NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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sabato 20 luglio 2019

Non dobbiamo dimenticare di essere uomini


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Credo che la pubblicità sia tra le droghe pessime. Andrebbe proibita siccome tende a farci dimenticare la nostra umanità, a farci scordare che siamo uomini.
Nel IV canto dell’Odissea Elena getta nel vino un farmaco quale antidoto al dolore, all'ira, e oblio di tutti i mali (vv. 220 - 221). L'aveva avuto in Egitto la cui terra produce farmaci, molti buoni e molti tristi mescolati ("favrmaka, polla; me;n ejsqla; memigmevna, polla; de; lugrav", v. 230).

La donna maga esperta di droghe
Qui la droga non sembra creare effetti permanenti poiché chi la prende si anestetizza per un giorno ("ejfhmevrio"", v. 223). Buoni sono i favrmaka (v. 718) contro la sterilità promessi a Egeo da Medea , la madre furente, la strega nipote di Circe, terribile maga esperta di "kaka; favrmak j e favrmaka luvgr j"[1] , farmachi cattivi e tristi, anche questi forieri di oblio.
Circe e Medea sono indicate quali modelli da superare da L'incantatrice di Teocrito, Simeta la quale vuole avvincere l'uomo che le sfugge (v. 3).
Sono streghe o maghe, denominazioni non necessariamente vituperose:"Persarum lingua magus est qui nostra sacerdos " si difende dall'accusa di esserlo Apuleio nel De Magia (25), nella lingua dei Persiani è mago quello che nella nostra il sacerdote.
Nel romanzo dello stesso Apuleio del resto ci sono maghe terribili come quella ostessa anziana ma alquanto graziosa che mutò un suo amante fedifrago in un castoro "quod ea bestia captivitati metuens ab insequentibus se praecisione genitalium liberat (Metamorfosi , I, 9), poiché questo animale, temendo di essere preso, si libera dagli inseguitori con il recidersi i testicoli. Comunque queste donne, maghe o streghe o sacerdotesse, o addirittura mezze dèe, propinano quasi sempre droghe le quali portano dimenticanza all'uomo che per un motivo o per l'altro non deve ricordare.
Ma Odisseo, il quale sa bene che, se ricordare è dolore, pure dimenticare è dolore, evita le droghe e costruisce la sua identità sulla pienezza della coscienza.
Ulisse costruisce faticosamente la propria identità ed il proprio dominio - su Itaca, sul suo equipaggio e su se stesso - rinunciando alle Sirene, a Calipso e al fiore del loto ossia resistendo alla tentazione di abbandonarsi alla beata indifferenza in grembo alla natura.
Sul ritorno di Ulisse e il rischio di scordarlo ha scritto parole interessanti Calvino:"Il ritorno va individuato e pensato e ricordato: il pericolo è che possa essere scordato prima che sia avvenuto. Difatti, una delle prime tappe del viaggio raccontato da Ulisse, quella presso i Lotofagi, comporta il rischio di perdere la memoria, per aver mangiato il dolce frutto del loto. Che la prova della dimenticanza si presenti all'inizio dell'itinerario d'Ulisse e non alla fine, può apparire strano. Se dopo aver superato tante prove, sopportato tante traversie, appreso tante lezioni, Ulisse avesse scordato ogni cosa, la sua perdita sarebbe stata ben più grave: non trarre alcuna esperienza da quanto ha sofferto, alcun senso da quel che ha vissuto. Ma, a ben vedere, questa della smemoratezza è una minaccia che nei canti IX - XII si ripropone più volte: prima con l'invito dei Lotofagi, poi con i farmaci di Circe, poi ancora col canto delle Sirene. Ogni volta Ulisse deve guardarsene, se non vuole dimenticare all'istante (...) Dimenticare che cosa? La guerra di Troia? L'assedio? Il cavallo? No: la casa, la rotta della navigazione, lo scopo del viaggio. L'espressione che Omero usa in questi casi è "scordare il ritorno" (novstou laqevsqai). Ulisse non deve dimenticare la strada che deve percorrere, la forma del suo destino: insomma non deve dimenticare l'Odissea. Ma anche l'aedo che compone improvvisando o il rapsodo che ripete a memoria brani di poemi già cantati non devono dimenticare se vogliono "dire il ritorno"; per chi canta versi senza l'appoggio di un testo scritto "dimenticare" è il verbo più negativo che esista; e per loro "dimenticare il ritorno" vuol dire dimenticare i poemi chiamati nostoi , cavallo di battaglia del loro repertorio". I. Calvino, Perché leggere i classici , pp. 15 - 16.



[1]Odissea , X, 213 e 236.

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