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martedì 9 luglio 2019

L'età del ferro di Ovidio è simile alla nostra?

io in Grecia con gli amici in bicicletta anche quest'anno
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Il mito delle età (oro, argento, bronzo, ferro) nel primo libro delle Metamorfosi di Ovidio

Aurea prima sata est aetas quando non c’era bisogno di leggi né di chi le difendesse e punisse siccome questa età dell’oro fidem rectumque colebat osservava lealtà e giustizia (89 - 90). Non c’erano pena e paura poena metusque aberant, né si leggevano parole minacciosee incise nel bronzo, né la folla supplichevole e senza difesa temeva le sentenze del giudice
Ancora non c’era la navigazione: “nondum caesa suis, peregrinum ut viseret orbem,/ montibus in liquidas pinus descenderat undas,/ nullaque mortales praeter sua litora norant" (vv. 94 - 96).
Non c’erano ancora profondi fossati praecipites fossae che cingebant oppida, non c’erano guerre con tuba derecti e cornua aeris flexi, tromba di bronzo dritto e corni di bronzo ricurvo, non galeae, non ensis erat, né scudi né spada, insomma non c’era la guerra.
Anche la terra era libera, non toccata dal rastrello rastroque intacta, non ferita da alcun vomere, nec ullis/ saucia vomeribus per se dabat omnia tellus (101 - 102)
Gli uomini, che accontentavano del cibo creato dalla terra senza che nessuno la forzasse - contentique cibis nullo cogente creatis (103), coglievano frutti di arbusti e fragole della montagne arbuteos fetus montanaque fraga legebant (104), poi cornioli cornaque et in duris haerentia mora dumetis (105), e le more appese a spinosi pruneti e le ghiande cadute dall’albero vasto di Giove - et quae deciderant patula Iovis arbore glandes - (106)
Ver erat aeternum , placidi Zefiri con il loro tiepido soffio accarezzavano fiori nati senza essere seminati. Una inarata tellus ferebat etiam fruges e il campo non dissodato biondeggiava di gravide spighe nec renovatus ager gravidis canebat aristis - caneo - (110)
Flumina iam lactis, iam flumina nectaris ibant
Flavaque de viridi stillabant ilice mella (111 - 112) dal tronco verde di un leccio.
Ma al regno di Saturno gettato nel Tartaro - Postquam Saturno tenebrosa in Tartara misso (113) - succedette quello di Giove sub Iove mundus erat, subiit argentea proles (114). Questa era auro deterior , fulvo pretiosior aere (155), che vale meno dell’oro ma più pregiata del bronzo rossiccio.
Giove antiqui contraxit tempora veris /116) e fece un anno di 4 stagioni
perque hiemes aestusque et inaequales autumnos - et breve ver (117 - 118)
L’aria cominciò a bruciare e a gelare. Gli uomini principiarono a entrare in case che erano grotte o fatte di frasche e rami. Si iniziò ad arare a seminare e ad aggiogare i giovenchi
Poi succedette la generazione del bronzo
Tertia post illam successit aenea proles
Saevior ingeniis et ad horrida promptior arma
Non scelerata tamen. De duro est ultima ferro.
Protinus inrupit venae peioris in aevum (125 - 128)

Durante l'ultima età, quella del metallo più vile, ogni infamia irruppe nel genere umano:" omne nefasfugitque pudor verumque fidesque;/in quorum subiere locum fraudesque dolusque/insidiaeque et vis et amor sceleratus habendi. /vela dabat ventis (nec adhuc bene noverat illos)/ navita, quaeque diu steterant in montibus altis/fluctibus ignotis exsultavere carinae; /communemque prius ceu lumina solis et auras/cautus humum longo signavit limite mensor./nec tantum segetes alimentaque debita dives/ pascebatur humus, sed itum est in viscera terrae/quasque recondiderat Stygiisque admoverat umbris/effodiuntur opes, inritamenta malorum;/ iamque nocens ferrum ferroque nocentius aurum/ prodierat: prodit bellum, quod pugnat utroque,/sanguineaque manu crepitantia concutit arma./ Vivitur ex rapto; non hospes ab hospite tutus,/non socer a genero, fratrum quoque gratia rara est./Imminet exitio vir coniugis, illa mariti;/lurida terribiles miscent aconita novercae;/filius ante diem patrios inquirit in annos./Victa iacet pietas, et Virgo caede madentis,/ultima caelestum, terras Astraea reliquit" (Metamorfosi, I, 129 - 150) e fuggì il pudore la sincerità, la fiducia; e al posto di questi valori subentrarono le frodi, gli inganni, le insidie e la violenza e l'amore criminale del possesso. Dava le vele ai venti senza ancora conoscerli bene, il marinaio, e le chiglie che a lungo erano state dritte sugli alti monti saltarono sui flutti non conosciuti, e la terra, prima di tutti come la luce del sole e l’aria, segnò con un lungo confine il misuratore guardingo. E alla terra ricca non si richiedevano soltanto le messi e il sostentamento dovuto, ma si entrò nelle viscere del globo e le risorse che aveva nascosto e riposto tra le ombre del fiume dell’odio, si estraggono, stimolo dei mali; e già il ferro funesto e, più funesto del ferro, l'oro era venuto alla luce : venne alla luce la guerra, che combatte con l'uno e con l'altro, e con mano sanguinaria scuote ordigni che scoppiano. Si vive di rapina; l'ospite non è al riparo dall'ospite, non il suocero dal genero, anche l'accordo tra fratelli è poco frequente. Il marito minaccia di rovina la moglie, questa il marito; mescolano squallide pozioni velenose le terrificanti matrigne; il figlio scruta la morte anzi tempo negli anni del padre. Giace sconfitta la carità e la Vergine Astrèa, ultima dei celesti, ha lasciato le terre sporche di strage.

Pudor v. 129. Il pudore è considerato già da Esiodo uno dei pilastri del vivere umano e civile: nelle Opere il poeta afferma che nell'ultima fase dell' empia età ferrea gli uomini nasceranno con le tempie bianche (poliokrovtafoi, v. 181) oltraggeranno i genitori che invecchiano, useranno il diritto del più forte, la giustizia starà nelle mani (divkh d j ejn cersiv , v. 192) e se ne andranno Cavri" , Gratitudine, Aijdwv" Rispetto e Pudore, Nevmesi" , lo Sdegno; quindi non vi sarà più scampo dal male "kakou' d j oujk e[ssetai ajlkhv" (v. 201).

Altrettanta forza, se non anche di più, ha il Pudore nella cultura latina.
"Pudor è il senso morale per cui si prova scrupolo e ripugnanza davanti a tutto ciò che nega i valori morali e religiosi. E' affine all' aijdwv" dei Greci, ma ha vitalità molto maggiore: la Pudicitia era una divinità oggetto di un culto importante; al culto della Pudicitia patricia la plebe aveva affiancato e contrapposto un culto della Pudicitia plebeia "[1].

Fides v. 129. Altro valore di base della civiltà latina. Cicerone nel De officiis (del 44 a. C.) dà una definizione della fides " Fundamentum autem est iustitiae fides, id est dictorum conventorumque constantia et veritas " (I, 23), orbene la fides è il fondamento della giustizia, cioè la fermezza e la veridicità delle parole e dei patti convenuti.

Amor sceleratus habendi v. 131. Virgilio nell'Eneide vede la brama dell'oro come motore di efferati delitti e ricorda quello del barbaro re tracio:" Polydorum obtruncat et auro/ vi potitur. Quid non mortalia pectora cogis , /auri sacra fames! ", massacra Polidoro e con violenza si impossessa dell'oro. A cosa non spingi i cuori umani, maledetta fame dell'oro! (III, 55 - 57).

Seneca nel De ira ricorda che i re incrudeliscono, compiono rapine e distruggono città costruite con lunga fatica di secoli per cercare oro e argento dentro le ceneri delle città:"reges saeviunt rapiuntque et civitates longo saeculorum labore constructas evertunt ut aurum argentumque in cinere urbium scrutentur " (III, 33, 1). 

 Anche il Satyricon è ricco di anatemi del denaro:"quid faciant leges, ubi sola pecunia regnat? ", cosa possono fare le leggi dove comandano solo i quattrini? (14), e, più avanti :"noli ergo mirari, si pictura defecit, cum omnibus dis hominibusque formosior videatur massa auri, quam quicquid Apelles Phidiasque, Graeculi delirantes, fecerunt " (88), non devi dunque stupirti se la pittura è morta, dato che a tutti, dèi e uomini, sembra più attraente un mucchio d'oro di quello che fecero Apelle e Fidia, Grechetti matti.

Dante biasima Firenze, tra l'altro, poiché "produce e spande il maladetto fiore/ch'a disviate le pecore e li agni,/però che fatto ha lupo del pastore"[2]. Si tratta ovviamente del fiorino.

 Shakespeare nel Timone d'Atene (IV, 3) chiama l'oro yellow slave - schiavo giallo - che metterà insieme e spezzerà religioni, benedirà i maledetti, farà adorare la lebbra canuta, place thieves, darà dei posti ai ladri, e assegnerà loro delle cariche, e applausi nei banchi del senato”, " common whore of mankind”, comune bagascia del genere umano, che semina discordie tra la marmaglia delle nazioni.

C. Marx ne i Manoscritti economico - filosofici del 1844 , commenta il drammaturgo inglese dicendo che nel denaro rileva soprattutto due caratteristiche:
1) la divinità visibile, la trasformazione di tutte le caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione universale e l'universale rovesciamento delle cose. Esso fonde insieme le cose impossibili;
2) è la meretrice universale, la mezzana universale degli uomini e dei popoli”
Poi: “il denaro è il mezzo universale e il potere universale di ridurre la rappresentazione a realtà e la realtà a rappresentazione (…) Chi può comprare il coraggio, è coraggioso anche se vile”.
 Il denaro “è la fusione delle cose impossibili; esso costringe gli oggetti contraddittori a baciarsi. Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto con il mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore, fiducia solo con fiducia ecc. Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente (…) Se tu ami senza suscitare una amorosa corrispondenza, cioè se il tuo amore non produce una corrispondenza d’amore, se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un’infelicità”[3].
  
Leopardi in Il pensiero dominante condanna l’ossessione dell’utile da parte della sua età "superba,/ che di vote speranze si nutrica,/vaga di ciance, e di virtù nemica;/stolta, che l'util chiede,/e inutile la vita/quindi più sempre divenir non vede"(vv. 59 - 64).
Ancora più duramente si esprime nei confronti del lucro il poeta di Recanati nella Palinodia al Marchese Gino Capponi: " anzi coverte/fien di stragi l'Europa e l'altra riva/dell'atlantico mar (...) sempre che spinga/contrarie in campo le fraterne schiere/di pepe o di cannella o d'altro aroma/fatale cagione, o di melate canne,/o cagion qual si sia ch'ad auro torni"(vv. 61 - 67).
  
Vela dabat ventis (132)
Seneca attraverso il secondo coro della Medea maledice la navigazione come attività troppo audace per l'uomo:" Audax nimium, qui freta primus/rate tam fragili perfida rupit/terrasque suas post terga videns/animam levibus credidit auris… " (vv. 301 - 304), audace troppo chi per primo ruppe con la barca tanto fragile i perfidi flutti e vedendo alle spalle la sua terra affidò la vita ai venti incostanti. Il primo a violare il mare è stato Giasone la cui audacia e perfidia ha trovato degni antagonisti nei freta perfida.

Nella Tebaide di Stazio c’è un ricordo dell’audacia del navigare: audace è l’abete (audax abies, VI, 104) che in questo contesto però viene abbattuto con altri alberi per la colossale pira funebre del piccolo Archemoro ucciso da un serpente. Allora vennero istituiti i giochi Nemei. Il taglio del bosco fa comunque piangere la terra: “dat gemitum tellus” (v. 107) e fuggire le divinità silvane. Uno scempio del genere si ha quando un comandante concede il saccheggio ai soldati vincitori i quali abbattono e portano via tutto senza freno con un fragore più grande di quando combattevano: “immodici, minor ille fragor quo bella gerebant” (v. 117).
Nell’Achilleide Tetide, in ansia per la sorte di Achille, rinfaccia a Nettuno di avere aperto la disgraziata distesa marina a usi criminali: “Eunt tutis terrarum crimina velis,/ex quo iura freti maiestatemque repostam/rupit Iasonia puppis Pagasaea rapina” (vv. 63 - 65), veleggiano sicuri i delitti delle terre, da quando la poppa di Pagase ha violato con la rapina di Giasone i diritti del mare e la sua remota maestà.
Il delitto successivo (aliud scelus, v. 66) che inquieta Tetide è il ratto di Elena da parte di Paride: porterà infatti Achille alla morte che la madre tenta di scongiurare, invano.

Ma torniamo alla Medea di Seneca:"dubioque secans aequora cursu,/potuit tenui fidere ligno,/inter vitae mortisque vias/nimium gracili limite ducto" (305 - 308), e fendendo gli spazi marini con rotta infida, fu capace di affidarsi a un legno debole guidato sul confine troppo sottile tra le vie della vita e della morte.
Insomma questo Coro della Medea situa l'età edenica nel passato antecedente l'impresa di Argo:"Candida nostri saecula patres/videre, procul fraude remota./Sua quisque piger litora tangens,/patrioque senex factus in arvo,/parvo dives, nisi quas tulerat/natale solum, non norat opes./Bene dissaepti foedera mundi/traxit in unum Thessala pinus,/iussitque pati verbera pontum;/partemque metus fieri nostri/mare sepositum" (vv. 328 - 338), secoli immacolati videro i nostri padri, tenuta lontano la frode. Ciascuno tenendo pigro i suoi lidi e divenuto vecchio nel campo paterno, ricco con poco, non conosceva ricchezze se non quelle prodotte dal suolo natale. La nave Tessala unificò le regole del cosmo ben diviso in parti, e ordinò che il ponto patisse le frustate dei remi; e che il mare già separato divenisse parte della nostra paura.
Il terzo coro, con l’ultima strofe saffica, consiglia "vade, qua tutum populo priori;/rumpe nec sacro, violente, sancta/foedera mundi! " (Medea, vv. 605 - 606), procedi per dove il cammino è stato sicuro alla gente di prima; e non spezzare con violenza le sacrosante regole del mondo.
Quindi i coreuti Corinzi procedono con questo avvertimento: "Quisquis audacis tetigit carinae/nobiles remos nemorisque sacri/Pelion densa spoliavit umbra,/ quisquis intravit scopulos vagantes/et tot emensus pelagi labores/barbara funem religavit ora/raptor externi rediturus auri,/exitu diro temerata ponti/iura piavit./Exigit poenas mare provocatum " ( Medea, vv. 607 - 616), tutti quelli che toccarono i remi famosi della nave audace, e spogliarono il Pelio dell'ombra densa della foresta sacra[4]; chiunque passò tra gli scogli v
aganti e, attraversati tanti travagli del mare, gettò l'ancora su una barbara spiaggia, per tornare impossessatosi dell'oro straniero, con morte orribile espiò le violate leggi del mare. Fa pagare il fio il mare provocato. Alla fine del coro i Corinzi chiedono agli dèi di graziare Giasone, di risparmiargli l’exitus dirus, (cfr. v. 614), la morte orribile degli altri Argonauti, dato che egli è partito iussus: “Iam satis, divi, mare vindicastis:/parcite iusso” ( Medea, v. 668 - 669).

Quaeque steterant v. 133. Sono gli alberi abbattuti per costruire le navi. Cfr. il Pelio spogliato dell’ombra nella Medea di Seneca (v. 609 citato sopra). Ricorda anche Monti di Al Signor Di Montgolfier

Quando Giason dal Pelio
spinse nel mar gli abeti,
e primo corse a fendere
co' remi il seno a Teti.

Signavit limite v. 136. Marx fa derivare il capitalismo proprio da queste recinzioni del terreno: “Il processo che ha portato alla separazione dei lavoratori dalla proprietà dei mezzi produttivi tramite l’espropriazione delle terre comuni, in nome della parola d’ordune “trasformare i campi in pascoli per pecore”[5], avvenne in maniera violenta. Furono infatti scacciati con la forza, tramite l’usurpazione coercitiva, i contadini che, in pieno accordo con la giurisdizione feudale, occupavano e lavoravano le terre comuni: le leggi per la recinzione di queste ultime - i cosiddetti Bills for Inclosures of Commons - non fecero altro che fornire una legittimazione formale a quanto, di fatto, stava già accadendo in opposizione alla legislazione dell’epoca feudale. Con questi decreti,“per mezzo dei quali i signori dei fondi regalarono a se stessi, come proprietà privata, terre del popolo”[6], viene portato a compimento l’esproprio ai danni delle masse, che così si trovano prive di tutto ciò che serve loro per sopravvivere e, dunque, costrette a mettersi in vendita ai proprietari che ora dispongono in forma esclusiva delle proprietà che un tempo erano comuni”[7]
Del resto tale occupazione da parte dei ricchi e potenti era già avvenuto nella Roma repubblicana con l’occupazione dell’agro pubblico. I Gracchi si opposero, invano.
 Tiberio Gracco aveva notato l’oppressione dei contadini
Quando parlava diceva che le bestie hanno una tana, mentre chi combatte per l’Italia ha solo l’aria. Eppure i comandanti chiedono loro di combattere per il proprio focolare e per le tombe degli avi. Di fatto combattono per difendere il lusso altrui. Vengono chiamati padroni del mondo e non hanno nemmeno una zolla di terra (Plutarco, Vita di Tiberio, 9). I territori conquistati venivano occupati dai ricchi e fatti lavorare dagli schiavi. 

Nocens ferrum v. 141 E' un topos antitecnologico che risale a Erodoto: "il ferro fu inventato per il male dell'uomo" (Storie, I, 68). Euripide nelle Fenicie attribuisce alla strage un cuore di ferro: "sidarovfrwn fovno" " (vv. 672 - 673).

Nocentius aurum v. 141 Si può pensare a quello nero: il petrolio per il quale si è versato tanto sangue. Che il ferro e l'oro creino discordia tra gli uomini portando differenziazioni economiche e sociali lo afferma anche Platone nelle Leggi (679b).

Fratrunm quoque gratia v. 145. Lucrezio afferma che gli uomini, credendo di sfuggire al terrore della morte, gonfiano gli averi col sangue civile, e ammassano avidi le ricchezze, accumulando strage su strage, godono crudeli dei tristi lutti fraterni, e odiano e temono le mense dei consanguinei "et consanguineum mensas odere timentque " (De rerum natura , III, 73).
Astraea v. 150. Dea della Giustizia





[1]A. La Penna - C. Grassi (a cura di) Virgilio, Le Opere, Antologia , p. 373.
[2]Paradiso , IX, 130 - 132.
[3] Terzo manoscritto, pagine finali
[4] Si noti l’oltraggio all’ambiente. Anche nella Tebaide di Stazio la terra soffre il disboscamento dovuto alla costruzione di una pila colossale per il piccolo Ofelte: “ dat gemitum tellus”(VI, 107), ne piange la terra. Pale, dea dei campi e Silvano signore dell’ombra della foresta (arbiter umbrae, v. 111) abbandonano piangendo i cari luoghi del loro riposo (linquunt flentes dilecta locorum/otia, vv. 110 - 111), mentre le Ninfe abbracciate ai tronchi degli alberi e non vogliono lasciarli: “nec amplexae dimittunt robora Nymphae” (v. 113).
Nell’Achilleide Stazio ricorda che la costruzione della flotta necessaria alla guerra contro Troia spogliò delle loro ombre i monti e li rimpicciolì: “Nusquam umbrae veteres: minor Othrys et ardua sidunt/ Taygeta, exuti viderunt aëra montes./Iam natat omne nemus” (I, 426 - 428), in nessun luogo le antiche ombre: è più piccolo l’Otris e si abbassa l’erto Taigeto, e i monti spogliati videro l’aria. Oramai ogni monte galleggia.
L’Otris è una catena montuosa della Tessaglia; il Taigeto, si sa, è la montagna che sovrasta Sparta. Chi scrive l’ha scalata da Kalamata alla cima (km 33, 12) in bicicletta in 2 ore, 14 minuti e 27 secondi, alla media di 14, 7 Km all’ora. All’età di 62 anni e 8 mesi.
[5] Marx, Il capitaleI, p. 779 (trad. it. Editori riuniti, 1964.
[6]Marx, Il Capitale, p. 796
[7] Diego fusaro, Bentornato Marx!, pp. 179 - 180.

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