lunedì 10 novembre 2025

Elena 10. L’apparizione alla finestra.

 

Sentivo con dolore la mancanza e l’atroce bisogno di quella mirabile donna finlandese, delle parole, dello stile, dell’aspetto di lei. Mi scusai con Katalin, poco cortesemente, anzi un poco crudelmente, ma del tutto sinceramente: non potevo rimanere, poiché mi mancava una persona che a sua volta aveva bisogno di me. Parlavo senza imbarazzo, siccome dicevo parole sentite profondamente. “Senti Katalin-dissi con aria compunta- tu sei splendida, debreceni Venus vagy,  la Venere di Debrecen sei, e probabilmente un giorno rimpiangerò di non avere fatto l’amore con te. Adesso però sono innamorato di un’altra e devo, e voglio andare da lei. Sono in preda al delirio amoroso: non posso fare diversamente”. Ci rimase male parecchio, ma non cercò di trattenermi. Balbettò alcune parole insignificanti, che non ricordo. La memoria è un affresco scrostato delle parti meno belle. O di quelle migliori, secondo il carattere.
Gli altri crapuloni, sparsi sul prato del fumo che oscurava le stelle, nemmeno si accorsero che me ne andavo, sicchè io, alzata appena la mano sinistra per un saluto collettivo e generico, mi lanciai di corsa verso la radura del laghetto illuminato dalla luna scoperta.
Non avevo scordato la mia parte, come succede a un attore stupido
[1] Soffrivo la mancanza di una relazione amorosa profonda, mi sentivo come viene descritto Eros, figlio di Penia, la Povertà, nel Simposio di Platone: un mendicante dell’amore e della bellezza.
 Passai, sempre di corsa, sopra il ponticello di legno che risuonò non cupamente al battito svelto dei miei agili piedi, attraversai d’impeto il piazzale con la fontana dagli zampilli “variopinti, come la mia vita”, pensai, vedendo l’acqua che saltava policroma per i raggi che la vestivano a festa.
La luce che mi sentivo dentro però veniva da Elena.
In poco tempo arrivai sul prato antistante il collegio dove la mia compagna, speravo, mi stava aspettando. Se non era già andata via. Speravo, temevo, pregavo.
“La terra è in mezzo alle stelle che danzano gioiosamente guidate da Dio, e sulla terra, qui a Debrecen, ci sei tu, e forse mi pensi, e mi aspetti, e sei innamorata di me”.

Infatti, infatti Elena c’era: era stata provvida la rinuncia a ubriacarmi di vino, a digrignare i denti e ingozzare tanta carne degli spiedini di porco, ottima l’abnegazione dimostrata nel non rimanere a lisciare, a sfregare, la carne ben tornita di Katalin, anche se il premio doveva rimanere soltanto quello: avere visto Elena che mi aspettava in camera sua affacciata alla finestra aperta sul prato umido di rugiada che luccicava di luna. Innumerevole sorriso dei roridi steli
[2].

Vedere la sua figura nobile mi riempì di alta letizia. “Dio, accetto l’augurio”, pensai.
“Ciao”, dissi, come giunsi anelo sul rettangolo di erba illuminata non solo dalla casta diva celeste ma anche dalla luce della finestra che incorniciava Elena. La donna, “sì lieta come bella”
[3], aveva un’espressione di contentezza, forse proprio perché mi aveva visto arrivare. Traluceva dagli occhi ridenti la gioia dell’attesa appagata. Elena aveva un’anima più buona e meno contorta della mia. Anche per questo l’amavo.
“Ciao, sono venuto qua di corsa per te”. Ripresi fiato quasi subito, siccome quell’estate correvo sistematicamente, ossia tutti i giorni, anche due volte al giorno, cinquemila metri allo stadio. In meno di diciotto minuti e 30 secondi. Pure atleta ero, sebbene solo a metà. Comunque dovevo essere in forma perfetta per l’amore che mi spettava e aspettava.
Con Elena però  non sono rimasti a metà: ho fatto il massimo che si poteva.
Dovevo avere un aspetto quintessenziale, artisticamente stilizzato.
Ci ero vicino. Sentivo che padroneggiavo il mio corpo, lo dirigevo dove e come volevo, quasi senza fatica. Non ero appesantito da carne che non fosse la mia. Avevo voluto una figura priva di ridondanze, effigies ingenii mei, un’immagine del mio carattere che cercavo di scolpire nella roccia del Bene e del Bello.
Fatta una breve pausa, ricominciai: “Scusa, ho dovuto riprendere fiato. Poco fa mi trovavo dall’altra parte del bosco con gente che non mi piaceva, persone poco belle, poco fini, e ho sentito la mancanza, il bisogno della tua nobile semplicità”
[4].
Elena riversò su di me la luce scintillante del volto.
Attraverso l’aria serena brillava il fulgore del suo sorriso armonizzato con lo splendore del cielo.
Disse le parole che speravo: “Anche tu mi sei mancato. Nel pomeriggio ho provato a parlare con altri, ma non ho sentito niente di interessante.
Luoghi comuni, stupide banalità, il rovescio dell’intelligenza. Io mi trovo bene, mi sento a mio agio con te, Gianni. Tu hai qualche cosa di speciale, di geniale, per lo meno di congeniale a me. Ho avuto nostalgia di gente del tuo stampo, insomma di te. Scusa un momento, mi cambio e vengo. Cosa vuoi che mi metta? ”
Le vedevo soltanto una maglia bianca a righe azzurre.
“Vestiti di bianco, tesoro, di bianco e sportiva, se puoi”.

Mi riferivo a un suo vestito senza maniche, di spugna, che le arrivava un palmo sopra le ginocchia rotonde e le stava magnificamente. Era come la proiezione di un aspetto della sua persona morbida, delicata, accogliente. Io, per godermi in pieno l’aria calda della notte dolcissima, e pure, a dirla tutta, per sfoggiare la linea recuperata con fatica, disciplina e successi davvero olimpici dopo l’ orrido ingrassamento dei cento giorni in caserma, ero uscito in calzoncini succinti e maglietta di cotone, molto attillata. Elena si ritirò dalla finestra. Frattanto levai gli occhi al cielo con gratitudine. Era la prima volta, arrivato a ventisei anni otto mesi e qualche giorno, che una donna di cui ero innamorato mi contraccambiava e forse, probabilmente, sarebbe venuta a letto con me. Quella notte, ero sicuro, l’avrei almeno baciata. Avrei assaporato la sua lingua materna, nutrice e santa.
Avrei poi raggiunto lo scopo finale con un discorso articolato in un preludio pieno di pathos suadente, una parte centrale argomentativa, e un’efficace esortazione persuasiva. Una morbida trama inserita in un ordito molto robusto.

Bologna 10 novembre 2025 ore 19, 34 giovanni ghiselli

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[1] Cfr. Shakespeare, Coriolano, V, 3 .

[2] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato, pontivwn te kumavtwn-ajnhvriqmon gevlasma (vv. 89-90) . innumerevole sorriso/delle onde marine .

[3] Dante, Paradiso I, 28

[4] Cfr. la nobile semplicità e la quieta grandezza (edle Einfalt und stille Gröbe) delle statue greche in Pensieri sull’imitazione dell’arte greca di J. Winckelmann.


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