“Ecco la mamma”, pensai.
Digressione su mia
madre
E mi venne in mente la
mamma mia, di occhi azzurri e di capelli nerissimi, quando durante il pranzo mi
guardava fissamente1, con aria ostile, poiché non le davo retta e non si
sentiva amata abbastanza, o pensava di essere mal giudicata da me, o posposta
alle sorelle sue. Io l’amavo come non ho più amato nessun’altra donna in vita
mia, ma non riuscivo a farglielo capire, e lei si sentiva ingiustamente
sottovalutata in favore delle zie, le sorelle sue, Rina e Giulia, dalle quali
mi rifugiavo poiché, a mia volta mi sentivo non capito e non apprezzato da lei.
Quando la zia Giulia, che come
Elena era una mamma,
bella e bruna anche lei, e quella sera del 4 agosto 1971, mentre i crapuloni
pieni di palinke e vini ripetevano quei loro ontosi metri 2 contro le
donne, avrei potuto far pagare a quella femmina gravida le frustrazioni subite
dalla mamma mia quando era indifferente o furente3 perché non le obbedivo e non
si sentiva amata da me. Elena però non era furente né indifferente, anzi
manteneva lo sguardo buono anche quando era infelice.
La madre mia solo
quando il grande dispetto le era passato, diventava affettuosa. Allora mi
accarezzava i capelli e diceva: “Pipo, sei bellino, sei buono, a scuola sei il
più bravo: io sono fiera di te. Ho sempre desiderato un figlio così; tu mi
ripaghi di una vita tribolata. Hai occhi grandi e belli, anche se non hai preso
il colore dei miei: i tuoi sono color cacca, però si vede lo stesso che sei intelligente.
Una volta, quando eri piccino piccino, avevi forse tre anni, ti portai da un
calzolaio troppo caro secondo me. Sicché io volevo uno sconto e tu, che avevi
capito tutto, per sostenermi, dicesti più volte “brutte ’ca’”, brutte scarpe.
Appena hai imparato
parlare, hai dato segni di genio. Mi aspetto molto da te. Vedrai che uomo
diventi, vedrai quanto ti ameranno le donne! Quando mi fai arrabbiare, ti
sgrido, talvolta ti allungo qualche
scapaccione, ti tiro per la cuticagna, ma ti voglio bene lo stesso!”
Allora sentivo che
quella donna mi capiva, mi apprezzava e mi amava. E fuggivo nel bagno per
piangere, ma di consolazione e di gioia, poiché la madre
mia contraccambiava il mio amore.
La mamma era l’unica
donna che mi piaceva del tutto e mi emozionava, perché era bruna, di capelli
nerissimi e occhi colore smeraldo, oppure, secondo la luce, men chiara o più
chiara, azzurri. Aveva l’incarnato sempre brunito dal sole, era ben fatta,
snella e formosa, elegante, ma ancora di più la ammiravo poiché era capace di
pensieri originali, di azioni sue, magari non tutte buone, però sue, non
imitate da altri, e sapeva dare giudizi brevi e acuti su un personaggio, un
libro, un film.
Se amo la letteratura e
il cinema con la loro potenza ricreativa, lo devo anche a lei, soprattutto a
lei.
Le zie erano state
fascistizzate e pretificate; il nonno beveva, rimpiangeva le sue numerose ex
amanti e le tante gare ciciclistiche vinte; la sorella era ancora un’infante,
la chiamavamo toscanamente “
E per stornare le corna,
d’inverno sputava sulle fiamme del
focolare, in cucina. Mia madre aveva un’anima: non sempre diritta e lucida
invero, ma ce l’aveva. E io per questo l’amavo, l’amavo come non ho amato mai
più, né mai più probabilmente amerò una femmina umana mortale, e la prendevo
sul serio, e volevo correggere le sue distorsioni con un impegno che non avrei
messo nemmeno con le mie figlie spirituali: mia sorella Margherita, Luciana,
Ifigenia, Carlotta, Benedetta, Daniela, Polina e le altre. Sbagliavo a volerla
cambiare e soffrivo quelli che, con la mia piccola e misera mente dogmatica,
consideravo i suoi errori. Non erano errori. Era la natura sua, una natura non
fiacca, quella che mi ha trasmesso oltretutto, e io gliene sarò grato per
sempre.
Quando capivo che anche
lei mi amava, piangevo di gioia; poi mi osservavo a lungo nello specchio, e
notavo quanto le somigliavo nel volto bruno bruno, nell’espressione degli occhi
tagliati a mandorla, seppure di colore del tutto diverso, nel naso pronunciato
in modo nobile e bello. Antichi entrambi. Antichi etruschi di Borgo Sansepolcro
eravamo. E nel mio volto vedevo la stessa sua irrequietezza, la stessa follia
geniale, ispirata, che volevo rivolgere al bene, a creare qualcosa di buono, di
bello, di grande.
Questo avveniva negli
anni Cinquanta, verso la metà degli anni Cinquanta, quando avevo una decina di
anni.
Il 4 agosto del ’71,
vicino oramai ai ventisette, potevo evitare di opprimere una donna che mi aveva
aiutato, risparmiandole un’ingiustizia dolorosa e umiliante. Avevo incontrato
una persona che si era fidata di me, riconoscendo l’uomo tendenzialmente buono
e intelligente che volevo diventare, che forse, oggi, ultraottantenne, mi
avvicino a essere. Non dovevo tradire la sua fiducia. Elena però doveva
aiutarmi poiché il mio animo, come la testa materna, era ambivalente,
intermittente, incline alla seduzione attiva e passiva, allo qumov~ anche
distruttivo, seppure non tanto quanto quello della madre furente e
assassina immortalata da Euripide.
Nell’ottobre del 2011
la mamma mia è morta, pochi giorni dopo avere compiuto novantotto anni. Grazie
a Dio, eravamo del tutto pacificati e armonizzati noi due, da tanto tempo
oramai. Ci eravamo riconosciuti. Ci fidavamo completamente l’uno dell’altro. Ci
amavamo molto alla fine. Ne eravamo felici entrambi. La notte del giorno della
sua morte pedalando sulla pista ciclabile tra Pesaro e Fano, l’ho sentita
vivere nelle stelle, nell’innumerevole sorriso delle increspature marine che
riflettevano la luna, una luna crescente piena di luce. Ho sentito la mamma
viva nell’armonia della vita dell’Universo. E ho pianto di dolore ma anche di
gioia, come quando ero un bambino davanti allo specchio. La mamma non era
sparita: era viva nel cosmo e viva dentro di me. Non è uscita dall’Universo la
mamma. Tanto meno è uscita da me, piuttosto è entrata in me. Sono certo che
rimarrà viva, e bella, e buona per sempre. La madre terra è in mezzo alle
stelle e tu mamma, sei dappertutto, in quelle lucentissime margherite del
cielo, nel sole che ci abbronza e ci rende più belli, nel vento che ci accarezza,
nelle farfalle che danzano sui fiori d’oro che ti piacevano tanto, negli
uccelli dell’aria, nei piccioni e nei passeri cui davi da mangiare ogni
mattina.
Ti ritrovo dovunque,
sempre pronta a darmi il coraggio e la forza di diventare quello che sono, di
fare le cose buone e belle che devo a me stesso e devo a te che mi hai dato la
vita.
Quando mi osservo allo
specchio, e vedo nel mio volto, l’impronta del volto tuo, irrequieto, geniale,
sussurro: “Tu sei la mia mamma, tu sei la mia mamma”, e lo bacio. Poi tocco le
vene azzurre della parte interna dell’avambraccio e dico: “questo è sangue di
Luisa Martelli”.
Ma torniamo all’era di
Debrecen, precisamente alla sera del 4 agosto del 1971, ai miei ventisei anni e
otto mesi.
Diedi retta al mio
demone che non voleva il male della donna pregna, né quello del feto, né il
mio. Sarebbe stata azione non degna di me.
Mi scusai con la
ragazzetta francese che mi salutò citando a sua volta La montagna
incantata: “N’oubliez pas de me rendre mon crayon”4.
Forse era l’incoraggiamento che avevo cercato.
Era arrivato troppo tardi per fortuna.
“You are quoting from
Thomas Mann”, le dissi con un
sorriso di approvazione. Avevo riconosciuto l’allieva5.
La salutai, poi
andai in fretta da Elena che aveva osservato e, probabilmente, compreso.
“Ciao cara, come vanno
la salute e l’umore? ”, le domandai non senza imbarazzo.
“Non bene”, rispose con
serietà. “Ti voglio parlare, ma non qui tra la gente e il chiasso. Andiamo a
fare due passi”. Aveva visto e capito che ero stato lusingato e attirato dalle
moine, le parole e i vezzi di quella adolescente liscia e fresca come una
prugna 6, spregevolmente da parte mia, dopo tutti i giuramenti d’amore e di
stima impiegati per convincere lei, la donna di un altro, di uno lontano, a
venire a letto con me. Ero stato l’uomo che diceva di amarla quanto un uomo
buono ama la vita.
Le proposi di andare in
collegio, in camera mia, dove si poteva parlare stando seduti e guardandoci in
faccia. Sentivo anche io il bisogno di una spiegazione chiara e completa.
Il collegio era
deserto, la camera vuota. Ci sedemmo sul letto ordinato, e casto, di Fulvio,
l’onestissimo amico. Nemmeno con se stesso fornicava, innamorato com’era della
futura moglie.
“Senti Gianni”,
cominciò la bella donna andando
direttamente al centro della questione, “se la mia presenza ti pesa, io posso
tornare in Finlandia direttamente, domani”. Aveva gli occhi gonfi, rossi,
cerchiati, e l’aria infelice. Ancora una volta, con la sua capacità di arrivare
subito al nocciolo, con la sua calma, pur nel dolore, mi dava una lezione di
intelligenza e di stile. La guardavo, pensando quanto era diversa dalla gente
rozza assai, e affettata, che frequentavo di solito; quanto mi rendeva
migliore. Riflettevo, esitavo a rispondere. Allora si mise a piangere
sommessamente. Finalmente parlai. Dissi: “Elena, non piangere, ti prego, mi
dispiace, non piangere. Fammi capire che cosa ti rende infelice. Io voglio
aiutarti”. Si asciugò gli occhi, poi mi guardò con fermezza e disse: “A me
dispiace di essermi lasciata andare ad amarti troppo presto. Ti ho creduto
quando dicevi di amarmi, e mi sono sbagliata”.
“ Non ti sei
sbagliata”, la confutai, ma senza la convinzione e la forza necessarie a
lenirne la pena.
Allora disse: “Non
essere falso almeno. Ho visto quanto ti attirava la ragazza francese e quanto
avresti voluto essere libero per lasciarti andare con lei. Ebbene, puoi farlo,
o puoi continuare a farlo. Non preoccuparti per me: considerati libero, come se
non mi avessi mai conosciuta; io adesso torno in camera mia e domani sparisco
dalla tua vita. Addio”. E si mosse per andare via.
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1. Cfr. G. Leopardi, Dialogo
della natura e di un islandese.
2. Cfr. Dante, Inferno,
VII, 33.
3.
4. Sono le ultime
parole, dette in francese da Madame Chauchat, del V capitolo (Notte di
Valpurga)
5. Tre anni più tardi,
nel tempo della storia di Päivi, Josiane mi porterà un fiore con la dedica “Magister,
tibi”. Lo racconterò più avanti
6. Cfr Guido Gozzano, Totò
Merùmeni (ossia il punitore di se stesso), v. 42
Bologna 16 novembre 2025 ore 17, 31 giovanni ghiselli
p. s.
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