mercoledì 20 settembre 2023

La religione quale strumento di potere.

Altro argomento importante trattato dagli storiografi

 

La religione quale strumento di potere.

 Polibio (200ca-118ca a. C) interpreta positivamente la religione dei Romani. Nel VI libro lo storiografo di Megalopoli sostiene che la concezione degli dèi gli sembra la maggior differenza in meglio posseduta dallo Stato romano :"Megivsthn dev moi dokei' diafora;n e[cein to; JRwmaivwn polivteuma pro;" bevltion ejn th'/ peri; qew'n dialhvyei"(VI, 56, 6). Si tratta di una deisidaimoniva (56, 7), di superstizione, che, se altrove può essere oggetto di biasimo, a Roma tiene insieme lo Stato.

 Presso i Romani questa parte della cultura è stata enfatizzata in maniera tragica (" ejktetragwv/dhtai", 56, 8) e introdotta nella vita pubblica e privata tanto da non lasciarne una maggiore.

Posso aggiungere  che la superstizione di oggi è l’assoggettamento degli incolti ai dettami di ogni propaganda e di tutte le forme che assume la pubblicità.

A Polibio sembra che ciò sia stato fatto "tou' plhvqou" cavrin" (56, 9), per la massa. Se infatti fosse possibile mettere insieme uno Stato di uomini saggi, probabilmente una soluzione del genere non sarebbe necessaria, ma poiché ogni massa è leggera ("ejlafrovn") piena di desideri sregolati ("plh're" ejpiqumiw'n paranovmwn"), di impulsi irrazionali e passioni violente, non resta che trattenerle con oscuri terrori e con tale apparato da tragedia ("leivpetai toi'" ajdhvloi" fovboi" kai; th'/ toiauvth/ tragw/diva/ ta; plhvqh sunevcein", VI, 56, 11).

 

L’oscuro terrore diffuso nella piccola borghesia è quella della proletarizzazione. I penultimi parteggiano per quelli che umiliano e schiacciano gli ultimi che devono rimanere tali.

 

Questa è la ragione- continua Polibio- per cui gli antichi ("oiJ palaioiv", 12) hanno introdotto nelle plebi le nozioni riguardo agli dèi e le credenze sull'oltretomba. Male fanno i contemporanei ("oiJ nu'n") a bandirle in maniera scriteriata e irrazionale ("eijkh'/ kai; ajlovgw"").

 

Per confermare  queste parole greche del tempo della repubblica romana ne cito alcune latine di Curzio Rufo, lo storiografo partigiano del regime imperiale, in particolare dell'imperatore Claudio[1] :" Nulla res multitudinem efficacius regit quam superstitio: aliōqui impŏtens, saeva, mutabilis, ubi vana religione capta est, melius vatibus quam ducibus suis paret "(Historiae Alexandri Magni , IV, 1O), nessuna cosa meglio della superstizione governa la moltitudine: altrimenti sfrenata, crudele, volubile, quando è afferrata da una vana religione, obbedisce più facilmente agli indovini che ai suoi capi.

 

Non tutte le superstitiones del resto vengono approvate come funzionali al mantenimento dello Stato: Tacito chiama il cristianesimo exitiabilis superstitio (Annales , XV, 44, 4), funesta superstizione e Svetonio ricorda che Nerone fece condannare a morte i Cristiani:"genus hominum superstitionis novae ac maleficae " (Neronis Vita , 16), una razza seguace di una superstizione inaudita e malefica. 

Oggi viene considerata superstizione malefica quella dei fautori della cultura, della critica, del dissenso dall’opinione diffusa. 

C'è dunque un metodo  nella follia della superstizione se considerata dalla prospettiva di chi la diffonde.

Per quanto riguarda la considerazione del timore quale fondamento di un ordinato vivere civile, possiamo indicare un archetipo, o comunque un autore più antico di quelli considerati sopra, in Eschilo che nelle Eumenidi  fa dire al coro:"  "a volte il terrore è bene/e quale ispettore delle  anime/ deve restarvi a fare la guardia".(vv. 517-519). E, più avanti:"Io consiglio ai cittadini che hanno cura della città/di rispettare uno stato senza anarchia né dispotismo/e di non scacciare del tutto il timore fuori dalla città./Infatti quale mortale è giusto se non ha nessuna paura?"(vv. 696-699).

Oggi abbiamo tanto l’anarchia per cui c’è licenza di uccidere con le automobili, quanto il dispotismo: il dissenso dalla propaganda non trova spazio nei media.

La teoria di Polibio si trova già nel Sisifo attribuito a Crizia. Questo dramma satiresco contiene l'affermazione razionalistica dell'utilità politica della religione la quale è un' invenzione geniale e valida a frenare i male intenzionati con la paura dei castighi:"mi sembra che prima un uomo accorto e saggio di mente, inventò per i mortali il terrore (devo") degli dei, affinché per i malvagi ci fosse uno spauracchio ("ti dei'ma") anche se fanno o parlano o pensano qualche cosa furtivamente("lavqra/")[2].

 

E' un argomento questo che in epoca moderna viene ripreso da Machiavelli nel capitolo XI del I libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio  verte sulla religione dei Romani.

Il re Numa "trovando un popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa del tutto necessaria a volere mantenere una civiltà e la constituì in modo che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella republica il che facilitò qualunque impresa che il Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare...E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, ad animire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni a fare vergognare i rei. Talché se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obligata o a Romolo o a Numa credo più tosto Numa otterrebbe il primo grado: perché dove è religione facilmente si possono introdurre l'armi e dove sono l'armi e non religione con difficultà si può introdurre quella...E veramente mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio, perché altrimenti non sarebbero accettate".

Quindi Machiavelli tra i legislatori che "ricorrono a Dio" ne nomina due  che conosciamo bene: Licurgo e Solone. Infine tira le somme:"Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città, perché quella causò buoni ordini, i buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle repubbliche, così il dispregio di quello è cagione della rovina di esse. Perché dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' defetti della religione".

 

Sappiamo che ci sono voci contrarie alla religio e alla deisidaimoniva. Teofrasto ridicolizza il deisidaivmwn nel XVI dei suoi Caratteri  , mentre Lucrezio addirittura criminalizza la religio  in quanto è stata causa di delitti orrendi ed empi come il sacrificio di Ifigenia:"Tantum religio potuit suadere malorum ", a crimini tanto grandi poté indurre la religione, è forse il verso più famoso(I, 1OI) del De rerum natura  .

Pesaro 20 settembre 2023 ore 9, 26 giovanni ghiselli

p. s.

Seguito a sistemare questo lungo percorso arrivato a 771 pagine nel mio computer. Se non potrò presentarlo a Bologna lo farò altrove poiché va conosciuto, diffuso e discusso.

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[1] Cfr. S. Mazzarino, L'impero romano, 1, p. 216 n.6:"L'imperatore delle Historiae Alexandri (X, 9, 3-6) non può essere che Claudio…nel I secolo solo di Claudio poteva dirsi che egli aveva spento (subito dopo l'uccisione di Caligola) fiaccole e riposte spade".

 [2] Sono parole di un frammento  (25 D. K.) del Sisifo, una quarantina di versi tramandati da Sesto Empirico, filosofo scettico della seconda metà del II secolo d. C.

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