Sentivo con dolore la mancanza e l’atroce
bisogno di quella mirabile donna finlandese, delle parole, dello stile,
dell’aspetto di lei. Mi scusai con Katalin, poco cortesemente, anzi un poco
crudelmente, ma del tutto sinceramente: non potevo rimanere, poiché mi mancava
una persona che a sua volta aveva bisogno di me. Parlavo senza imbarazzo,
siccome dicevo parole sentite profondamente. “Senti Katalin-dissi con aria
compunta- tu sei splendida, debreceni
Venus vagy, la Venere di Debrecen sei, e
probabilmente un giorno rimpiangerò di non avere fatto l’amore con te. Adesso
però sono innamorato di un’altra e devo, e voglio andare da lei. Sono in preda
al delirio amoroso: non posso fare diversamente”. Ci rimase male parecchio, ma
non cercò di trattenermi. Balbettò alcune parole insignificanti, che non
ricordo. La memoria è un affresco scrostato delle parti meno belle. O di quelle
migliori, secondo il carattere.
Gli altri crapuloni, sparsi sul prato del fumo
che oscurava le stelle, nemmeno si accorsero che me ne andavo, sicchè io,
alzata appena la mano sinistra per un saluto collettivo e generico, mi lanciai
di corsa verso la radura del laghetto illuminato dalla luna scoperta.
Non avevo scordato la mia parte, come succede a
un attore stupido[1] Soffrivo la mancanza di una relazione amorosa
profonda, mi sentivo come viene descritto Eros, figlio di Penia, la Povertà,
nel Simposio di Platone: un
mendicante dell’amore e della bellezza.
Passai, sempre di corsa, sopra il
ponticello di legno che risuonò non cupamente al battito svelto dei miei agili
piedi, attraversai d’impeto il piazzale con la fontana dagli zampilli “variopinti,
come la mia vita”, pensai, vedendo l’acqua che saltava policroma per i raggi
che la vestivano a festa.
La luce che mi sentivo dentro però veniva da
Elena.
In poco tempo arrivai sul prato antistante il
collegio dove la mia compagna, speravo, mi stava aspettando. Se non era già
andata via. Speravo, temevo, pregavo.
“La terra è in mezzo alle stelle che danzano
gioiosamente guidate da Dio, e sulla terra, qui a Debrecen, ci sei tu, e forse
mi pensi, e mi aspetti, e sei innamorata di me”.
Infatti, infatti Elena c’era: era stata provvida
la rinuncia a ubriacarmi di vino, a digrignare i denti e ingozzare tanta carne
degli spiedini di porco, ottima l’abnegazione dimostrata nel non rimanere a
lisciare, a sfregare, la carne ben tornita di Katalin, anche se il premio
doveva rimanere soltanto quello: avere visto Elena che mi aspettava in camera
sua affacciata alla finestra aperta sul prato umido di rugiada che luccicava di
luna. Innumerevole sorriso dei roridi steli[2].
Vedere la
sua figura nobile mi riempì di alta letizia. “Dio, accetto l’augurio”, pensai.
“Ciao”, dissi, come giunsi anelo sul rettangolo
di erba illuminata non solo dalla casta diva celeste ma anche dalla luce della
finestra che incorniciava Elena. La donna, “sì lieta come bella”[3], aveva
un’espressione di contentezza, forse proprio perché mi aveva visto arrivare. Traluceva
dagli occhi ridenti la gioia dell’attesa appagata. Elena aveva un’anima più
buona e meno contorta della mia. Anche per questo l’amavo.
“Ciao, sono venuto qua di corsa per te”. Ripresi
fiato quasi subito, siccome quell’estate correvo sistematicamente, ossia tutti
i giorni, anche due volte al giorno, cinquemila metri allo stadio. In meno di
diciotto minuti e 30 secondi. Pure atleta ero, sebbene solo a metà. Comunque
dovevo essere in forma perfetta per l’amore che mi spettava e aspettava.
Con Elena però
non sono rimasti a metà: ho fatto il massimo che si poteva.
Dovevo avere un aspetto quintessenziale,
artisticamente stilizzato.
Ci ero vicino. Sentivo che padroneggiavo il mio
corpo, lo dirigevo dove e come volevo, quasi senza fatica. Non ero appesantito
da carne che non fosse la mia. Avevo voluto una figura priva di ridondanze, effigies ingenii mei, un’immagine del mio carattere che cercavo di scolpire nella
roccia del Bene e del Bello.
Fatta una breve pausa, ricominciai: “Scusa, ho
dovuto riprendere fiato. Poco fa mi trovavo dall’altra parte del bosco con
gente che non mi piaceva, persone poco belle, poco fini, e ho sentito la
mancanza, il bisogno della tua nobile semplicità”[4].
Elena riversò su di me la luce scintillante del
volto.
Attraverso l’aria serena brillava il fulgore del
suo sorriso armonizzato con lo splendore del cielo.
Disse le parole che speravo: “Anche tu mi sei
mancato. Nel pomeriggio ho provato a parlare con altri, ma non ho sentito
niente di interessante.
Luoghi comuni, stupide banalità, il rovescio
dell’intelligenza. Io mi trovo bene, mi sento a mio agio con te, Gianni. Tu hai
qualche cosa di speciale, di geniale, per lo meno di congeniale a me. Ho avuto
nostalgia di gente del tuo stampo, insomma di te. Scusa un momento, mi cambio e
vengo. Cosa vuoi che mi metta? ”
Le vedevo soltanto una maglia bianca a righe
azzurre.
“Vestiti di bianco, tesoro, di bianco e
sportiva, se puoi”.
Mi riferivo a un suo vestito senza maniche, di
spugna, che le arrivava un palmo sopra le ginocchia rotonde e le stava
magnificamente. Era come la proiezione di un aspetto della sua persona morbida,
delicata, accogliente. Io, per godermi in pieno l’aria calda della notte
dolcissima, e pure, a dirla tutta, per sfoggiare la linea recuperata con fatica,
disciplina e successi davvero olimpici dopo l’ orrido ingrassamento dei cento
giorni in caserma, ero uscito in calzoncini succinti e maglietta di cotone,
molto attillata. Elena si ritirò dalla finestra. Frattanto levai gli occhi al cielo
con gratitudine. Era la prima volta, arrivato a ventisei anni otto mesi e
qualche giorno, che una donna di cui ero innamorato mi contraccambiava e forse,
probabilmente, sarebbe venuta a letto con me. Quella notte, ero sicuro, l’avrei
almeno baciata. Avrei assaporato la sua lingua materna, nutrice e santa.
Avrei poi raggiunto lo scopo finale con un
discorso articolato in un preludio pieno di pathos suadente, una parte centrale
argomentativa, e un’efficace esortazione persuasiva. Una morbida trama inserita
in un ordito molto robusto.
Bologna 10 novembre 2025 ore 19, 34 giovanni ghiselli
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[1] Cfr. Shakespeare, Coriolano, V, 3 .
[2] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, pontivwn te kumavtwn-ajnhvriqmon
gevlasma (vv. 89-90) .
innumerevole sorriso/delle onde marine .
[3] Dante, Paradiso I, 28
[4] Cfr. la nobile semplicità e la quieta grandezza (edle Einfalt und stille Gröbe) delle statue greche in Pensieri sull’imitazione dell’arte greca di J. Winckelmann.
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