io in Grecia con gli amici in bicicletta anche quest'anno |
Il mito delle età (oro, argento, bronzo, ferro) nel primo libro delle Metamorfosi di
Ovidio
Aurea prima sata est aetas quando non c’era bisogno di leggi né di
chi le difendesse e punisse siccome questa età dell’oro fidem rectumque
colebat osservava lealtà e giustizia (89 - 90). Non c’erano pena e
paura poena metusque aberant, né si leggevano parole
minacciosee incise nel bronzo, né la folla supplichevole e senza difesa temeva
le sentenze del giudice
Ancora non c’era la navigazione: “nondum caesa suis, peregrinum ut
viseret orbem,/ montibus in liquidas pinus descenderat undas,/ nullaque
mortales praeter sua litora norant" (vv. 94 - 96).
Non c’erano ancora profondi fossati praecipites fossae che cingebant
oppida, non c’erano guerre con tuba derecti e cornua
aeris flexi, tromba di bronzo dritto e corni di bronzo ricurvo, non
galeae, non ensis erat, né scudi né spada, insomma non c’era la
guerra.
Anche la terra era libera, non toccata dal rastrello rastroque
intacta, non ferita da alcun vomere, nec ullis/ saucia vomeribus
per se dabat omnia tellus (101 - 102)
Gli uomini, che accontentavano del cibo creato dalla terra senza che
nessuno la forzasse - contentique cibis nullo cogente creatis (103),
coglievano frutti di arbusti e fragole della montagne arbuteos fetus
montanaque fraga legebant (104), poi cornioli cornaque et in
duris haerentia mora dumetis (105), e le more appese a spinosi pruneti
e le ghiande cadute dall’albero vasto di Giove - et quae deciderant
patula Iovis arbore glandes - (106)
Ver erat aeternum , placidi Zefiri con il loro tiepido soffio accarezzavano fiori nati
senza essere seminati. Una inarata tellus ferebat etiam fruges e
il campo non dissodato biondeggiava di gravide spighe nec renovatus
ager gravidis canebat aristis - caneo - (110)
Flumina iam lactis, iam flumina nectaris ibant
Flavaque de viridi stillabant ilice mella (111 - 112) dal tronco verde di un
leccio.
Ma al regno di Saturno gettato nel Tartaro - Postquam Saturno
tenebrosa in Tartara misso (113) - succedette quello di Giove sub
Iove mundus erat, subiit argentea proles (114). Questa era auro deterior
, fulvo pretiosior aere (155), che vale meno dell’oro ma più pregiata
del bronzo rossiccio.
Giove antiqui contraxit tempora veris /116) e fece un anno
di 4 stagioni
perque hiemes aestusque et inaequales autumnos - et breve ver (117 - 118)
L’aria cominciò a bruciare e a gelare. Gli uomini principiarono a entrare
in case che erano grotte o fatte di frasche e rami. Si iniziò ad arare a
seminare e ad aggiogare i giovenchi
Poi succedette la generazione del bronzo
Tertia post illam successit aenea proles
Saevior ingeniis et ad horrida promptior arma
Non scelerata tamen. De duro est ultima ferro.
Protinus inrupit venae peioris in aevum (125 - 128)
Durante l'ultima età, quella del metallo più vile, ogni infamia irruppe nel
genere umano:" omne nefas, fugitque pudor verumque
fidesque;/in quorum subiere locum fraudesque dolusque/insidiaeque et vis et
amor sceleratus habendi. /vela dabat ventis (nec adhuc bene noverat illos)/
navita, quaeque diu steterant in montibus altis/fluctibus ignotis exsultavere
carinae; /communemque prius ceu lumina solis et auras/cautus humum longo
signavit limite mensor./nec tantum segetes alimentaque debita dives/ pascebatur
humus, sed itum est in viscera terrae/quasque recondiderat Stygiisque admoverat
umbris/effodiuntur opes, inritamenta malorum;/ iamque nocens ferrum ferroque
nocentius aurum/ prodierat: prodit bellum, quod pugnat utroque,/sanguineaque
manu crepitantia concutit arma./ Vivitur ex rapto; non hospes ab hospite
tutus,/non socer a genero, fratrum quoque gratia rara est./Imminet exitio vir
coniugis, illa mariti;/lurida terribiles miscent aconita novercae;/filius ante
diem patrios inquirit in annos./Victa iacet pietas, et Virgo caede
madentis,/ultima caelestum, terras Astraea reliquit" (Metamorfosi,
I, 129 - 150) e fuggì il pudore la sincerità, la fiducia; e al posto di questi
valori subentrarono le frodi, gli inganni, le insidie e la violenza e l'amore
criminale del possesso. Dava le vele ai venti senza ancora conoscerli bene, il
marinaio, e le chiglie che a lungo erano state dritte sugli alti monti
saltarono sui flutti non conosciuti, e la terra, prima di tutti come la luce
del sole e l’aria, segnò con un lungo confine il misuratore guardingo. E alla
terra ricca non si richiedevano soltanto le messi e il sostentamento dovuto, ma
si entrò nelle viscere del globo e le risorse che aveva nascosto e riposto tra
le ombre del fiume dell’odio, si estraggono, stimolo dei mali; e già il ferro
funesto e, più funesto del ferro, l'oro era venuto alla luce : venne alla luce
la guerra, che combatte con l'uno e con l'altro, e con mano sanguinaria scuote
ordigni che scoppiano. Si vive di rapina; l'ospite non è al riparo dall'ospite,
non il suocero dal genero, anche l'accordo tra fratelli è poco frequente. Il
marito minaccia di rovina la moglie, questa il marito; mescolano squallide
pozioni velenose le terrificanti matrigne; il figlio scruta la morte anzi tempo
negli anni del padre. Giace sconfitta la carità e la Vergine Astrèa, ultima dei
celesti, ha lasciato le terre sporche di strage.
Pudor v. 129. Il pudore è considerato già da Esiodo uno dei pilastri del
vivere umano e civile: nelle Opere il poeta afferma che
nell'ultima fase dell' empia età ferrea gli uomini nasceranno con le tempie
bianche (poliokrovtafoi, v. 181) oltraggeranno i genitori che
invecchiano, useranno il diritto del più forte, la giustizia starà nelle mani (divkh
d j ejn cersiv , v. 192) e se ne andranno Cavri" ,
Gratitudine, Aijdwv" Rispetto e Pudore, Nevmesi" , lo Sdegno;
quindi non vi sarà più scampo dal male "kakou'
d j oujk e[ssetai ajlkhv" (v. 201).
Altrettanta forza, se non anche di più, ha il Pudore nella cultura latina.
"Pudor è il senso morale per cui si prova scrupolo e
ripugnanza davanti a tutto ciò che nega i valori morali e religiosi. E' affine
all' aijdwv" dei Greci, ma ha vitalità molto
maggiore: la Pudicitia era una divinità oggetto di un culto
importante; al culto della Pudicitia patricia la plebe aveva
affiancato e contrapposto un culto della Pudicitia plebeia "[1].
Fides v. 129. Altro valore di base della civiltà latina. Cicerone nel De
officiis (del 44 a. C.) dà una definizione della fides " Fundamentum
autem est iustitiae fides, id est dictorum conventorumque constantia et veritas "
(I, 23), orbene la fides è il fondamento della giustizia, cioè
la fermezza e la veridicità delle parole e dei patti convenuti.
Amor sceleratus habendi v. 131. Virgilio nell'Eneide vede
la brama dell'oro come motore di efferati delitti e ricorda quello del barbaro
re tracio:" Polydorum obtruncat et auro/ vi potitur. Quid non
mortalia pectora cogis , /auri sacra fames! ", massacra Polidoro
e con violenza si impossessa dell'oro. A cosa non spingi i cuori umani,
maledetta fame dell'oro! (III, 55 - 57).
Seneca nel De ira ricorda che i re incrudeliscono,
compiono rapine e distruggono città costruite con lunga fatica di secoli per
cercare oro e argento dentro le ceneri delle città:"reges saeviunt
rapiuntque et civitates longo saeculorum labore constructas evertunt ut aurum
argentumque in cinere urbium scrutentur " (III, 33, 1).
Anche il Satyricon è ricco di anatemi del
denaro:"quid faciant leges, ubi sola pecunia regnat? ",
cosa possono fare le leggi dove comandano solo i quattrini? (14), e, più avanti
:"noli ergo mirari, si pictura defecit, cum omnibus dis hominibusque
formosior videatur massa auri, quam quicquid Apelles Phidiasque, Graeculi
delirantes, fecerunt " (88), non devi dunque stupirti se la
pittura è morta, dato che a tutti, dèi e uomini, sembra più attraente un
mucchio d'oro di quello che fecero Apelle e Fidia, Grechetti matti.
Dante biasima Firenze, tra l'altro, poiché "produce e spande il
maladetto fiore/ch'a disviate le pecore e li agni,/però che fatto ha lupo del
pastore"[2]. Si tratta ovviamente
del fiorino.
Shakespeare nel Timone d'Atene (IV, 3) chiama
l'oro yellow slave - schiavo giallo - che metterà insieme e
spezzerà religioni, benedirà i maledetti, farà adorare la lebbra canuta, place
thieves, darà dei posti ai ladri, e assegnerà loro delle cariche, e
applausi nei banchi del senato”, " common whore of mankind”,
comune bagascia del genere umano, che semina discordie tra la marmaglia delle
nazioni.
C. Marx ne i Manoscritti economico - filosofici del 1844 ,
commenta il drammaturgo inglese dicendo che nel denaro rileva soprattutto due
caratteristiche:
1) la divinità visibile, la trasformazione di tutte le caratteristiche
umane e naturali nel loro contrario, la confusione universale e l'universale
rovesciamento delle cose. Esso fonde insieme le cose impossibili;
2) è la meretrice universale, la mezzana universale degli uomini e dei
popoli”
Poi: “il denaro è il mezzo universale e il potere universale di ridurre la
rappresentazione a realtà e la realtà a rappresentazione (…) Chi può comprare il
coraggio, è coraggioso anche se vile”.
Il denaro “è la fusione delle cose impossibili; esso costringe gli
oggetti contraddittori a baciarsi. Se presupponi l’uomo come uomo e il suo
rapporto con il mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto
con amore, fiducia solo con fiducia ecc. Se vuoi godere dell’arte, devi essere
un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri
uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e
sollecitandoli realmente (…) Se tu ami senza suscitare una amorosa
corrispondenza, cioè se il tuo amore non produce una corrispondenza d’amore, se
nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te
stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un’infelicità”[3].
Leopardi in Il pensiero dominante condanna
l’ossessione dell’utile da parte della sua età "superba,/ che di vote
speranze si nutrica,/vaga di ciance, e di virtù nemica;/stolta, che l'util
chiede,/e inutile la vita/quindi più sempre divenir non vede"(vv. 59 -
64).
Ancora più duramente si esprime nei confronti del lucro il poeta di
Recanati nella Palinodia al Marchese Gino Capponi: " anzi
coverte/fien di stragi l'Europa e l'altra riva/dell'atlantico mar (...) sempre
che spinga/contrarie in campo le fraterne schiere/di pepe o di cannella o
d'altro aroma/fatale cagione, o di melate canne,/o cagion qual si sia ch'ad
auro torni"(vv. 61 - 67).
Vela dabat ventis (132)
Seneca attraverso il secondo coro della Medea maledice la
navigazione come attività troppo audace per l'uomo:" Audax nimium,
qui freta primus/rate tam fragili perfida rupit/terrasque suas post terga
videns/animam levibus credidit auris… " (vv. 301 - 304), audace
troppo chi per primo ruppe con la barca tanto fragile i perfidi flutti e
vedendo alle spalle la sua terra affidò la vita ai venti incostanti. Il primo a
violare il mare è stato Giasone la cui audacia e perfidia ha trovato degni
antagonisti nei freta perfida.
Nella Tebaide di Stazio c’è un ricordo dell’audacia del
navigare: audace è l’abete (audax abies, VI, 104) che in questo contesto
però viene abbattuto con altri alberi per la colossale pira funebre del piccolo
Archemoro ucciso da un serpente. Allora vennero istituiti i giochi Nemei. Il
taglio del bosco fa comunque piangere la terra: “dat gemitum tellus” (v.
107) e fuggire le divinità silvane. Uno scempio del genere si ha quando un
comandante concede il saccheggio ai soldati vincitori i quali abbattono e
portano via tutto senza freno con un fragore più grande di quando combattevano:
“immodici, minor ille fragor quo bella gerebant” (v. 117).
Nell’Achilleide Tetide, in ansia per la sorte di Achille,
rinfaccia a Nettuno di avere aperto la disgraziata distesa marina a usi
criminali: “Eunt tutis terrarum crimina velis,/ex quo iura freti
maiestatemque repostam/rupit Iasonia puppis Pagasaea rapina” (vv. 63 - 65),
veleggiano sicuri i delitti delle terre, da quando la poppa di Pagase ha
violato con la rapina di Giasone i diritti del mare e la sua remota maestà.
Il delitto successivo (aliud scelus, v. 66) che inquieta Tetide è il
ratto di Elena da parte di Paride: porterà infatti Achille alla morte che la
madre tenta di scongiurare, invano.
Ma torniamo alla Medea di Seneca:"dubioque secans
aequora cursu,/potuit tenui fidere ligno,/inter vitae mortisque vias/nimium
gracili limite ducto" (305 - 308), e fendendo gli spazi marini con
rotta infida, fu capace di affidarsi a un legno debole guidato sul confine
troppo sottile tra le vie della vita e della morte.
Insomma questo Coro della Medea situa l'età edenica nel
passato antecedente l'impresa di Argo:"Candida nostri saecula
patres/videre, procul fraude remota./Sua quisque piger litora
tangens,/patrioque senex factus in arvo,/parvo dives, nisi quas tulerat/natale
solum, non norat opes./Bene dissaepti foedera mundi/traxit in unum Thessala
pinus,/iussitque pati verbera pontum;/partemque metus fieri nostri/mare
sepositum" (vv. 328 - 338), secoli immacolati videro i nostri padri,
tenuta lontano la frode. Ciascuno tenendo pigro i suoi lidi e divenuto vecchio
nel campo paterno, ricco con poco, non conosceva ricchezze se non quelle
prodotte dal suolo natale. La nave Tessala unificò le regole del cosmo ben
diviso in parti, e ordinò che il ponto patisse le frustate dei remi; e che il
mare già separato divenisse parte della nostra paura.
Il terzo coro, con l’ultima strofe saffica, consiglia "vade,
qua tutum populo priori;/rumpe nec sacro, violente, sancta/foedera mundi! "
(Medea, vv. 605 - 606), procedi per dove il cammino è stato sicuro alla
gente di prima; e non spezzare con violenza le sacrosante regole del mondo.
Quindi i coreuti Corinzi procedono con questo avvertimento: "Quisquis
audacis tetigit carinae/nobiles remos nemorisque sacri/Pelion densa spoliavit
umbra,/ quisquis intravit scopulos vagantes/et tot emensus pelagi labores/barbara
funem religavit ora/raptor externi rediturus auri,/exitu diro temerata
ponti/iura piavit./Exigit poenas mare provocatum " ( Medea,
vv. 607 - 616), tutti quelli che toccarono i remi famosi della nave audace, e
spogliarono il Pelio dell'ombra densa della foresta sacra[4]; chiunque passò tra gli scogli v
aganti e, attraversati tanti travagli del mare, gettò l'ancora su una
barbara spiaggia, per tornare impossessatosi dell'oro straniero, con morte
orribile espiò le violate leggi del mare. Fa pagare il fio il mare
provocato. Alla fine del coro i Corinzi chiedono agli dèi di graziare
Giasone, di risparmiargli l’exitus dirus, (cfr. v. 614), la
morte orribile degli altri Argonauti, dato che egli è partito iussus:
“Iam satis, divi, mare vindicastis:/parcite iusso” ( Medea,
v. 668 - 669).
Quaeque steterant v. 133. Sono gli alberi abbattuti per costruire le navi. Cfr. il
Pelio spogliato dell’ombra nella Medea di Seneca (v. 609
citato sopra). Ricorda anche Monti di Al
Signor Di Montgolfier
Quando Giason dal Pelio
spinse nel mar gli abeti,
e primo corse a fendere
co' remi il seno a Teti.
Signavit limite v. 136. Marx fa derivare il capitalismo proprio da queste recinzioni
del terreno: “Il processo che ha portato alla separazione dei lavoratori dalla
proprietà dei mezzi produttivi tramite l’espropriazione delle terre comuni, in
nome della parola d’ordune “trasformare i campi in pascoli per pecore”[5], avvenne in maniera violenta. Furono infatti
scacciati con la forza, tramite l’usurpazione coercitiva, i contadini che, in
pieno accordo con la giurisdizione feudale, occupavano e lavoravano le terre
comuni: le leggi per la recinzione di queste ultime - i cosiddetti Bills
for Inclosures of Commons - non fecero altro che fornire una
legittimazione formale a quanto, di fatto, stava già accadendo in opposizione
alla legislazione dell’epoca feudale. Con questi decreti,“per mezzo dei quali i
signori dei fondi regalarono a se stessi, come proprietà privata, terre del
popolo”[6], viene portato a compimento l’esproprio ai
danni delle masse, che così si trovano prive di tutto ciò che serve loro per
sopravvivere e, dunque, costrette a mettersi in vendita ai proprietari che ora
dispongono in forma esclusiva delle proprietà che un tempo erano comuni”[7]
Del resto tale occupazione da parte dei ricchi e potenti era già avvenuto
nella Roma repubblicana con l’occupazione dell’agro pubblico. I Gracchi si
opposero, invano.
Tiberio Gracco aveva notato l’oppressione dei contadini
Quando parlava diceva che le bestie hanno una tana, mentre chi combatte per
l’Italia ha solo l’aria. Eppure i comandanti chiedono loro di combattere per il
proprio focolare e per le tombe degli avi. Di fatto combattono per difendere il
lusso altrui. Vengono chiamati padroni del mondo e non hanno nemmeno una zolla
di terra (Plutarco, Vita di Tiberio, 9). I territori conquistati
venivano occupati dai ricchi e fatti lavorare dagli schiavi.
Nocens ferrum v. 141 E' un topos antitecnologico che risale a Erodoto: "il
ferro fu inventato per il male dell'uomo" (Storie, I, 68).
Euripide nelle Fenicie attribuisce alla strage un cuore di ferro: "sidarovfrwn
fovno" " (vv. 672 - 673).
Nocentius aurum v. 141 Si può pensare a quello nero: il petrolio per il quale si è
versato tanto sangue. Che il ferro e l'oro creino discordia tra gli uomini
portando differenziazioni economiche e sociali lo afferma anche Platone
nelle Leggi (679b).
Fratrunm quoque gratia v. 145. Lucrezio afferma che gli uomini,
credendo di sfuggire al terrore della morte, gonfiano gli averi col sangue
civile, e ammassano avidi le ricchezze, accumulando strage su strage, godono
crudeli dei tristi lutti fraterni, e odiano e temono le mense dei
consanguinei "et consanguineum mensas odere timentque "
(De rerum natura , III, 73).
Astraea v. 150. Dea della Giustizia
[4] Si noti
l’oltraggio all’ambiente. Anche nella Tebaide di Stazio
la terra soffre il disboscamento dovuto alla costruzione di una pila colossale
per il piccolo Ofelte: “ dat gemitum tellus”(VI, 107),
ne piange la terra. Pale, dea dei campi e Silvano signore dell’ombra della
foresta (arbiter umbrae, v. 111) abbandonano piangendo i cari luoghi del
loro riposo (linquunt flentes dilecta locorum/otia, vv. 110 - 111),
mentre le Ninfe abbracciate ai tronchi degli alberi e non vogliono lasciarli: “nec
amplexae dimittunt robora Nymphae” (v. 113).
Nell’Achilleide Stazio ricorda che la costruzione della flotta
necessaria alla guerra contro Troia spogliò delle loro ombre i monti e li
rimpicciolì: “Nusquam umbrae veteres: minor Othrys et ardua sidunt/ Taygeta,
exuti viderunt aëra montes./Iam natat omne nemus” (I, 426 - 428), in nessun
luogo le antiche ombre: è più piccolo l’Otris e si abbassa l’erto Taigeto, e i
monti spogliati videro l’aria. Oramai ogni monte galleggia.
L’Otris è una catena montuosa della Tessaglia; il Taigeto, si sa, è la
montagna che sovrasta Sparta. Chi scrive l’ha scalata da Kalamata alla cima (km
33, 12) in bicicletta in 2 ore, 14 minuti e 27 secondi, alla media di 14, 7 Km
all’ora. All’età di 62 anni e 8 mesi.
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