Credo che la
pubblicità sia tra le droghe pessime. Andrebbe proibita siccome tende a farci
dimenticare la nostra umanità, a farci scordare che siamo uomini.
Nel IV canto
dell’Odissea Elena getta
nel vino un farmaco quale antidoto al dolore, all'ira, e oblio di tutti
i mali (vv. 220 - 221). L'aveva avuto in Egitto la cui terra produce farmaci,
molti buoni e molti tristi mescolati ("favrmaka, polla; me;n ejsqla;
memigmevna, polla; de; lugrav", v. 230).
La donna maga esperta di
droghe
Qui la droga non sembra creare effetti permanenti
poiché chi la prende si anestetizza per un giorno ("ejfhmevrio"", v. 223). Buoni sono i favrmaka (v. 718) contro la sterilità promessi a Egeo da Medea , la
madre furente, la strega nipote di Circe, terribile maga esperta di "kaka; favrmak j e favrmaka luvgr j"[1] , farmachi cattivi e tristi, anche questi forieri di oblio.
Circe e Medea sono indicate quali modelli da superare da L'incantatrice di Teocrito, Simeta la quale vuole
avvincere l'uomo che le sfugge (v. 3).
Sono streghe o maghe, denominazioni non
necessariamente vituperose:"Persarum lingua magus est qui nostra
sacerdos " si difende dall'accusa di esserlo Apuleio nel De Magia (25),
nella lingua dei Persiani è mago quello che nella nostra il sacerdote.
Nel romanzo dello stesso Apuleio del resto ci sono
maghe terribili come quella ostessa anziana ma alquanto graziosa che mutò un
suo amante fedifrago in un castoro "quod ea bestia captivitati metuens
ab insequentibus se praecisione genitalium liberat (Metamorfosi ,
I, 9), poiché questo animale, temendo di essere preso, si libera dagli
inseguitori con il recidersi i testicoli. Comunque queste donne, maghe o streghe o sacerdotesse, o addirittura mezze dèe,
propinano quasi sempre droghe le quali portano dimenticanza all'uomo che
per un motivo o per l'altro non deve ricordare.
Ma Odisseo, il
quale sa bene che, se ricordare è dolore, pure dimenticare è dolore, evita le droghe e costruisce la sua identità
sulla pienezza della coscienza.
Ulisse costruisce faticosamente la propria identità ed
il proprio dominio - su Itaca, sul suo equipaggio e su se stesso - rinunciando
alle Sirene, a Calipso e al fiore del loto ossia resistendo alla tentazione di
abbandonarsi alla beata indifferenza in grembo alla natura.
Sul ritorno di Ulisse e il rischio di scordarlo ha scritto parole
interessanti Calvino:"Il
ritorno va individuato e pensato e ricordato: il pericolo è che possa essere
scordato prima che sia avvenuto. Difatti, una delle prime tappe del viaggio
raccontato da Ulisse, quella presso i Lotofagi, comporta il rischio di perdere
la memoria, per aver mangiato il dolce frutto del loto. Che la prova della
dimenticanza si presenti all'inizio dell'itinerario d'Ulisse e non alla fine,
può apparire strano. Se dopo aver superato tante prove, sopportato tante
traversie, appreso tante lezioni, Ulisse avesse scordato ogni cosa, la sua
perdita sarebbe stata ben più grave: non trarre alcuna esperienza da quanto ha
sofferto, alcun senso da quel che ha vissuto. Ma, a ben vedere, questa della
smemoratezza è una minaccia che nei canti IX - XII si ripropone più volte:
prima con l'invito dei Lotofagi, poi con i farmaci di Circe, poi ancora col
canto delle Sirene. Ogni volta Ulisse deve guardarsene, se non vuole
dimenticare all'istante (...) Dimenticare che cosa? La guerra di Troia?
L'assedio? Il cavallo? No: la casa, la rotta della navigazione, lo scopo del
viaggio. L'espressione che Omero usa in questi casi è "scordare il
ritorno" (novstou laqevsqai). Ulisse non deve dimenticare la strada che deve
percorrere, la forma del suo destino: insomma non deve dimenticare l'Odissea.
Ma anche l'aedo che compone improvvisando o il rapsodo che ripete a memoria
brani di poemi già cantati non devono dimenticare se vogliono "dire il
ritorno"; per chi canta versi senza l'appoggio di un testo scritto
"dimenticare" è il verbo più negativo che esista; e per loro
"dimenticare il ritorno" vuol dire dimenticare i poemi chiamati nostoi ,
cavallo di battaglia del loro repertorio". I. Calvino, Perché
leggere i classici , pp. 15 - 16.
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