Il giorno seguente cercai distrazione dalla
dolce, materna Sarjantola parlando e giocando con gli amici e i conoscenti che
in quel luogo e in quel tempo erano già, e ancora, molti; insomma feci un
tentativo di togliere significati speciali a quella donna che era bella, fine e
buona quanto si vuole, ma era pure incinta di un altro uomo.
Magari era stata ingravidata da un gonzo tra il
sonno e la veglia, in un letto freddo, in un amplesso senza passione né
attenzione, pensavo.
Comunque l’immagine di lei, eternamente viva ,
mi volteggiava sempre davanti e mi assillava.
Non potevo essere più forte di Zeus che ha
potere sul cosmo, eppure è schiavo di Afrodite. Del resto la mia intenzione in
quella circostanza non era lo scatenato libertinaggio del dio che è stato il
primo dongiovanni della storia. Il mio amore era uranio, figlio di Afrodite
Celeste, non quello pandemio, plebeo siccome figlio di una Venere volgare.
La tenacia del sentimento e del proposito voleva
dire che Elena, anche solo se la pensavo, mi insegnava più cose e più
importanti di quante ne potevo imparare dal resto dell’ambiente di studio e di
eros, dove, in seguito a quattro estati di varie esperienze, avrei potuto
passare un quinto mese piacevole con una ragazza gradevole, lieta e disinvolta,
come avevo fatto l’anno precedente, o anche vivere un amore mensile allegro con
una femmina umana già conosciuta bene o con una intentata puella, una giovane che significasse qualcosa, ma non mi
obbligasse a pensarla continuamente e spietatamente al pari di Elena, intensa e
piena di simboli come un’opera d’arte, e pure problematica da ogni punto di
vista.
Non volevo soffrire troppo per Elena dalla bella chioma[1], eppure non riuscivo a
staccare il mio pensiero da lei, e ne dedussi che lasciar trascorrere invano
quel mese importante, ossia ricco di rapporti con il passato e con il futuro,
come lucidamente lo prevedevo, passarlo con una donna qualunque, anzi con
qualsiasi altra donna, non era destino per me e non mi conveniva; allora dovevo
impegnare tutte le mie forze in un rapporto pur faticoso e travagliato con
Elena perché mi guidasse a conoscere nuovi e reconditi aspetti dell’anima mia.
Non potevo eliminarla siccome non annullare i progressi che avrei fatto con
lei. Su questo non mi sbagliavo: devo a lei gran parte del meglio che ho fatto
in questa travagliosa vita mortale.
Ci sono difficoltà e ascese impervie che non
dobbiamo evitare poiché ci salvano da cadute retrograde in precipizi scoscesi.
Il più delle
volte quando rinunciamo a un’impresa possibile, temendo di non averne la forza,
di fatto non ne abbiamo la voglia. Ma certe rinunce ad affrontare gli ostacoli
pervi o impervi che siano, possono spedirci all’ospizio.
Nel pomeriggio venne a cercarmi Katalin. Mi
invitò a una cena in un giardino situato nella zona universitaria. Con noi ci
sarebbero stati altri giovani ungheresi; io potevo portare Claudio che piaceva a
una sua amica, una donna con i fianchi enormi cinti di drappi coloriti.
“Una femmina babilonica”, la definì
impietosamente l’amico, come la vide. Subito dopo aggiunse verrò anche io: con quella voglio
fare la cosa più degenerata della mia
vita”. Parole prive di carità.
Comunque avremmo arrostito della carne e, probabilmente
seduti, o distesi sull’erba del prato ameno, avremmo dato un incentivo alla
parte orgiastica dell’incontro bevendo
il vino rosso tipico della terra magiara, l’Egribikavér, il “sangue di toro di Eger” già ricordato più
volte-
Dopo cena, siccome il marito di Katalin
era andato, per affari suoi, sul lago Balaton, cioè agli antipodi della
peraltro piccola terra magiara, io e la bella sposa lasciva avremmo potuto fare
l’amore grattandoci piacevolmente a
vicenda dovunque la carne prudeva e
induceva a farlo. Con il consorte di Katalin non ci sarebbe stata la lotta dei
tori che si battono per la giovenca.
Il programma mi lusingava e, per dirla tutta, mi
stuzzicava. Il destino mi offriva il destro concreto di sfuggire a un amore
pieno di problemi quanto una tragedia greca. “Molte sono le cose inquietanti, e
nulla è più inquietante di Elena”, pensai[2].
Katalin non era una cima, ma, te lo
rammento lettore, era una vera bellezza. La donna più bella tra quante, del
resto non tante, non ho conosciuto del tutto mentre avrei potuto farlo.
Libertino a metà. Troppi scrupoli.
Con questo stato d’animo, mi recai al
picnic sul prato. Era il tramonto di una sera estiva, “piena di voli”[3] e propizia all’oblio della
finlandese pregnante: una di quelle sere di luglio nelle quali si gode la
potenza dell’estate matura, scemata ancora di poco rispetto al culmine di
giugno, eppure in misura percettibile dalla posizione del sole occidente già
retrocesso dal nord, e un declino della parte più bella dell’anno avvertibile anche
nei colori meno vivaci; comunque si preannunciava una di quelle notti ancora
brevi e calde, dall’aria liscia, calma e odorosa dove è piacevole indugiare a
oltranza, anche fino all’aurora, per non perdere, con sconsolato rimpianto
durante il semestre invernale oscurato da lunghe nuvole inquiete, un dono di
Dio raro, bello e fugace come la gioventù, come l’amore, come la stessa vita.
Garrivano tutt’intorno le rondini, le rane remote del laghetto gracidavano in
greco: brekekekeke;x koa;x koavx[4]. Almeno così suonava il loro
verso suo alle mie orecchie Le azzurre cetonie ronzavano ancora lampeggiando
nell’aria arrossata dagli ultimi raggi. Un vello prpureo guarnito da bioccoli
d’oro si stendeva sul cielo dalla parte
della puszta. Alle carezze del vento
caldo, ondeggiava adagio il mare verde
della grande foresta spessa e viva.
Tutto il paesaggio si rallegrava e comunicava letizia. Il 1971 è stato l’anno più bello del secolo per quanto riguarda i rapporti tra gli umani educati bene, l’acme della solidarietà, dell’uguaglianza, dell’amicizia, dell’amore.
Poi è iniziato il regresso verso la diffidenza e
l’egoismo. E’ intervenuto il potere, pauroso di perdere colpi. Infatti ha colpito duramente per tutti gli anni
Settanta e anche dopo. Il programma era
questo: spaventare gli uomini, spingerli a diffidare a odiarsi a vicenda. Poi
sarebbe stata svilita la scuola, depressa la cultura per completare la
sottomissione e l’asservimento dei sudditi.
Ma quella sera si respirava con gioia la dolce e
piena tranquillità della bella stagione suscitata dall’aurea Afrodite che ama
il sorriso. Quanto a fare l’amore con Katalin, avrei deciso più tardi. Avevo
intenzione di mangiare e bere non troppo, studiando la situazione, e
considerando bene se mi conveniva, e piaceva davvero lasciare cadere il
sentimento forte, inquietante appunto, e molto difficile da concretizzare, per
l’artistica, pierfrancescana donna del parto, in cambio di un’orgia non
dionisiaca, né apollinea, insomma non santa, con una ragazza tanto giovane e
bella, quanto disordinata, stonata e confusa. Veramente la sera prima avevo
promesso a Elena che sarei andato a cercarla, ma questo, casomai, potevo farlo
più tardi, anche molto più tardi. Erano appena le otto. “C’è tempo per
mangiare, bere, osservare e decidere”, pensai. “Tutto il tempo”.
Ma quando ebbi assaggiato un poco di carne
arrostita e bevuto un bicchiere di sangue di toro, sentivo angoscia per quanto
dicevano quei giovani consumisti magiari, seriamente occupati a parlare di
vestiti, di motori, di scarpe. Lo facevano in modo tale da offendere la mia
sensibilità estetica ed etica, mentre il fumo della carne arrostita dal cupo
fulgore del fuoco contaminava la dolce aria notturna con volute dense e acri
che schiaffeggiavano il cielo e nascondevano tutte le stelle. “Eschilo sostiene
che Giustizia brilla nelle case dal povero fumo[5]” –pensai- “ questo però, prima che povero è un fumo brutto e irritante”.
Lì, nonostante la bellezza di Katalin, non c’era cosmo, ma guazzabuglio e caotica stupidità. La quintessenza dell’insignificanza era seduta in quel prato di ottenebrati dall’ignoranza. Si ingozzavano con appetito disonesto denaturando la natura. Tendevano i colli e le mani cupide freneticamente verso il cibo e le bevande.
Sentivo singhiozzare le tortore della grande foresta.
Non c’era verso di scambiarci delle idèe.
A un tratto mi alzai per allontanarmi da quei
giovani, segno oltretutto del fallimento educativo di un regime che volevo
credere migliore del nostro. Ho sempre auspicato una società di donne e uomini
uguali, dove non ci siano odiose sperequazioni. Una comunità di persone buone e
contente. L’uguaglianza è legge di natura, è legge cosmica cui si sottopone
perfino la luce: " l'oscura palpebra della notte e la luce del sole
infallibile, percorrono uguale il ciclo annuo”, dice Giocasta al figlio
prepotente
che ha
fatto l’elogio della tirannide, “un’ingiustizia fortunata”[6] secondo la madre.
“Questi non sono comunisti aristocratici ma
consumisti plebei.
Se il comunismo non è capace di educare i
giovani, non potrà durare a lungo. La storia, anzi la cronaca per ora ha dato
torto a questo regime, ma io non do ragione alla cronaca e ce la metterò tutta
per educare quanti mi ascolteranno, all’onestà, alla giustizia e
all’eguaglianza senza la quale non possono esserci né libertà né giustizia”.
Mi venne in mente Platone: “nella società in cui
non sia presente né ricchezza né povertà, direi che i costumi potrebbero essere
nobilissimi: infatti né la violenza, né l’ingiustizia, né gelosie né invidie
possono nascervi”[7].
Uno di quei poveretti mi domandò
quanti cavalli avesse la mia “bella macchina nera”. Non lo sapevo, proprio non
lo sapevo, e non mi interessava saperlo. Contro la volgarità e la stoltezza,
l’unico argomento è il silenzio. Grazie alla coscienza che stavo prendendo dalla
finnica mia, la rozzezza mi appariva più rozza, la stoltezza più stolta.
Pensai del resto che i poveri saranno
sempre fregati finché ammireranno e cercheranno di scimmiottare i ricchi veri o presunti tali.
La pubblicità gioca su questa misera mimèsi
imposta ai miserabili.
Di bere altro vino, pur buono, in mezzo a
quella greggia stremata, di fare l’amore con Katalin, pur bella e disponibile
assai, in quanto la poveretta, errando, vedeva in me un giovin signore
dell’agognato mondo capitalistico, non mi andava. Il desiderio mio unico e
fisso era lei: Elena.
“C’è un mondo diverso, altrove”, mi dissi.
Ero pieno dello spirito santo di quella
donna rimasta in collegio, anche se alcuni presenti vedendomi tanto distratto
potevano pensare che fossi pieno di vino come l’amico Danilo. Invece si stava
compiendo il giorno della mia Pentecoste[8]
Lo spirito santo di Elena era sceso
nell’anima mia.
Bologna 10 novembre 2025 ore 19, 20
p. s.
Statistiche del blog
All time1852902
Today846
Yesterday1388
This month10239
Last month24466
[1] Elevnh~ e[nek j hjukovmoio, Esiodo, Opere e Giorni, 165
[2] Avevo in mente lo squillo iniziale del I
stasimo dell’Antigone: "polla; ta; deina; koujde; n ajn-qrwvpou deinovteron pevlei" (vv.
332-333).
[3] Cfr. Pascoli, Paulo Uccello, 16-17
[4] Cfr. Aristofane, Rane 223
[5] Divka de; lavmpei me; n ejn -duskavpnoiς dwvmasin, Agamennone, 773-774.,
[6] Euripide, Fenicie, 549
[7] Leggi,
679b-c.
[8] Cfr. Nuovo Testamento, Atti degli Apostoli,
2: Et cum compleretur dies Pentecostes
repleti sunt omnes Spiritu Sancto… alii autem irridentes dicebant: “Musto pleni
sunt isti”.
Nessun commento:
Posta un commento