martedì 11 novembre 2025

Helena 12. La passeggiata notturna ragionando d’amore.


 

Le dichiarazioni d’amore. La mia mossa scacchistica, non nobile. La notte passata giocando giovanilmente. I fescennini obbrobriosi.

 

Aspettavo che uscisse dal suo collegio, il numero 1. E pregavo. Invocare gli dèi, anche se possono non ascoltarci, ha sempre una qualche bellezza (1).

Talvolta è pure utile quando si incappa in una sorte distorta.

Si corre il rischio di non ricevere udienza da Dio, chiunque egli sia, ma il rischio è bello, afferma Socrate nel Fedone , e non a torto.

“Dio fai che Elena mi ami. S’io meritai di te assai o poco (3), ricompensami.

Meriterò ancora mentre ch’io vivo”.

Devo ribattezzarmi dentro di lei. O addirittura rinascere, entrare nel corpo di lei e uscirne rigenerato. Finora ho sofferto senza diventare cattivo. Ho preso botte e non ho picchiato, sono stato ingannato e non ho detto bugie, sono stato umiliato e non ho mai offeso nessuno. Ora è giunto il momento di raccogliere i frutti. Do ut des: ipse amari opto (4).

A Pesaro, nel liceo Terenzio Mamiani, passavo i compiti di greco e latino ai somari, dalla quarta ginnasio all’esame di maturità, con rischi non piccoli, eppure, siccome aborrivo i putridi luoghi comuni degli ignoranti di quella cittadina dagli inverni sepolcrali, la moribunda sedes Pisauri (5), di quel borgo selvaggio (6), dicevano che mi davo delle arie insopportabili; in casa le donne mi trattavano come se fossi stato inameno, probabilmente per tenermi al guinzaglio il più a lungo possibile.

Potevo diventare uno dei tanti animali rabbiosi e bavosi, invecchiati male alla catena.

A un certo punto mi sentivo così monco e contraffatto che quando udivo urlare un uomo, strillare una donna, latrare un cane (7), perfino grugnire un porco, pensavo che ce l’avessero con me.

“Diran che son fallito, fallito nell’amore”, cantavo nelle notti estive, al chiaro di luna, poi piangevo.

A Bologna dove arrivai nel 1963, sprovveduto, disorientato e spaesato, dovevo chiedere spesso informazioni, chiarimenti, e mi sono sentito addirittura dare del “busone” da uno studente felsineo, un imbecille in vena di battute volgari e del tutto inappropriate alla mia persona (8) .

Nei primi mesi, Bologna per me non aveva tracce né voci. Ci vivevo da straniero e da estraneo. Inquilinus civis urbis Bononiae, un meteco tra gli ultimi, quando papa Giovanni era morto da poco, papa Francesco era ancora troppo lontano, e gli ultimi non erano ancora di moda.

In quel periodo le mie pene non avevano misura né numero e il male gareggiava con il male e sciagura su sciagura si posava, e colpi sempre più forti controbattevano i colpi.  Sono sceso agli inferi come Enea, ho evocato i morti come Odisseo, sacrificando e versando però nella fossa il mio stesso sangue non quello di arieti e pecore nere (9).

Ho cominciato a stare meglio proprio qui a Debrecen, nell’estate del 1966.

Dio mi aiutò. Fulvio anche mi aiutò fin dal primo momento.

Nel ’68 sono fiorito in ritardo con l’aiuto di Helena boema. Ora siamo nel ’71: non sono più un ragazzo di primo pelo.

Sicché, Dio benedetto, ti ringrazio di avermi reso giustizia, già quasi del tutto, attraverso questa splendidissima femmina umana, di avermi fatto diventare decente, anzi piacente di aspetto, di avermi insomma miracolato.

Mi sto insinuando nel favore di me stesso e mi ci conserverò a lungo.

Domani, se, appena sveglio, non troverò uno specchio dove possa vedermi tutto intero, ammirerò la mia ombra ben fatta camminando nel sole” (10).

Questo pensavo.

Il mio narcisismo gioioso usava espressioni già testimoniate. Un metodo  appreso da Eschilo e Callimaco (11) prima, poi da Terenzio, T. S. Eliot (12) e tanti altri ottimi autori.

“Con l’amore di questa donna sto recuperando l’amor proprio, e pure quello dei miei parenti che non mi hanno compreso, né io avevo compreso loro”.

 

Intanto Elena stava uscendo dal collegio con il suo vestito bianco, leggero, morbido, e attillato tanto da metterle in superbo risalto il seno, grande, pieno di palpiti, colmo di calda vita, ricco di nutrimento spirituale per l’anima mia. In seno e tutto il resto era pieno di vita.

La veste le fasciava la vita sottile, i fianchi rotondi, mentre le lasciava scoperte dal ginocchio in giù le gambe diritte, tornite, le caviglie snelle, i piedi piccoli su sandali leggeri. Sfiorava appena la terra.

OiJ me;n povde~ ajstravgaloiv teu, pensai.

La tunica corta e senza maniche lasciava vedere le candide braccia liscissime, scolpite con grazia prassitelica, mentre le copriva le spalle armoniose e, sopra le mammelle opulente, di forza fidiaca, le orlava il lungo collo sottile, sostegno della piccola testa dai folti capelli corvini che incastonavano il volto minuto, ovale, dai lineamenti fini e dolci ma pieni di luce e fortemente espressivi. Era contenta di me e contenta di sé.

“Lingua mortal non dice/ quel ch’io sentiva in seno” (14).

Ci incamminammo verso la radura con il piccolo lago, raccontando a turno la nostra giornata, passata nell’attesa e nella speranza di incontrarci da qualche parte. Ci ascoltavamo a vicenda, ci guardavamo con occhi che traboccavano simpatia, ammirazione e amore.

Elena mi raccontava della sua terra, delle solitudini boschive dove lei camminava ascoltando le voci di una natura ancora pulita. Mi descriveva con entusiasmo, ma senza enfasi, gli aspetti più belli della Finlandia: i tanti laghi orlati di alberi dove si specchia il sole che nelle estati riempie di luce calda il giorno e fa rosseggiare le notti; mi parlava dei colli iperborei della Lapponia dove si può sciare fino a maggio inoltrato sulla neve che scintilla e sfavilla nella luce lunga, solo brevemente interrotta dalla rapida, breve oscurità della stagione più bella. E mi parlava della città dei suoi studi, Yväskylä, circondata da boschi, dove in autunno le foglie delle betulle fanno esplodere tutti i colori.

“Io non so come si possa non essere felici nella stagione bella”, disse.

“Io sono felice anche in novembre-replicai. Quando vedo spuntare il grano, sento la resurrezione. Forse perché sono nato in quel mese e benedico il tempo della mia nascita. Sempre, ma soprattutto quando incontro una donna come te”.

Quella donna benedetta amava la natura e la vita: era della mia razza, della gens cui appartengo per scelta, della stirpe che nonostante le difficoltà e le tante tribolazioni vissute, ho sempre considerato la mia.

 

Mi raccontava anche del suo compagno cui voleva bene come a un fratello, dell’università dove aveva studiato letteratura e storia con serio impegno, del lavoro che faceva con passione poiché amava gli studenti e loro la contraccambiavano vedendola impegnata a educarli. Parlava con semplicità, quella semplicità bella che è complessità risolta, quella prudens simplicitas (15) , la semplicità accorta, competente e precisa che è anche signorilità. Non c’era nessuna affettazione in lei, nessuna posa, nessuna ricerca della mia approvazione.

Voleva farsi conoscere com’era, in trasparenza. “Ottima è Elena - pensai - ottima e schietta come l’acqua di Pindaro” (16).

Voleva farmi entrare nella sua vita. Io la ascoltavo con tutto l’interesse di chi vuole diventare partecipe della storia raccontata, della vita di chi la racconta, e non la interrompevo se non per rivolgerle qualche domanda e approfondire la conoscenza. Quando venne il mio turno di farmi conoscere e riconoscere, attraverso le parole, le parlai della nostra terra varia e ricca di bellezza antica eppure sempre viva e recente, del mio lavoro che mi piaceva, siccome provavo interesse per l’educazione, per i miei allievi e per le lettere.

Nell’educazione, o paideia, o bildung che dire si voglia, credevo già allora, sebbene avessi ancora pochi strumenti per impartirla: in quel tempo non pensavo che nessuna forza educativa sia in grado di modificare la nostra sostanza, di cambiare la quidditas di ciascuno, quello che essenzialmente è. Più avanti nel tempo, i critici del metodo mio avrebbero detto che miglioravo sì i migliori, ma, nello stesso tempo, peggioravo i peggiori. Infatti provocavo l’epifania del carattere di ciascuno studente, per farlo diventare quello che è.

La mia piena coscienza di educatore all’epoca non era pienamente formata.

Intanto però procedevo nel mio tentativo di affascinare la finnica bella e fine, semplice di semplicità elegante.

L’amore mi rendeva eloquente (17).

Aggiunsi che insegnavo le frasi belle degli scrittori bravi. Questo forse non comunicava un sapere strutturale, ma serviva a raffinare il senso estetico degli alunni; quindi facevo conoscere le idee di autori anche discordanti tra loro, in modo da stimolare il pensiero critico dei miei ragazzi attraverso una logica aperta al contrasto, invogliandoli comunque a scegliere il bello invece del brutto, il bene invece del male, il coraggio invece della viltà, e così via.

Il bene, l’ordine del mondo, la vittoria del cosmo sul caos lo vedevo anche in alcune immagini artistiche, particolarmente nel frontone occidentale del tempio di Zeus a Olimpia, e nei quadri di Piero della Francesca che conoscevo fin da bambino poiché il nonno materno, la mamma e le zie, nati e cresciuti a Borgo Sansepolcro, il paese nativo del pittore rinascimentale, me ne parlavano spesso e mi portarono a vederlo e ad ammirarlo molto per tempo.

Nei quadri di Piero avevo visto immagini del bello non artefatto e del bene non sdilinquito. Anche lei, Elena, rappresentava ai miei occhi il bello con semplicità e il bene senza fiacchezza.

 

“Che cosa è il bene per te?” mi domandò a bruciapelo. Andava sempre in medias res. Elena mi ha insegnato un metodo, il suo.

 

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Note

1 Cfr. Euripide, Troiane, 470: “o[mw~ d’ ecei ti sch`ma kiklhvskein qeouv~.

Kalo; ~ ga; r oJ kivnduno~ (114 d)

3 Cfr. Dante, Inferno, XXVI, 80-81

4 Cfr. Catullo, 76, 25 Ipse valere opto, io voglio avere salute.

5 Catullo 81, 3., quel mortorio di Pesaro. Definizione che vale ancora per i mesi autunnali e invernali.

6 Cfr. Leopardi, Le ricordanze, 30.

7 Cfr. Shakesperare, Riccardo III, I, 1.

8 Un paio di decenni più tardi altri, meno imbecilli, mi avrebbero appiccicato l’etichetta del donnaiolo, non del tutto a sproposito a dire il vero.

9 Cfr. Odissea, X, 527.

10 Di nuovo Shakespeare, Riccardo III (III, 1). E’ riuscito ad attirare Lady Anne della quale ha ucciso il marito e il suocero.

11 Callimaco (305 ca-240ca a. C.) afferma: "ajmavrturon oujde; n ajeivdw" (Fr. 612) Pfeiffer., non canto nulla che non sia testimoniato.

12 In una famosa recensione Ulysse, Order and Myth, "The Dial", nov. 1923. all'Ulisse di Joyce Del 1922., T S. Eliot definiva il metodo mitico, in opposizione a quello narrativo, come il modo di controllare, di dare una forma e un significato all'immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea. "Instead of narrative method, we may now use the mythical method ", invece del metodo narrativo possiamo ora avvalerci del metodo mitico. Alla fine di The Waste Land Eliot afferma: "These fragments I have shored against my ruins" (v. 430), con questi frammenti ho puntellato le mie rovine.

13 Teocrito, X, 36. I tuoi piedi sono astragali, cioè piccoli e ben fatti.

14 Leopardi, A Silvia, 26-27.

15 Cfr. Marziale, X, 47, 7.

16 a[riston me; n u{dwr, Olimpica I, 1.

17 Nel magister Ovidio la cupido è un elemento della ragione: il maestro del lusus erotico consiglia al corteggiatore di potenziare la facondia con la forza del desiderio: è il "rem tene verba sequentur "di Catone trasferito in campo amoroso: "fac tantum cupias, sponte disertus eris " (Ars amatoria, I, 608), pensa solo a desiderarla, e sarai facondo senza sforzo. Tereo che arde di passione per la cognata Filomela è reso eloquente dallo stesso ardore amoroso: "Facundum faciebat amor " (Metamorfosi, VI, 469).

Bologna 11 novembre 2025 ore 9, 37 giovanni ghiselli

p. s.

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