martedì 12 settembre 2023

Corso di ottobre-novembre XXIV Satyricon 18. Il culto della “roba”. Fine della cena.

Trimalchione procede raccontando le tappe della sua ascesa “sublime”: il padrone lo fece coerede con Cesare per evitare che questo annullasse il testamento e si prendesse tutto. Il liberto ereditò comunque un patrimonio favoloso:"Nemini tamen nihil satis est. Concupivi negotiari. ne multis vos morer, quinque naves aedificavi, oneravi vinum-et tunc erat contra aurum-misi Romam " (76, 3), tuttavia nulla mai basta a nessuno. Mi venne la smania di mercanteggiare in grande. Per non trattenervi con molti particolari, feci costruire cinque navi, le caricai di vino, e allora valeva quanto l'oro, le mandai a Roma.

 

Era già iniziato, sebbene non fosse ancora compiuto il processo di latifondizzazione che, durante il primo secolo in Italia, portò alla decadenza della cultura della vite e dell'olivo in favore di quella più estensiva del grano. Lo stesso Rostozev, mentre ce ne dà notizia, avverte in una nota:"E' evidente che per tutto il secolo. I  latifondi dettero l'impronta alla vita economica dell'impero: non dobbiamo tuttavia dimenticare che non era affatto scomparsa, specialmente in Campania, la media proprietà"[1]. Alcune decine di pagine  prima infatti aveva scritto: "La principale esportazione italiana era quella del vino e dell'olio. L'aspetto della Campania, ch'era tutto un immenso vigneto, e il rapido sviluppo preso dalla viticultura nell'Italia settentrionale, non si spiegano se non ammettendo che il vino e l'olio d'Italia fossero esportati in grandi quantità nelle province occidentali e settentrionali dell'impero, e perfino nelle orientali. Puteoli, porto principale dell'Italia meridionale, e gli altri porti campani trafficavano su vastissima scala in vino ed olio, e così pure Aquileia nel settentrione. Ricordiamo che Trimalcione aveva acquistato la sua fortuna esportando vino, e che aveva relazioni con l'Africa. Oltre il vino e all'olio, l'Italia esportava in Occidente grandi quantità di manifatture"[2]. Nel brano letto sopra veramente sembra che il vino venga importato a Roma . Del resto il latifondo portava a culture non intensive e le province importavano meno ha scritto in altra pagina Rostozev. Non mancano contraddizioni dunque. Preferisco dare fiducia ai testi antichi: “latifundia perdidere Italiam" scrive Plinio il Vecchio[3].

 

 

 Ci fu anche il momento della cattiva fortuna:"omnes naves naufragarunt; factum, non fabula. uno die Neptunus trecenties sestertium devoravit" (76, 4), tutte le navi naufragarono; un fatto non una favola. In un sol giorno Nettuno inghiottì trecento milioni di sesterzi.-fabula:"il termine…assai generico, serviva a designare ogni varietà di racconto, anche teatrale, dalla tragedia alla commedia, dal mimo alla farsa"[4].

Nettuno dunque è ostile a Trimalchione che così si assimila a Ulisse: come l'eroe omerico nemmeno il genio del fare "la roba" si scoraggia né va a fondo. "Putatis me defecisse? non mehercules mi haec iactura gusti fuit, tamquam nihil facti. alteras feci maiores et feliciores, ut nemo non me virum fortem diceret. scis, magna navis magnam fortitudinem habet. oneravi rursus vinum, lardum, fabam, seplasium, mancipia" ( 76, 4-6), credete che io mi sia perso d'animo? no, per Ercole questa iattura non mi ha lasciato del cattivo gusto, come se nulla fosse successo. Ne ho fatto costruire altre più grandi e di maggior successo, in modo che nessuno potesse dire che non sono un uomo intrepido. Sai, una nave grande ha una grande intrepidezza. Le ho caricate di vino, lardo, fave, profumo, schiavi. A questo punto Trimalchione inserisce addirittura un elogio per Fortunata la quale:"rem piam fecit: omne enim aurum suum, omnia vestimenta vendidit et mi centum aureos in manu posit" (76, 7), fece una cosa santa: infatti vendette tutto il suo oro, tutti i vestiti e mi pose in mano cento monete d'oro. Perfino la pietas viene riconosciuta con il criterio del denaro. La devozione di Fortunata colse assolutamente nel segno poiché quel denaro fu il fermentum, il lievito del patrimonio. Quindi il liberto oramai ricco riscattò tutti i fondi che erano stati del suo padrone:"statim redemi fundos omnes, qui patroni mei fuerant" (76, 8). Divenendo proprietario terriero è come se l'ex schiavo riscattasse un'altra volta se stesso.

"Nel mondo antico la sola nobiltà riconosciuta è quella della terra, e una barriera insormontabile divide il mercante dal gentiluomo. Ecco perché alla fine della sua carriera Trimalchione, come tanti altri liberti, investe le sue ricchezze in terra, e cerca di acquistare lo status di "gentiluomo di campagna"  (scorgiamo, qui tra l'altro, una delle ragioni profonde che impedirono la formazione di un capitalismo moderno nel mondo antico). Ma il parvenu Trimalchione non ha l'educazione necessaria per essere quel gentleman che sogna, e la sua mirabolante cena ce ne mostra a ogni piè sospinto l'irrimediabile volgarità. Divenuto il princeps libertinorum, il primo dei liberti della sua città, non potrà che scimmiottare goffamente i veri aristocratici"[5].

Un altro personaggio della letteratura che aspira al latifondo quale simbolo (mancato) di immortalità è Mazzarò del Verga:"appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può né venderla, né dire ch'è sua"[6]. La roba per Mazzarò sostituiva gli affetti, gli amori, tutto: era la sua passion predominante:"Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto". Alla roba cede tutto, la roba vince su tutto (omnia vincit res):"alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte doveva mutar strada, e cedere il passo". La roba insomma ha qualche cosa di epico e sacro.  A questo proposito sentiamo Luigi Russo su Mastro Don Gesualdo che per certi versi può essere visto come un epigono di Trimalchione: "La roba è l'ultima forma disperata con cui l'uomo cerca la sua immortalità, essa è una metonimia di quel desiderio di sopravvivenza, che c'è nel cuore di tutti gli umani. Ogni buon colpo di zappa ha dunque il suo valore d'eternità. Le fattorie grandi come chiese, i villaggi interi da fabbricare, le terre da coltivare, a perdita di vista, eserciti di mietitori a giugno, grano da raccogliere a montagne, denaro a fiumi da intascare, sono allora tanti commossi simboli dell'eterno, di quel lavoro costruttivo che resta dopo di noi. Ebbene: tutta questa poesia e religione della roba , che non è qui un simbolo economico ma tutta una complessa, generosa e disperata visione del lavoro, vagheggiato per se stesso e per la sua nascosta speranza di immortalità, viene miseramente a crollare con la morte del protagonista.  "[7].

 

Neppure Trimalchione ha successo, almeno nel suo tentativo di elevarsi culturalmente: a proposito del suo stile Rostovzev afferma di essere incline a credere" che Petronio abbia scelto il tipo del liberto per aver modo di fare del nuovo ricco la figura più volgare che fosse possibile"[8]. Quando ebbe accumulato dieci milioni di sesterzi Trimalchione riscattò tutti i fondi che erano appartenuti al suo padrone, si tolse dal commercio e si diede a prestare il denaro a usura ai liberti ( libertos fenerare, 76, 9). Poi fu spronato da un mathematicus, un astrologo, Graeculio Serapa nomine (76, 10), un grechetto di nome Serapa intrinseco degli dèi. Gli diede questo responso in presenza di Abinna:"tu dominam tuam de rebus illis fecisti. tu parum felix in amicos es. nemo umquam tibi parem gratiam refert. tu latifundia possides. tu viperam sub ala nutricas" (78, 1-2), tu l’hai resa tua la padrona su quelle faccende. Tu hai poca fortuna con gli amici. Nessuno mai ti rende la gratitudine che ti deve. Tu possiedi latifondi. Tu nutri una vipera in seno.

I latifondi in effetti sono il suo massimo vanto perché poi Trimalchione aggiunge che gli restano ancora trent'anni quattro mesi e due giorni da vivere e che, se riuscirà a congiungere i suoi poderi con l'Apulia, avrà fatto abbastanza strada nella vita. La tendenza al latifondo, che Augusto cercò di contrastare senza riuscirvi, rovinò l'agricoltura italica come si legge nella Naturalis historia citata sopra.

 L'anfitrione poi vanta la grandezza e la sontuosità della casa che una volta era un cusuc (77, 4), un tugurio. Seguono le parole che contengono l'ideologia di questi liberti, la stessa del nostro tempo cosiddetto privo di ideologie:" :" credite mihi: assem habeas, assem valeas; habes, habeberis. sic amicus vester, qui fuit rana, nunc est rex . " (77), credetemi, hai un asse, vali un asse; hai, sarai considerato. Così il vostro amico che è stato una rana, adesso è un re.

Il denaro insomma compie le trasfigurazioni più impensabili. Infatti il suo valore, vero o presunto che sia, prevale su tutto. E' la considerazione, amara, che fa anche il contadino Blepsidemo nel Pluto[9] di Aristofane tutti cedono davanti al profitto!" (v. 363).

 Marx  afferma che il denaro significa:"la divinità visibile, la trasformazione di tutte le caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione universale e l'universale rovesciamento delle cose"[10].

 La cena è giunta alla conclusione, ossia al colmo dello schifo:"ibat res ad summam nauseam" (78, 5). Trimalcione oscenamente ubriaco fa entrare nel triclinio nuovi suonatori, si stende fino al fondo del divano poi  fa:  "fingite me mortuum esse. dicite aliquid belli", immaginate che sia morto. Dite qualcosa di spiritoso. Segue un baccano d'inferno, con tanto di marcia di marcia funebre, che fa intervenire i pompieri; allora Encolpio e gli amici fuggono come se scappassero da un incendio.

 

Pesaro 12 settembre 2023 ore 10, 20 giovanni ghiselli

 

p. s

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[1] M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, p,    115 n. 24.

[2] M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, p.76. 

[3] Naturalis historia, XVIII, 7.

[4] M. Bettini, La letteratura latina, 3, p. 175.

[5] M. Bettini, La letteratura latina, 3, p. 181.

[6] La roba.

[7] Introduzione di Luigi Russo a Mastro Don Gesualdo di Verga, p.14.

[8] M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'impero romano, p. 67.

[9] Del 388 a. C.

[10] Manoscritti economico-filosofici del 1844 (p. 154).

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