Ifigenia arrivò poco dopo. Dissi: “vedi quanto è depresso questo fondo? Ti ho portato quaggiù per mostrarti l’immagine della mia decadenza. Non ti conviene amarmi. Potrei trascinare in basso anche te”.
Non si lasciò impressionare: trasse l’aria dentro i polmoni recuperando la lena perduta, tirò fuori la voce, e, sorridendo, disse:
“Gianni, dammi un bacio, ti prego”
Mi trovai spiazzato di nuovo. Mi stava superando con la forza della sua concretezza e semplicità.
Provai comunque a replicare per metterla in guardia da me:
“Perché vuoi che ti baci? Non hai sentito quello che ti ho detto? Potrei farti del male”.
“Ho sentito-rispose con sicurezza, senza accennare a scomporsi né a stupirsi- ho sentito e ho capito ma non sono d’accordo. Non sarai tu a farmi precipitare in un burrone con te, sarò io piuttosto a tirartene fuori con l’entusiasmo che sento per te e la forza della mia giovinezza: noi saliremo insieme in luoghi alti e illuminati dal sole, com’è ancora la cima di questo colle dove torneremo tra poco tenendoci stretti per mano. Io ho bisogno di te, del tuo metodo, della tua cultura, della tua disciplina, e tu hai bisogno dei miei slanci, della mia ammirazione, se vuoi comprendere tutto il tuo raro, reale valore e trovare il coraggio di manifestarlo. Hai già avuto l’ammirazione dei tuoi studenti, ora hai il mio amore che può darti molto di più. Io ti adoro e non posso non fare di tutto per essere contraccambiata”.
Riuscìi a non abbracciarla e baciarla, ma non potei evitare di guardarla con ammirazione mentre il suo volto si accendeva di luce amorosa e confidente nel fondo tenebroso di quelle colline. Le ero grato del fatto che mi incoraggiava a essere strano e inusuale, senza sentirmi in difetto per la mia radicale diversità dai più che poi sono i morti, gli stupidi e gli ignoranti.
Eppure avevo paura di amarla. Non ero ancora abbastanza inattuale rispetto alla volgarità del tempo. Mi inceppavano troppi pregiudizi contrari alla felicità. Me li avevano inculcati fin dalla nascita in famiglia, nella parrocchia e a scuola. Temevo per giunta di perdere l’appoggio economico delle zie che mi volevano vedere con la testa a posto, cioè fidanzato e poi sposato con una vergine di “buona famiglia”, poi non avevo ancora deciso di congedare le due amanti bolognesi che non amavo punto però mi facevano comodo venendo a letto con me non senza portarmi delle prelibatezze preparate con cura da loro, care amiche oltre che amanti: dopo il concubitus vagus se ne tornavano a casa lasciandomi in pace.
Questa ragazza invece poteva crearmi difficoltà con il marito che avevo visto una volta venire a prenderla ed era grande e grosso come un Ercole: colui poteva spezzarmi le ossa leggere, da ciclista dotato per le salite, oppure lasciare la moglie, e allora avrei dovuto occuparmi anche troppo della sposa abbandonata per colpa mia. Insomma, chi me lo faceva fare? Tuttavia quella ragazza mi piaceva molto e la pensavo qusi sempre. Era dai tempi oramai lontani delle tre finniche che non desideravo tanto una donna. Quelle nordiche di aspetto quasi asiatico però erano meno pericolose: sarebbero tornate nella loro terra lontana per sempre: tanto amore per tutta la vita e ognuno a casa sua!
Ifigenia a un tratto interruppe questo mio almanaccare.
“Gianni, fra pochi minuti quaggiù farà buio. Torniamo lassù a prendere l’ultimo sole: accompagnamolo a letto”. Pensai non senza apprensione che volesse poi seguire anche me fino al letto di casa mia.
“Dammi la mano-aggiunse- e tirami su perché sono stanca ma voglio risalire in fretta la china”
Non potei rifiutargliela. La sua piccola mano fremeva: la pelle sottile pulsava sollevata dal sangue. A mano a mano che si saliva, la luce cresceva. Quando giungemmo in cima alla collina, il sole non era ancora calato del tutto nel nido del suo riposo notturno come un uccello stremato dal volo. Ifigenia con volto raggiante disse: “hai visto gianni che hai avuto la forza di innalzare me e te stesso verso la luce? Io ti amo”
“Anche io pensai”, ma non glielo dissi per le ragioni dell’utile. Ma è un utile falso quello che nega l’amore. Me l’avevano inculcato da quando ero bambino e nel campo amoroso ero rimasto infantilmente insensato. Quando portai Ifigenia a Pesaro l’estate successiva, le donne di casa, mamma e zie, dissero in coro: “bella è bella, ma non ha un soldo”.
Una delle zie la presentò a una conoscente come “una cara amica di Gianni” e io non la corressi. Del resto che cosa avrei dovuto dire: “è la mia fidanzata?”. Una cosa orrenda è sempre stata il fidanzamente per me, non solo tragica quanto il matrimonio ma pure ridicola.
Nemmeno vergine era, e lo sapevano bene le mie nutrici donne non senza pensare che portavo da loro una poco di buono. Per fare l’amore con lei dovevo farmi ospitare da un ex compagno di scuola e amico perché se avessimo perpetrato l’oscena vergogna del concubitus vagus nella dimora delle sorelle pretificate queste avrebbero cacciato entrambi con ignominia. E mi avrebbero diseredato.
Disonorata e svergognata secondo loro era comunque Ifigenia poiché avevano capito che eravamo amanti. Come potevo affidarmi a tale donna?
A qualsiasi donna pensavo io stesso con l’animo bacato dalla cattiva educazione ricevuta in casa e dai preti. Anche diverse delle mie letture avevano contribuito: “Sono un popolo nemico le donne, come il popolo tedesco”[1]
Chi mi legge sa che a allora avevo già incontrato due donne tedesche buone, generose, leali: l’amante amica Cornelia di Berlino est e l’amica Damaris di Monaco ma le loro stagioni erano passate oramai e i decenni della mala educazione precedente avevano lasciato un segno più profondo di quello ricevuto da loro.
Ci accostammo dunque alla nera Volkswagen poi riprendemmo gli abiti cittadini per cambiarci di nuovo. Allora non usava la tuta in città.
Questa volta ci svestimmo e rivestimmo senza allontanarci l’uno dall’altro e dal cocuzzolo che solo oramai emergeva alla luce.
Ifigenia mi chiese di voltarmi e non guardarla spogliarsi almeno fino a quando non non avessimo già fatto l’amore.
Mi spostai di pochi metri e mi girai verso il sole occidente.
Mentre guardavo il santo volto di luce domandai a voce alta: “Ifigenia quale parte del tuo splendido corpo ti piace di più?”
“Il seno” rispose con uno piccolo squillo di gloria.
Allora mi parve di vedere riflesso quel magnifico seno nell’ultimo sorriso del sole che ne riverberava la luce. Poco dopo il cielo si accese di bagliori rossi. Ero incerto se gridare chicchirichì o ringraziare devotamente il primo fra tutto gli dei, ma non trovai la forza né il coraggio di aprire la bocca e tacqui.
Bologna 27 novembre 2025 ore 17, 23 giovanni ghiselli
p. s
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