the human emotions "[11], la poesia è una specie di matematica ispirata che ci dà equazioni non per figure astratte, triangoli, sfere, e simili, ma equazioni per le emozioni umane.

 

Nemmeno Pound d'altra  parte si trova tra i laudatores, anzi: "Negli anni più crudi del primo conflitto mondiale il canone di Pound escludeva seccamente Virgilio epico, e questi sono appunto gli anni del primo incontro con Eliot e del sodalizio con Yeats (traducendo rinuncio alle sfumature dialettali del testo inglese):"L'abisso che esiste fra Omero e Virgilio, fra Ulisse ed Enea, può venire illustrato in termini profani da uno degli aneddoti preferiti di Yeats[12]. Un semplice marinaio si mette in mente di studiare latino; si rivolge a un maestro e questi lo avvia all'Eneide. Dopo molte lezioni, il maestro fa una domanda riguardante l'eroe del poema. Il marinaio dice:"Quale eroe?" E il maestro:"Ma come? Enea, maturalmente, l'eroe". E il marinaio;"Cosa, un eroe? Lui un eroe? Diavolo, credevo che fosse un prete" (E. Pound, ABC of Reading, London 1961, p. 44)"[13].

 

La libertà e gli autori dell’età imperiale

 

Per quanto riguarda la libertà e il servilismo, sentiamo Leopardi : “ Le Filippiche di Cicerone , contengono l’ultima voce romana, sono l’ultimo monumento della libertà antica, le ultime carte dov’ella sia difesa e predicata apertamente e senza sospetto ai contemporanei. D’allora in poi la libertà non fu più oggetto di culto pubblico, né delle lodi e insinuazioni degli scrittori (…) E infatti colla libertà romana spirò per sempre la libertà delle nazioni civilizzate. Quelli che vennero dopo, la celebrarono nel passato come un bene, la biasimarono e detestarono nel presente come un male. I suoi fautori antichi furono esaltati nelle storie, nelle orazioni, nei versi, come Eroi: i moderni biasimati ed esecrati come traditori (Zibaldone, 459 ) (…) “Se  non altro non si potè più né lodare né insinuare e inculcare la libertà ai contemporanei espressamente, e la libertà non fu più un nome pronunziabile con lode, riguardo al presente e al moderno.

Quando anche non tutti si macchiassero della vile adulazione di Velleio, e Livio fosse considerato come Pompeiano nella sua storia, e sieno celebrati i sensi generosi di Tacito, ec. Ma neppur egli troverete che, sebbene condanna la tirannia, lodi mai la libertà in persona propria[14]. Dei poeti, come Virgilio, Orazio, Ovidio non discorro. Adulatori per lo più de’ tiranni presenti, sebbene lodatore degli antichi repubblicani.

Il più libero è Lucano” (Zibaldone 463).

 

A proposito della superiorità di Omero sugli epigoni vediamo l'Estetica  di Hegel:" Per citare un altro paio di esempi, ricordiamo l'episodio tragico di Didone, che è di colore così moderno da spingere Tasso ad imitarlo, anzi a tradurlo in parte letteralmente, e da suscitare ancor oggi l'ammirazione dei francesi. E tuttavia che differenza con l'umana ingenuità, verità e spontaneità degli episodi di Circe e Calipso![15]

Lo stesso si può dire della discesa di Ulisse nell'Ade. Questa oscura e crepuscolare dimora delle ombre appare in una nube tetra, in una mescolanza di fantasia e realtà, che ci incanta e stupisce. Omero non fa scendere il suo eroe in un mondo sotterraneo bello e pronto; ma Odisseo stesso scava una fossa, in cui versa il sangue dell'ariete che ha ucciso, poi invoca le ombre che sono costrette ad affollarsi intorno a lui ed egli chiama le une a bere il sangue vivificante, perché gli parlino e gli possano dare notizie, mentre scaccia con la spada le altre che si affollano intorno a lui assetate di vita. Tutto accade qui in modo vivo ad opera dell'eroe stesso, che non si comporta umilmente come Enea o Dante. In Virgilio invece Enea discende ordinatamente agli Inferi, e le scale, Cerbero, Tantalo e tutto il resto acquistano l'aspetto di una casa ben tenuta, come in un freddo manuale di mitologia"[16].

 

 

Gustavo Zagrebelsky  La pia ipocrisia di Enea eroe di regime

 

Una rilettura del personaggio virgiliano dall’abbandono di Didone al mito di Augusto

 

di Gustavo Zagrebelsky “la Repubblica” 14.5.2015

 

SIAMO sinceri! Enea non ci piace. Se dovessimo fare una graduatoria tra i personaggi dell’epopea troiana, in cima metteremmo probabilmente non lo spocchioso Achille, ma “il domator di cavalli Ettorre” dell’ Iliade. In fondo alla graduatoria, metteremmo proprio Enea il “pio”. In mezzo, l’astuto e inquieto Ulisse. Questo nostro atteggiamento ci dice che sono mutati i paradigmi. Ciò che piaceva allora, oggi infastidisce. E, in primo luogo, non ci piace la poesia al servizio del potere. Neppure Virgilio, infatti, ci è mai troppo piaciuto, perché fece della sua arte strumento di persuasione politica. Scrive bene, è levigato.

Ma non riusciamo a dimenticare che è stato un poeta di regime, stipendiato dal committente interessato a farsi tessere panegirici «di natura quasi mussoliniana» (Canfora). Il suo eroe letterario è Enea, ma l’eroe politico è Augusto, il destinatario del mito. Instauratore il primo; restauratore, il secondo, dopo i torbidi delle guerre civili e il disfacimento della Repubblica. Non una poesia civile, ma una poesia interessata, dunque, e, perciò malsana.

“Pio” è Enea, anzi di più: la pietas è la ragione della sua esistenza. Questa pietas è ciò che Virgilio propone come la virtù del principe. Gli Dei sono sensibili alle prove di pietas e rispondono con due prodigi archetipici, il fuoco che non brucia e la stella cometa. Entrambi riguardano il piccolo Ascanio e lo consacrano come il capostipite della gens di Augusto. Dentro Ascanio c’è dunque il futuro di Roma.

Ma, sulla strada accidentata verso la nuova patria, Enea incontra la contraddizione maggiore: eros. Eros e pietas sono nemici. Eros impone la sosta; pietas , la partenza. È la storia con Didone, cui è attribuito uno spazio capitale nell’architettura del poema. Anche Ulisse, nel ritorno verso la “petrosa Itaca”, incontra l’amore. È la storia di Calipso. Dopo la caduta di Troia, tutti e due hanno una missione, ma molto diversa: il ritorno alla casa di Itaca; la fondazione di un regno nel Lazio. La differenza è grande. L’ Odissea è l’epopea delle radici; l’ Eneide, della potenza politica. Odisseo deve ritornare per ricostruire la sua casa e trovare la sua pace. Il disegno di Enea è fondare un regno guerriero, sulle rovine d’altri regni. Di più: il ritorno a Itaca è il compito che Ulisse dà a se stesso da se stesso. Per Enea è diverso: egli, “profugo del fato”, ma salvato dagli Dei, è portatore d’un destino che gli è imposto dalla sentenza di Zeus. La sua pietas è la soggezione fedele a questo destino.

Basta mettere a confronto l’Ulisse nell’isola di Calipso e l’Enea nella città di Didone. Dopo sette anni di amori, Ulisse è preso dalla nostalgia della sua casa che Calipso non era riuscita a fargli dimenticare. Una forza irresistibile nasce dentro di sé, che lo chiama alla partenza. “Dentro di sé”: Ulisse è artefice delle sue proprie fortune e sfortune. Piange, Ulisse, in preda a vivo dolore, come quando la scelta sembra impossibile.

Ben diverso il distacco tragico e lacerante dell’eroe da Didone. Enea è costretto a lasciare Cartagine e la fuga, che a Didone appare come la crudele ricompensa del bene ricevuto, non può che essere da lei tacciata di perfidia: «La lealtà non è più al sicuro»[17], dice la regina. Ma Virgilio ci fa sentire anche la voce di Enea; e lo fa in un verso emblematico: «Arde di andarsene via e di lasciare quelle amate regioni»[18]. Nella prima metà del verso vediamo Enea con gli occhi di Didone: un uomo che non vede l’ora di andarsene; nella seconda metà del verso, vediamo invece Enea con gli occhi di Enea stesso: ne è spia un aggettivo, «amate ( dulcis) regioni», che Virgilio usa tutte le volte che deve esprimere lo strazio dell’abbandono. Partire, dunque, non è la sua vera volontà, e l’Italia, checché ne dicano gli Dei, potrà essere la sua nuova patria, ma non sarà mai veramente il suo amor. E qui sta la pietas come virtù che sacrifica il singolo e i suoi sentimenti. Il desiderio di Enea sarebbe un altro, però, e lo dice, cercando di giustificarsi con Didone viva («non inseguo di mia volontà l’Italia»[19]) e con Didone morta: nell’ultimo e impossibile dialogo con l’ombra della regina, Enea dirà: «Dalla tua terra, regina, sono partito contro la mia volontà»[20].

Aleggia, su questa storia, l’ombra dell’ipocrisia. In verità, Enea è dipinto con i tratti del codardo, al quale importa soltanto di salvare la faccia: vuole consolare “con giuste parole”, mostra grande amore, dice che non è colpa sua. Non segue di sua volontà l’Italia. Però, di nascosto fa preparare la flotta per partire. Sarà pure per evitare ch’ella faccia bruciare le navi: resta il fatto che è Didone che lo affronta e, forse, se non l’avesse fatto, se ne sarebbe andato alla chetichella. La dedizione totale al fato si accompagna al cinismo verso chi ama. Piacerebbe poter pensare che nell’episodio di Didone sia nascosto un messaggio a non esagerare nella pietas spietata di cui Enea è campione: un messaggio rivolto ai potenti dell’Impero.

Didone è solo la prima vittima di una lunga serie di ammazzamenti. Il progetto della Roma fondata dai discendenti dei Troiani si scontra con l’ordine dei Latini, ed è la guerra; una guerra che, in certo senso, è una guerra civile ante litteram, perché i due popoli sono destinati a fondersi. Il poema si chiude con l’uccisione di Turno, il re dei Rutuli, rivale di Enea. Turno, vicino a essere ucciso, ricorda a Enea il suo vecchio padre Anchise. Ed Enea sembra quasi rinunciare a sferrare il colpo fatale: Turno, infatti, è subiectus, sottomesso; e l’indicazione che Enea ha ricevuto da Anchise è di «avere pietà di chi si sottomette». Poi però qualcosa trasforma Enea: l’ultima immagine che ne riceviamo è quella di lui che, «infiammato di rabbia furibonda» per avere visto il bàlteo, la cintura di cuoio che era stata di Pallante, il suo alleato, pendere dalla spalla del suo nemico, l’uccide. Il pio Enea non rifugge dalla vendetta, dall’inutile crudeltà.

 

Alla fine, siamo dunque consapevoli del potenziale di violenza che la fedeltà assoluta alla propria patria, ai propri dei, ai propri penati implica: una pietas empia per chi sta fuori di quelle cerchie. E che l’apologeta cristiano del III secolo Lattanzio rimprovera senza mezzi termini a Virgilio: «Non sapevi che cosa fosse la pietas, e hai ritenuto che proprio ciò che quello ha compiuto in modo disumano e odioso fosse un dovere imposto dalla pietà. Chi potrebbe dunque attribuire a Enea anche un briciolo di valore, lui che si è acceso di rabbia come paglia dimenticando lo spirito del padre, nel cui nome veniva supplicato, non è stato capace di tenere a freno l’ira? Non è affatto pius chi uccide qualcuno che non solo ha deposto le armi, ma gli rivolge una preghiera. La pietas è quella di chi non conosce guerre, di chi è in armonia con tutti, di chi è amico anche dei propri nemici, di chi ama tutti gli uomini come fratelli». Così, entriamo in un nuovo mondo segnato dalla fratellanza universale, un mondo in cui alla pietas imperiale si contrappone la charitas cristiana”.

Anche gli autori dello sterminio dei Palestinesi inermi di Gaza ricorrono alla religione come i distruttori di Gerico di cui racconta la Bibbia.

 

Bologna 28 novembre 2025 ore 17, 25 giovanni ghiselli

p. s.

 

Questo è l’inizio del percorso che presenterò il 20 maggio a Teramo. Se Dio vorrà.

 

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[1] T. S. Eliot, Che cos'è un classico? , 1944. In T. S. Eliot, Opere, p. 975.

[2] A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Tomo II, p. 772.

[3] T. S. Eliot, Che cos'è un classico? Del 1944 , In T. S. Eliot, Opere Classici Bompiani, 1986, p. 973

[4] In una famosa recensione all'Ulisse  di Joyce (Ulysse, Order and Myth , "The Dial", nov. 1923.) T. S. Eliot  definiva il metodo mitico, in opposizione a quello narrativo, come il modo di controllare, di dare una forma e un significato all'immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea. "Instead of narrative method, we may now use the mythical method ", invece del metodo narrativo possiamo ora avvalerci del metodo mitico.

Alla fine di The Waste Land  La terra desolata,  del 1922.,  Eliot afferma:"These fragments I have shored against my ruins" (v. 430), con questi frammenti ho puntellato le mie rovine

[5] Cfr. Georgica IV: "qualis populeā maerens philomēla sub umbra/amissos queritur fetus…  " ( vv. 511-512), quale l'usignolo addolorato, sotto l'ombra del pioppo, lamenta le creature perdute.

[6] Cfr. Robert Musil (1880-1942) attraverso il suo protagonista Ulrich, il quale gioca sempre al ribasso, parla ironicamente di una  "catena di plagi" (L'uomo senza qualità , p. 270.) che lega le grandi figure del mondo artistico l'una all'altra.

[7] Huysmans, Controcorrente, p. 42 ss.

[8] The White Goddess: A Historical Grammar of Poetic Myth, London 1948.

[9] M. Barchiesi, I moderni alla ricerca di Enea,  p. 15.

[10] "Il miglior fabbro", secondo T. S. Eliot.

[11]The Spirit of Romance , Londra, 1910, p. 5.

[12] 1865-1939.

[13] M. Barchiesi, I moderni alla ricerca di Enea,p.18.

[14] Infatti: omnem potentiam ad unum conferri pacis interfuit (Hist.I, 1), fu utile alla pace che tutto il potere venisse riunito in una sola persona. Ndr.

 

[15]Voglio fare allo studente-lettore un esempio di semplicità "verità e spontaneità" che ha sempre colpito i miei studenti-uditori (del resto dopo l'Edipo re  sono andato a parlare in diversi licei e non pochi lettori mi hanno ascoltato, con una regressione, si fa per dire, alla fase aurale). Nel V libro dell' Odissea  dunque Ulisse, che convive con Calipso nell'isola di Ogigia, piange in continuazione sospirando il ritorno. Immaginate le chiacchiere che ci farebbe sopra un moderno, psicologo, romanziere o azzeccagarbugli di qualsiasi parrocchia.  Omero usa quattro parole per indicare la causa più plausibile e vera in questo tristissimo caso, non infrequente, di frequentazione obbligatoria:"ejpei; oujkevti hJvndane nuvmfh" (v. 153), piangeva poiché la ninfa non gli piaceva più. Punto e basta. 

[16]G. W. F. Hegel, Estetica  , pp. 1422-1423.

[17] Nusquam tuta fides " (Eneide, IV, v. 372).

[18] Ardet abire fuga dulcisque relinquere terras (Eneide, IV, 281)

[19] Italiam non sponte sequor ( Eneide, IV, 362)

[20] Invitus regina tuo de litore cessi ( Eneide IV, 460). Verso ripreso da Catullo: “invita, o regina, tuo de vertice cessi”  (6, 39) dice la chioma tagliata a Berenice e trasformata in costellazione scoperta dall’astronomo di corte Conone.


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