lunedì 10 novembre 2025

Elena 9 . Il picnic crepuscolare. I giovani magiari consumisti.


Il giorno seguente cercai distrazione dalla dolce, materna Sarjantola parlando e giocando con gli amici e i conoscenti che in quel luogo e in quel tempo erano già, e ancora, molti; insomma feci un tentativo di togliere significati speciali a quella donna che era bella, fine e buona quanto si vuole, ma era pure incinta di un altro uomo.
Magari era stata ingravidata da un gonzo tra il sonno e la veglia, in un letto freddo, in un amplesso senza passione né attenzione, pensavo.
Comunque l’immagine di lei, eternamente viva , mi volteggiava sempre davanti e mi assillava.
Non potevo essere più forte di Zeus che ha potere sul cosmo, eppure è schiavo di Afrodite. Del resto la mia intenzione in quella circostanza non era lo scatenato libertinaggio del dio che è stato il primo dongiovanni della storia. Il mio amore era uranio, figlio di Afrodite Celeste, non quello pandemio, plebeo siccome figlio di una Venere volgare.
La tenacia del sentimento e del proposito voleva dire che Elena, anche solo se la pensavo, mi insegnava più cose e più importanti di quante ne potevo imparare dal resto dell’ambiente di studio e di eros, dove, in seguito a quattro estati di varie esperienze, avrei potuto passare un quinto mese piacevole con una ragazza gradevole, lieta e disinvolta, come avevo fatto l’anno precedente, o anche vivere un amore mensile allegro con una femmina umana già conosciuta bene o con una intentata puella, una giovane che significasse qualcosa, ma non mi obbligasse a pensarla continuamente e spietatamente al pari di Elena, intensa e piena di simboli come un’opera d’arte, e pure problematica da ogni punto di vista.
Non volevo soffrire troppo  per Elena dalla bella chioma
[1], eppure non riuscivo a staccare il mio pensiero da lei, e ne dedussi che lasciar trascorrere invano quel mese importante, ossia ricco di rapporti con il passato e con il futuro, come lucidamente lo prevedevo, passarlo con una donna qualunque, anzi con qualsiasi altra donna, non era destino per me e non mi conveniva; allora dovevo impegnare tutte le mie forze in un rapporto pur faticoso e travagliato con Elena perché mi guidasse a conoscere nuovi e reconditi aspetti dell’anima mia.
Non potevo eliminarla siccome  non annullare i progressi che avrei fatto con lei. Su questo non mi sbagliavo: devo a lei gran parte del meglio che ho fatto in questa travagliosa vita mortale.
Ci sono difficoltà e ascese impervie che non dobbiamo evitare poiché ci salvano da cadute retrograde in precipizi scoscesi.

Il più delle volte quando rinunciamo a un’impresa possibile, temendo di non averne la forza, di fatto non ne abbiamo la voglia. Ma certe rinunce ad affrontare gli ostacoli pervi o impervi che siano, possono spedirci all’ospizio.
Nel pomeriggio venne a cercarmi Katalin. Mi invitò a una cena in un giardino situato nella zona universitaria. Con noi ci sarebbero stati altri giovani ungheresi; io potevo portare Claudio che piaceva a una sua amica, una donna con i fianchi enormi cinti di drappi coloriti.
 “Una femmina babilonica”, la definì impietosamente l’amico, come la vide. Subito dopo  aggiunse verrò anche io: con quella voglio fare  la cosa più degenerata della mia vita”. Parole prive di carità.
Comunque avremmo arrostito della carne e, probabilmente seduti, o distesi sull’erba del prato ameno, avremmo dato un incentivo alla parte  orgiastica dell’incontro bevendo il vino rosso tipico della terra magiara, l’Egribikavér,  il “sangue di toro di Eger” già ricordato più volte-
 Dopo cena, siccome il marito di Katalin era andato, per affari suoi, sul lago Balaton, cioè agli antipodi della peraltro piccola terra magiara, io e la bella sposa lasciva avremmo potuto fare l’amore  grattandoci piacevolmente a vicenda dovunque la carne  prudeva e induceva a farlo. Con il consorte di Katalin non ci sarebbe stata la lotta dei tori che si battono per la giovenca.
Il programma mi lusingava e, per dirla tutta, mi stuzzicava. Il destino mi offriva il destro concreto di sfuggire a un amore pieno di problemi quanto una tragedia greca. “Molte sono le cose inquietanti, e nulla è più inquietante di Elena”, pensai
[2].
  Katalin non era una cima, ma, te lo rammento lettore, era una vera bellezza. La donna più bella tra quante, del resto non tante, non ho conosciuto del tutto mentre avrei potuto farlo. Libertino a metà. Troppi scrupoli.
 Con questo stato d’animo, mi recai al picnic sul prato. Era il tramonto di una sera estiva, “piena di voli”
[3] e propizia all’oblio della finlandese pregnante: una di quelle sere di luglio nelle quali si gode la potenza dell’estate matura, scemata ancora di poco rispetto al culmine di giugno, eppure in misura percettibile dalla posizione del sole occidente già retrocesso dal nord, e un declino della parte più bella dell’anno avvertibile anche nei colori meno vivaci; comunque si preannunciava una di quelle notti ancora brevi e calde, dall’aria liscia, calma e odorosa dove è piacevole indugiare a oltranza, anche fino all’aurora, per non perdere, con sconsolato rimpianto durante il semestre invernale oscurato da lunghe nuvole inquiete, un dono di Dio raro, bello e fugace come la gioventù, come l’amore, come la stessa vita. Garrivano tutt’intorno le rondini, le rane remote del laghetto gracidavano in greco: brekekekeke;x koa;x koavx[4]. Almeno così  suonava il loro verso suo alle mie orecchie Le azzurre cetonie ronzavano ancora lampeggiando nell’aria arrossata dagli ultimi raggi. Un vello prpureo guarnito da bioccoli d’oro  si stendeva sul cielo dalla parte della puszta. Alle carezze del vento caldo, ondeggiava adagio  il mare verde della grande foresta spessa e viva.

Tutto il paesaggio si rallegrava e  comunicava letizia. Il 1971 è stato l’anno più bello del secolo per quanto riguarda i rapporti tra gli umani educati bene, l’acme della solidarietà, dell’uguaglianza, dell’amicizia, dell’amore.

Poi è iniziato il regresso verso la diffidenza e l’egoismo. E’ intervenuto il potere, pauroso di perdere colpi. Infatti  ha colpito duramente per tutti gli anni Settanta  e anche dopo. Il programma era questo: spaventare gli uomini, spingerli a diffidare a odiarsi a vicenda. Poi sarebbe stata svilita la scuola, depressa la cultura per completare la sottomissione e l’asservimento dei sudditi.
Ma quella sera si respirava con gioia la dolce e piena tranquillità della bella stagione suscitata dall’aurea Afrodite che ama il sorriso. Quanto a fare l’amore con Katalin, avrei deciso più tardi. Avevo intenzione di mangiare e bere non troppo, studiando la situazione, e considerando bene se mi conveniva, e piaceva davvero lasciare cadere il sentimento forte, inquietante appunto, e molto difficile da concretizzare, per l’artistica, pierfrancescana donna del parto, in cambio di un’orgia non dionisiaca, né apollinea, insomma non santa, con una ragazza tanto giovane e bella, quanto disordinata, stonata e confusa. Veramente la sera prima avevo promesso a Elena che sarei andato a cercarla, ma questo, casomai, potevo farlo più tardi, anche molto più tardi. Erano appena le otto. “C’è tempo per mangiare, bere, osservare e decidere”, pensai. “Tutto il tempo”.

Ma quando ebbi assaggiato un poco di carne arrostita e bevuto un bicchiere di sangue di toro, sentivo angoscia per quanto dicevano quei giovani consumisti magiari, seriamente occupati a parlare di vestiti, di motori, di scarpe. Lo facevano in modo tale da offendere la mia sensibilità estetica ed etica, mentre il fumo della carne arrostita dal cupo fulgore del fuoco contaminava la dolce aria notturna con volute dense e acri che schiaffeggiavano il cielo e nascondevano tutte le stelle. “Eschilo sostiene che Giustizia brilla nelle case dal povero fumo
[5]pensai- “ questo però, prima che povero è un fumo brutto e irritante”.

Lì, nonostante la bellezza di Katalin, non c’era cosmo, ma guazzabuglio e caotica stupidità. La quintessenza dell’insignificanza era seduta in quel prato di ottenebrati dall’ignoranza. Si ingozzavano con appetito disonesto denaturando la natura. Tendevano i colli e le mani cupide freneticamente verso il cibo e le bevande.

Sentivo singhiozzare le tortore della grande foresta.

Non c’era verso di scambiarci delle idèe.  
A un tratto mi alzai per allontanarmi da quei giovani, segno oltretutto del fallimento educativo di un regime che volevo credere migliore del nostro. Ho sempre auspicato una società di donne e uomini uguali, dove non ci siano odiose sperequazioni. Una comunità di persone buone e contente. L’uguaglianza è legge di natura, è legge cosmica cui si sottopone perfino la luce: " l'oscura palpebra della notte e la luce del sole infallibile, percorrono uguale il ciclo annuo”, dice Giocasta al figlio prepotente
 che ha fatto l’elogio della tirannide, “un’ingiustizia fortunata”
[6] secondo la madre.
“Questi non sono comunisti aristocratici ma consumisti plebei.
 Se il comunismo non è capace di educare i giovani, non potrà durare a lungo. La storia, anzi la cronaca per ora ha dato torto a questo regime, ma io non do ragione alla cronaca e ce la metterò tutta per educare quanti mi ascolteranno, all’onestà, alla giustizia e all’eguaglianza senza la quale non possono esserci né libertà né giustizia”.
Mi venne in mente Platone: “nella società in cui non sia presente né ricchezza né povertà, direi che i costumi potrebbero essere nobilissimi: infatti né la violenza, né l’ingiustizia, né gelosie né invidie possono nascervi”
[7].
  Uno di quei poveretti mi domandò quanti cavalli avesse la mia “bella macchina nera”. Non lo sapevo, proprio non lo sapevo, e non mi interessava saperlo. Contro la volgarità e la stoltezza, l’unico argomento è il silenzio. Grazie alla coscienza che stavo prendendo dalla finnica mia, la rozzezza mi appariva più rozza, la stoltezza più stolta.
 Pensai del resto che i poveri saranno sempre fregati finché ammireranno e cercheranno di scimmiottare i  ricchi veri o presunti tali.
La pubblicità gioca su questa misera mimèsi imposta ai miserabili.
 Di bere altro vino, pur buono, in mezzo a quella greggia stremata, di fare l’amore con Katalin, pur bella e disponibile assai, in quanto la poveretta, errando, vedeva in me un giovin signore dell’agognato mondo capitalistico, non mi andava. Il desiderio mio unico e fisso era lei: Elena.
“C’è un mondo diverso, altrove”, mi dissi.
 Ero pieno dello spirito santo di quella donna rimasta in collegio, anche se alcuni presenti vedendomi tanto distratto potevano pensare che fossi pieno di vino come l’amico Danilo. Invece si stava compiendo il giorno della mia Pentecoste
[8]
 Lo spirito santo di Elena era sceso nell’anima mia.

Bologna 10 novembre 2025 ore 19, 20

p. s.

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[1] Elevnh~ e[nek j hjukovmoio, Esiodo, Opere e Giorni, 165

[2] Avevo in mente lo squillo iniziale del I stasimo dell’Antigone: "polla; ta; deina; koujde; n ajn-qrwvpou deinovteron pevlei" (vv. 332-333).


[3] Cfr. Pascoli, Paulo Uccello, 16-17

[4] Cfr. Aristofane, Rane 223

[5] Divka de; lavmpei me; n ejn -duskavpnoiς dwvmasin, Agamennone, 773-774.,

[6] Euripide, Fenicie, 549

[7]  Leggi, 679b-c.

[8] Cfr. Nuovo Testamento, Atti degli Apostoli, 2: Et cum compleretur dies Pentecostes repleti sunt omnes Spiritu Sancto… alii autem irridentes dicebant: “Musto pleni sunt isti”.


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