Finite le congratulazioni reciproche, ci abbracciammo, poi ci stendemmo longitudinalmente sul lenzuolo scoperto, quindi ci strofinammo a vicenda senza arrivare alla compenetrazione dei corpi né alla fusione delle anime siccome temevo che Ifigenia condividesse la superstizione allora di moda tra certe femministe per cui la penetrazione, anche se desiderata da entrambi, sarebbe comunque un atto di violenza perpetrata dall’organo guerrafondaio dei maschi.
Ma Ifigenia non era il tipo che seguiva le mode, anzi aveva il coraggio di fare quanto le andava, perciò dopo alcuni minuti di eccitazione controllata e trattenuta con fatica, ruppe ancora una volta gli indugi: “gianni, non credi che sarebbe più bello fare l’amore invece di questa ginnastica da camera?
I preservativi li hai?”
Quel plurale mi garbò molto: la giovane si aspettava una frequenza almeno iterata da parte mia anche se non ero più un garzoncello né un forosetto grazioso, ma uno studioso del resto non ingobbito nel corpo e nemmeno nell’anima.
I preservativi li avevo poiché dopo il coitus interruptus, foriero di aborto e dolore nel luglio de 1974, li avevo usati ogni volta che con ciascuna delle mie donne si fece il massimo: ejpravcqh ta; mevgista[1].
Mentre maneggiavo il profilattico con attenzione, pensavo comunque che Ifigenia aveva ragione tutte le volte che confutava le mie azioni contorte con la forza della sua diretta e solida semplicità di ragazza bella.
Così il primo novembre dell’anno di nostra salvazione 1978 facemmo l’amore con immensa soddisfazione, alla brutta faccia del buio e di quanti lanciano l’invidioso malocchio sulla gioia della vita terrena calunniandola con la loro impotenza foriera di risentimento. Ripetemmo il tripudio varie volte, e fatti i conti, dicemmo assai contenti che avevamo raddoppiato la sufficienza fissata a tre: “non meno di tre” si era promesso.
So bene che non è elegante scrivere questo ma, se posso accampare una scusa, lo faccio ricordando tutte le spine che mi avevano ficcato nel cervello i cattivi maestri della mia mala educazione sessuale. Carnefici di tante delle miei gioie.
Questa volta però eravamo felici entrambi per avere centrato un bersaglio mirato da tempo, per avere compiuto una trasgressione piacevolissima e santa alle regole che volevano soffocare la nostra vita anelante all’amore: avevamo vinto una gara davvero olimpica lasciando dietro di noi, molto indietro, i malevoli, i sacerdoti non santi, anzi empi calunniatori della bellezza, della libertà, della salute. Lo facevano nel nome usurpato di Gesù Cristo che predicava l’amore e perdonava prima di tutti quelli che avevano amato molto. Donne peccatrici, adultere, ragazze madri comprese.
Ifigenia mi domandò se fossi cristiano. “No- risposi- sono piuttosto cristesco”. Poi aggiunsi un pensiero preso da Nietzsche: “l’unico vero cristiano venuto al mondo l’hanno crocifisso”. Eravamo contenti di noi.
Negli agoni seguenti ci saremmo uniti e amati ancora di più, credevamo, e avremmo trovato altri scopi comuni, più avanzati, e stimolanti a procedere ancora verso mete sempre più nobili e alte. Quindi avremmo potuto educare i nostri simili e non solo a scuola. Io volevo scrivere, lei recitare.
Tali pensieri onesti e lieti ci scambiammo, assai felici di quel pur vago avvenire che avevamo in mente.
Bologna 28 settembre 2025 ore 9, 45 . giovanni ghiselli.
p. s.
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