giovedì 27 novembre 2025

Ifigenia XI. Le preghiere al sole e il bacio. L’analfabetismo affettivo e l’educazione sentimentale.


 

Mentre osservavo l’ultimo spicchio di sole che scivolava sotto l’orizzonte, mi tornarono in mente le preghiere  di tanti giorni sereni: quando osservavo il tramonto dal mio studio dove avevo passato  diverse ore impegnato sull’apprendimento dei classici greci e latini e  scorgevo il dio luminoso che scendeva sulle colline accarezzato dai venti primaverili, oppure  mentre tornavo a casa in bicicletta alle nove di sera dopo avere scalato la ripida acesa fino al tempio di San Luca, o arrivavo alla chiesetta tua, onesto Giovanni, posta sul’ultima rampa del monte Calvo, o salivo sul monte Donato  con il massimo impegno delle forze fisiche e mentali, oppure quando lo vedevo declinare mentre spremevo tutte le energie correndo i 5000 metri sulle piste degli stadi, o quando ero sul molo del porto di Pesaro e lo osservavo commosso mentre calava nel mare a nord ovest del grattacielo di Rimini, e se ero solo, non mi saziavo di lacrime. Osservando i tramonti precoci dell’inverno o quelli meravigliosamente lunghi, lenti e tardivi della stagione bella, sempre ho pregato la santa faccia del dio  luminoso e non gli ho mai chiesto i miseri quattrini per riempire il ventre in ristoranti esosi, o per  dormire in alberghi costosi, o per comprare vestiti firmati, dato che anche gli stracci donano alla mia eleganza negligente nativa, né ho mai pregato la  Mente dell’Universo, il primo tra tutti gli dèi, la fiamma che nutre la vita, chiedendogli il potere, dato che detesto comandare come essere comandato, bensì ho sempre chiesto l’ amore  con le mie orazioni: l’amore di una donna bella, fine, colta, intelligente, e non una  volta  sola Elio mi aveva già esaudito; ed ecco che mentre lo vedevo annidarsi di nuovo il 28 ottobre del 1978, potevo rendergli grazie di avermi fatto ottenere un’altra borsa di studio meritata con le grandi  fatiche della mente, del corpo, di tutto me stesso.

 

Dopo il tramonto dunque tornammo a Bologna. Quando ci salutammo dentro la Volkswagen a 300 metri  da casa sua perché il cerbero di guardia non la scorgesse accompagnata da un uomo e magari ci intronasse abbaiando furiosamente, Ifigenia mi chiese un bacio. Trovai il coraggio di darglielo e riuscii a gustare l’aroma di quel frutto appena còlto: una prugna, umida di una goccia caduta  dal cielo a benedirla, o una fragola ancora variegata di verde e profumata di bosco.

 

Dopo averla baciata, alla beatitudine succedette la paura. Paura di che? Dei morsi del cane bicefalo appostato a poche centinaia di metri? Della povertà conseguente al mancato sostegno familiare? Magari se mi fossi messo con Ifigenia e l’avessi portata a Pesaro ci avrebbero cacciati quali due peccatori dissoluti,  impudenti, e a me avrebbero fatto pagare l’affitto della casa che mi avevano comprato a Bologna le due zie più attempate e severe.

“Guai a te se  trasformi questa casa in un bordello, com’è quella vergognosa università comunista ungherese dove vai tutti gli anni” mi avevano minacciato. “Abbiamo avvertito il parroco del Fossolo di tenerti d’occhio”.

 Quel prete era venuto a bussare un paio di volte ma, riconosciuto l’indiscreto dallo spioncino, non gli avevo aperto la porta, mettendolo certamente in sospetto.

Magari arrivava una zia e a questa avrei dovuto aprire.

In effetti tre anni più tardi venne la più anziana, Rina detta la badessa dalla  madre sua e la sbirra dal padre. La zia più  autoritaria dunque controllò  con una lente  le lenzuola stropicciate del mio letto, grande e capace. “Non sei mai stato prudente!” mi ammoniva  sua sorella  Giulia che mi portava a Moena negli anni Cinquanta.. 

Sarebbe arrivata la povertà, quella vera, se mi avessero trattato da affittuario. Più pezzente di Lazzaro, sarei diventato, più lazzarone di chi deve rubare per cavarsi la fame.

Sicché feci una mezza marcia indietro, e quando Ifigenia mi disse: “ti amo tanto!”, le risposi : “io  abbastanza”. Ci rimase male e si allontanò un poco ingobbita.

 

 

Bologna 27 novembre  2025 ore 18, 20 giovanni ghiselli

p. s.

Si parla tanto della necessità di porre un rimedio  all’analfabetismo affettivo dei giovani. Con i miei scritti cerco di dare un’educazione sentimentale a chi ne ha bisogno. Il più bisognoso ne sono stato io stesso.

Ho corso il rischio non di ammazzare, perché non sono un violento, ma di non arrivare mai ad accettarmi se non mi avessero accettato le donne. Ce l’ho messa tutta per imparare lo stile appropriato a chi vuole essere accolto. Ora cerco di non dimenticarlo e di farlo conoscere con tutti i suoi ingredienti di parole, di silenzi, di sguardi, di atti. Non senza denunciare e biasimare gli errori. Ne ho fatti tanti e mi sono stati utili, perfino necessari anche questi a trovare la strada.

 

 

 


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