Destino di esiliato e di rinnegato che nel nostro tempo ha caratterizzato la figura dello scrittore ungherese Arthur Koestler, autore in lingua inglese di un romanzetto che ci ha oggi più di ieri impressionato. Già socialista rivoluzionario ed ebreo di famiglia benestante ungherese, sfugge ai tanti pogrom imbastiti dai nazionalisti filozaristi e riparato a Vienna, la città della madre, si laurea in ingegneria, diventa sionista e nel 1926 raggiunge la Palestina come colono, si fa comunista e giura di essere un fedelissimo propagandista bolscevico in Europa. Ritorna quindi a Berlino dove inizia la sua attività pedagogica da inviato speciale del Berliner Zeitung am Mittag, andando da Berlino a Parigi, da Praga a Mosca, ora adepto di Stalin, scrivendo di Comunismo in un solo paese e poi dei Piani Quinquennali economici, la risposta sovietica di sviluppo socialista contro l'economia capitalista ferita gravemente dalla crisi del '29.
Intanto in Germania monta il Nazismo di Hitler e nel 1934 deve abbandonarla per Parigi, dove da giornalista freelance conosce tutti gli esuli comunisti e quelli locali, da Sartre a Barbusse, da Petain a Hemingway, da Malraux, e anche cattolici progressisti come Bernanos e Maritain, la crema dell'antifascismo europeo di ogni fede democratica. Il dubbio sul regime sovietico cresce in lui però quando avvicina George Orwell, suo biografo principale e profeta dell'anticomunismo sovietico. Negli anni successivi (1936 -1939) combatteranno uno fianco a fianco nella guerra di Spagna e conosceranno di persona le purghe staliniane, poi perché fedele a Trotsky subirà la cattura e la condanna a morte da parte del regime Franchista. Fu salvato in extremis dall'intervento del governo inglese che gli consentirà di vivere in esilio a Londra.
Matura però in quel tragico periodo una fortissima disillusione del sole dell'avvenire comunista quando rileverà e commenterà amaramente la tremenda vicenda della lotta interna nel fronte antifranchista fra anarchici rivoluzionari e comunisti staliniani. Vicenda che già l'amico Orwell racconterà nel saggio storico Omaggio alla Catalogna del 1938, un drammatico florilegio di episodi che si intrecciarono a Barcellona fra speranze, tradimenti e silenzi colpevoli dei Sovietici contro gli Anarchici, fra improvvise reciproche fucilazioni e attacchi e contrattacchi fra le loro formazioni partigiane, senza contare le delazioni dai primi ai secondi, spesso frutto di segnalazioni anonime di fonte sovietica agli odiati franchisti (il film di Ken Loach del 1995, Terra e libertà, ne appare una fedele riproduzione).
Del resto, Koestler, quasi in coincidenza coi fatti spagnoli, dal 1932 al 1935, avevano notato le crepe nascoste del Regime di Stalin, viaggiando per la nuova Russia, rilevando come i due citati quinquenni economici a guida prettamente statale e burocratica, avevano da una parte incrementato la produzione industriale pesante fino ad allora debole e non al passo con quella occidentale, ma che si era rinforzata a costo della collettivizzazione forzata delle terre e della produzione agricola, dimagrita a seguito di una imposizione fiscale e politica pagata da una serie di carestie concausate dalle scelte industriali predette.
Se la produzione industriale russa sorpassò perfino quella tedesca indebolita dalle sanzioni e dai risarcimenti connessi al Trattato di Versailles; del pari la fortissima politica industriale comportò l'espropriazione di terreni di piccola e media dimensione allo scopo di riconversione in fattorie di proprietà statale per costruire capannoni industriali di imprese pesanti e belliche, di navi e aeromobili, o di trasporto terrestre, sottraendoli all'industriale agricola alimentare proprio in tempo di carestia ortofrutticole. Una rivoluzione economica coatta che aggravò la crisi agricola e la disoccupazione, fonte di dissenso represso dalla polizia politica non inferiore per atrocità a quella precedente zarista. Di qui l'opposizione sociale anche nelle città che generò un numero di purghe di contestatori all'interno dei vecchi bolscevichi fautori dall'alleanza ormai interrotta fra contadini e operai. Situazione che indusse Koestler ad allontanarsi del tutto nel 1939 dall'ideologia comunista.
Tornato in Francia, per vivere si diede scrivere romanzi popolari e storici - per esempio Dialogo con la morte (1937) e I gladiatori (1939) - e si arruolò poi nella legione straniera per combattere Petain e i Nazisti invasori della Francia, divenendo comunque anche inviso alle destre francesi filogolliste, peraltro non ottenendo alcun accordo coi comunisti amici di Malraux, nuovo Ministro della Cultura e notoriamente freddo col nostro protagonista perché chiaramente diventato anticomunista. Koestler riprende ancora la strada per Londra, di nuovo accolto da Orwell e divenuto finalmente cittadino britannico durante il Governo laburista di Clement Attlee (1945-1951). E' il momento di pubblicare un romanzetto di poco conto, Buio a Mezzogiorno, su uno dei tanti processi ai vecchi Bolscevichi intentati da Stalin negli anni precedenti l'alleanza anglo sovietica del 1941. Dopo vicissitudini non indifferenti per la pubblicazione e per il suo successo al pari dei precedenti romanzi popolari; fu la penetrante recensione di Orwell a mutare le riserve della stampa anglosassone, peraltro abituata a sue storie avventurose ed erotiche.
In realtà, Koestler nel secondo dopoguerra, morto il fedele amico Orwell, unico suo ambasciatore fra i liberali e i democratici inglesi filosovietici, non riuscì a ripetere il miracolo editoriale di Buio a Mezzogiorno, e si dedicò allora a racconti e a saggi di parapsicologia, abbandonando la saggistica storica e politica, divenendo un isolato in letteratura alta, fino a morire suicida e dimenticato nel 1983. Ma il romanzo da cui gli deriverà fama non risulta ancora obliterato nella cultura politica fino a oggi.
2. Buio a Mezzogiorno oppure Luce di libertà a Mezzanotte?
Perché quel romanzetto è diventato un classico della storia del PCUS e del dissenso interno alla dittatura sovietica?
Nel linguaggio del political correct degli ultimi decenni, specie dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, la condanna dal totalitarismo comunista che in modo esemplare colà Koestler proclama, assume un modo di dire paradigmatico di rassegnazione alla dittatura del pensiero unico e perfino di suicidio per fedeltà al Partito. Una cappa di Potere che spinge al sacrificio di libertà, una sorta di consiglio vincolante ad abiurare, come fece la Chiesa cattolica per Giordano Bruno e Galileo Galilei, nella erronea convinzione che il protagonista accettasse e che ciò rinforzasse la lealtà al Partito. Solo che invece le confessioni estorte con la tortura venivano utilizzate contro l'imputato e perfino contro i suoi testimoni a favore.
A che pro, dunque, l'accettazione di un falso complotto antisovietico? E perché imbandire complotti inesistenti orditi da fedelissimi bolscevichi? Andiamo con ordine. Siamo nella Mosca abitata da Trotsky e quando era apostolo di Stalin, quando questi per rafforzare il suo potere lo isolò e per poco non lo fece uccidere, anzi si costruì un complotto analogo allo stesso Grande Terrore di Robespierre nel 1793, uccidendo nemici ed amici magari un po' freddi, specie se si ricorda che anche a Parigi Danton subirà la stessa fine. Stalin ed il suo boia Berija, Ministro di polizia, accusarono tanti rivali e amici di atti controrivoluzionari, per esempio i trotzkisti, gli anarchici, i kulaki contadini e perfino gli intellettuali che avevano inneggiato a Lenin all'epoca della Rivoluzione e della guerra civile fra il 1917 e il 1920.
Si pensi al caso di Isaia Babel, ebreo, pacifista e più aperto al riconoscimento dei diritti civili, cantore dell'epico L'armata a cavallo, romanzo storico di ispirazione comunista nella guerra civile del 1920 e malgrado ciò arrestato, torturato e morto nei primi gulag di concentramento. Ora però Koestler fa arrestare il protagonista, un modello di fedelissimo, il generale Rubasciov, compagno di rivolta dell'inquisitore Ivanov e poi mandato a morte da Gletkin, nuovo funzionario più bieco del primo, eliminato da Beija perché troppo arrendevole alle difese di Rubasciov. Le sue difese in fatto e in diritto, di essere un Commissario del Popolo e di rivoluzionario della prima ora - il riferimento reale è a Bukharin, vecchio bolscevico ed epurato e condannato a morte nel 1938 - nonché la mancanza di prove a tale accusa, sono la cartina di tornasole dello scopo del Dittatore, deciso a eliminare fisicamente chiunque lo contrastasse anche se da fedele compagno di Partito. Di più: lo stesso Rubasciov era stato un fautore del primo piano quinquennale, aveva sterminato molti poveri piccoli proprietari terrieri ed era anche stato un terribile inquisitore. Anzi, da anziano poliziotto, si era rifiutato di perseguire Lenin e Trotsky nei giorni dalla prima rivoluzione russa, a febbraio del 1917.
Eppure la ruota era girata ora anche per lui. Un destino atroce, una legge del contrappasso dantesca che lo vedeva arrestato, torturato e condannato morte, pur essendo stato un fedelissimo compagno bolscevico... Intanto, lungo i mesi di terribile detenzione e processo politico, un'idea gli viene in mente alla luce delle terribili menzogne inventate dall'inquisitore Gletkin: non solo l'improvvisa sostituzione dell'amico giudice istruttore Ivanov, non solo le strane interrogazioni senza avvocato che ora subisce; ma anche e soprattutto la richiesta di confessare un crimine mai commesso. Una chiara scelta politica del Dittatore: fare credere al mondo che anche il dubbio sia un pericolo da estirpare. Come se il sospetto di eresia fosse di per sé la violazione della virtù, al modo delle accuse a Bruno, a Galilei e a Danton. Erano una necessaria tappa per rafforzare quel sole dell'avvenire che il Comunismo rappresentava.
L'ultimo stadio per la prossima ora, il Paradiso in terra che meritava qualche incidente di percorso pur di ottenerlo alla fine della storia capitalista. A poco a poco, il generale comprende che l'inchiesta a suo carico non persegue l'accertamento della verità quanto e piuttosto estorcere una confessione che garantisca il potere, che consenta la marcia della Storia per un futuro più mitico che reale, rivolto più al mantenimento dell'autorità personale del dittatore e della sua nomenklatura, che non del bene comune dalla Nazione. Quindi, è prassi delle dittature camminare per incidenti, piuttosto che rispettare la libertà di pensiero. Meglio è per chi comanda eliminare la dissidenza... La tempesta del dubbio così assale Rubasciov, un novello Giordano Bruno di fronte alla Chiesa comunista. Che farà ora Rubasciov? Come conciliare l'arrivo nel Paradiso Comunista se poi decidesse di difendere se stesso e rifiutare ogni genere di confessione? Del resto, anche se accettasse la logica utilitarista del Partito non lo si lascerebbe a lungo in vita, a meno di vivere il resto della vita in una prigionia magari dorata, ma dolorosamente silenziosa nel guardare il trionfo dell'autocrazia e del suo Primate. Allora, la soluzione finale è simile a quella di Bruno, perché si toglierà la vita, mentre il Nolano si farà bruciare negando ogni compromesso.
Rubasciov si dichiara così colpevole e sorridente si suiciderà. Una scelta tremenda, perché fino alla morte spererà che il suo gesto di sottomissione sarà utile al Partito e alla Storia. Una coscienza molto meno felice di Galileo che pur abiurando, sente nel suo animo che la forza della Scienza e della Ragione un giorno prevarranno sulla prepotenza del Potere. E del resto, un altro martire della libertà, Tommaso Moro, sapeva che la sua obbedienza alla Chiesa Romana e il suo rifiuto al Potere di Enrico VIII altro non era che il martirio di Cristo di fronte al Sinedrio.
Il potente romanzetto, appena pubblicato, come si può immaginare creò subito un vespaio nella cultura occidentale e di ciò ora è opportuno dare conto.
3. La profezia di Orwell contro la melanconia di Koestler
Non si può capire il tragico sorriso di pace interiore di Rubasciov - un Koestler ormai rassegnato e convinto del vizio occulto utilitarista che aleggia nella Russia sovietica - sa non si esamina quello che era più che evidente nell'Inghilterra in guerra fra il 1939 e il 1941. Dopo la disfatta francese e il fortunoso rientro in Patria del contingente inglese di Dunkerque (4.6.1940), la solitudine britannica contro i nazifascisti era un fatto certo. Mentre l'Unione Sovietica rimaneva neutrale, riservandosi di minacciare o aggredire i paesi dall'Est e la Finlandia, in nome di un rinato panslavismo comunista che poco differiva del Pangermanesimo nazista, col quale del resto si erano spartiti i miseri resti della Polonia col Patto Ribbentropp-Molotov; mentre gli Stati Uniti di Roosevelt a fatica iniziavano a uscire dalla neutralità dopo le intese politiche con Churchill, capo della sola nazione al mondo rimasta a resistere alle brame di Hitler che le aveva scagliato addosso la potente aviazione in duelli aerei con quella inglese - RAF contro la Luftwaffe - e dopo terribili bombardamenti su Londra che confermavano le lacrime e sangue pronosticate dal Primo Ministro inglese; le bozze del romanzetto in esame vagavano da una casa editrice all'altra di Londra senza speranza di essere pubblicate.
Nel 1940 era viva la tesi di una alleanza tattica con Stalin per fermare l'aquila vorace tedesca e i laburisti, d'accordo con i conservatori e i liberals filocomunisti, premevano affinché il potente orso sovietico uscisse dal letargo come era avvenuto nel 1914. Nondimeno, le carestie che assillavano l'URSS avevano avuto un buon arresto dopo ingenti rifornimenti alimentari che la Gran Bretagna aveva fatto pervenire nelle stremate campagne russe, senza contare che questi canali di vettovaglie potevano diventare armi e munizioni che potevano arrivare da Sud e dal Medio Oriente, se l'URSS si fosse moderata politicamente nella questione ideologica di intendere il socialismo democratico inglese non più socialfascismo, ma un modello di realpolitik rispettabile e non più una forma di politica del tutto incompatibile con i dettami bolscevichi. In fondo, fin dal 1935, la Terza Internazionale, nel suo VII Congresso, aveva modificato la polemica definizione di Lenin del 1920 al Congresso del Comintern, equiparativa della Socialdemocrazia alla infedeltà al Partito internazionale, favorendosi ora l'alleanza dei Fronti Popolari contro i totalitarismi in Spagna e in prospettiva perfino in Francia.
Cambio di ottica che consente a Orwell - nonché a Bertrand Russell, campione del socialismo britannico - di propagandare anche lo scritto di Koestler, ancora non interpretato in versione antisovietica. Sia come sia, Orwell lo traduce in inglese - intitolandolo Darkness at noon e lo fa finalmente uscir dalla casa editrice socialista McMillan. La comune scelta di campo però emergerà poco dopo quando nel 1945 uscirà un suo nuovo libro, Animal farm - La fattoria degli animali - che prende le mosse dall'apparente sottovalutato romanzo di Koestler. Di quest'ultimo, Orwell adotta una allegoria del Regime Sovietico all'epoca dei processi politici del 1936 e dai quali in forma fiabesca fa partire un apologo ferocemente anticomunista che lascia a bocca aperta tutta l'intellighenzia di sinistra europea occidentale ormai transitata per buona parte nella rete comunista di rito sovietico.
Non è questo lo spazio per dilungarci su quest'altro fronte letterario. Ci basti dire che Orwell rompe con Koestler il fronte di tolleranza staliniana, anzi, il silenzio favorevole accumulato dagli intellettuali progressisti durante gli anni della guerra sull'alleanza tattica antinazista con Stalin è messo in buona luce per effetto del ruolo essenziale dell'URSS nella vittoria alleata nel 1945. Nondimeno la lezione di Koestler e di Orwell ricompare nell'apologo di cui si disse e poi nell'ultima fatica del secondo prima di morire, vale adire il romanzo distopico per eccellenza, 1984, edito nel 1948.
Animal Farm dunque: la storia narra di un fantastico cortile di animali domestici che esauriti per le vessazioni dei padroni umani, si ribellano e dopo aver cacciato anche il proprietario, si danno un sistema politico basato sull'eguaglianza. Tuttavia, dopo poco tempo si distingue alla guida del gruppo una nuova classe di funzionari, i maiali, che con varie metodologie illecite e con prepotenza dominano sugli altri animali. Infatti il libro termina con un quadro significativo: i maiali sia alleano di nuovo con gli umani e festeggeranno tornando a giocare fra loro e a primeggiare sugli altri animali che stupiti non riusciranno a vedere le differenze fra gli uni e gli altri. Al pari dell'opera di Koestler, anche la favola di Orwell provocò discussioni, mentre a Yalta lo spento Roosevelt, il sarcastico Stalin e l'onesto ma ignaro Churchill, il 4.2. del 1945 provavano a dividersi il mondo appena riconquistato alla democrazia e alla libertà.
Scriverà di quel contesto un amico di Koestler: il romanzo di Koestler è la premessa ideale di Animal Farm e di 1984, una doppia lucida ed emozionante requisitoria contro le logiche crudeli di ogni autoritarismo e rappresenta i mali irreversibili di un'ideologia che mai così bene si è mai realizzata. Orwell cioè fece tesoro dello stile sobrio e meccanico dello scrittore ungherese. Un linguaggio in lingua tedesca ripreso dal Processo di Kafka, risalente al fraseggio ebreo di Roth e Musil. Ma il tema del rapporto fra uomo e autorità, fra dignità dell'Io e servitù del cittadino, di evidente affinità con la fede protestante hussita mai ripudiata dal nostro eroe, comportava la leale collaborazione e la reciproca fiducia con uno Stato estraneo alla tradizionale gestione del Potere e la reale negazione delle legittime speranze di riscatto e tutela delle classi lasciate spesso di fatto ai margini della società.
Il saggio di Koestler e quelli alquanto connessi di Orwell, partendo da tali considerazioni, volevano dare atto del tradimento dei chierici, cioè della classe dirigente nuova che si era posta a ripristinare il rapporto di fiducia fra governanti e governati. E il mezzo adottato da Orwell non è però quello di Koestler, piuttosto tragico, mentre rimane sarcastico quello del primo. Questi da buon anglosassone risaliva esteticamente addirittura a metà '700, quando Jonathan Swift sferzava con l'ironia gli attacchi del potere regio alle libertà personali acquisite dalla rivoluzione del Cromwell e poi ratificate dal Parlamento borghese nella legislazione di Common Law. I viaggi di Gulliver dell'irlandese beffardo del 1735 sono l'illustre precedente dell'Animal Farm, ma 1984 costituisce un enorme omaggio e una straordinaria conseguenza del potente dramma che anima Buio a mezzogiorno.
L'ungherese fin dal 1940 ha confermato il filone letterario che nel Continente già stava avendo in Silone - per es. In Fontamara (1933) - e in Malraux - Si pensi alla Condizione umana (1933) - due formidabili epigoni della polemica politica in forma di romanzo scagliata contro ogni forma di Totalitarismo, non escludendo l'ultimo emblema a loro contemporaneo, il Comunismo staliniano. Polemica che andrà a gonfiarsi anche in Italia quando nel 1948, dopo l'entrata in vigore della Costituzione, l'inizio dello Stato democratico coincide con la rottura dell'alleanza politica fra le tre aree culturali in cui la stessa Costituzione si era declinata.
In 12 mesi intensi, il 1.1.1948 era entrata in vigore la legge fondamentale, il 18 aprile si erano tenute le elezioni per il nuovo Parlamento con esito a favore del blocco centrista a maggioranza democristiana; il 24.6 l'URSS interdirà gli accessi via terra a Berlino occidentale costringendo gli alleati occidentali a rifornire la città mediante un ponte aereo. Tre episodi sintomatici che segnano l'inizio di un quarantennio dove il messaggio di Koestler e di Orwell assumerà il sottofondo culturale polarizzante per lo stesso lungo periodo storico indicato da non pochi intellettuali europei come Guerra Fredda.
4. La fortuna di Koestler in Italia fra Silone e Vittorini
Pervenuta la traduzione in inglese di Buio a Mezzogiorno alla Mondadori, questa la colloca nella collana Medusa (1946) nella versione italiana di Giorgio Menichelli, partigiano e comunista, altrettanto pentito e legato a Ignazio Silone, non per caso già noto dissidente di quel partito. Infatti, un'opera di questi circolava da qualche tempo, un romanzo autobiografico, Uscita di sicurezza, pubblicato a pezzi sul suo giornale Europa socialista fin dal 1945 dopo l'incontro amichevole con Orwell, e poi per intero divenuto un memorabile pamphlet nel 1965. Il senso di melanconia combinata con un amaro umorismo, dello scrittore abruzzese spiega la scelta di favorire in Italia la lettura dell'Ungherese e dell'Inglese, perché dal 1945 crede fermamente di spostare l'attenzione critica degli intellettuali democratici oltreché sul Nazifascismo anche sul Comunismo di Stalin.
Koestler, nella interpretazione di Silone, aveva paragonato la Chiesa cattolica della Controriforma alla Russia Sovietica, proprio perché questa come quella aveva bruciato e isolato Bruno e Galilei non per coerenza ideologica, quanto perché entrambi avevano così consolidato il loro Potere. In una anticipazione della sua Uscita di Sicurezza, Silone - ormai in rotta di collisione con Togliatti e compagni - ora difende il propagandista Isaac Deutscher, unico giurato del traditore Silone. Così scriveva l'ex staliniano: ci si libera dal Comunismo come si guarisce da una nevrosi (1949). Alle accuse contro Deutscher, di essere solo un pazzo disilluso e pericoloso per la politica progressista, Silone e Koestler, in un congresso socialista a Berlino Est nel 1950, nel firmare il Manifesto agli uomini liberi, concordarono a suo favore per la definizione di stato totalitario, ponendo come esempio vivente proprio l'URSS, considerandola una gravissima minaccia per l'umanità eguale a quella della guerra atomica. Si affermò invece che il futuro sarà non più quello della lotta fra Capitalismo e Socialismo, ma fra Libertà e Tirannide.
Nessuna voce italiana di area comunista fece da contrappeso o da sostegno, salvo la solita polemica difensiva di Togliatti, che stranamente rappresentava la nomenclatura stalinista ancorata al Sacro Collegio di Mosca, sorvolando che anche egli era stato segnalato fra i falsi amici del Comunismo passibile di condanna proprio negli anni di esilio a Mosca stessa. Si salvò dalla solita purga a causa della invasione tedesca dall'URSS nel 1941. A difendere la posizione di Silone si levò ancora una volta un ex comunista, cioè Elio Vittorini, non solo amareggiato per la condotta del Partito nel dopoguerra, ma anche consapevole della necessità di una letteratura alternativa a quella conformista e facile all'eutanasia di un ideale e di una persona, o anche di masse, prive di un libero approccio alla politica, ma subordinata alla retorica del Partito dietro la quale mancava spesso un reale consenso. Egli si dichiarò di essere stato in buona fede un mero pifferaio della Rivoluzione e dunque una mera pedina mossa dall'alto.
Oggi non ci resta che considerare quel Buio a mezzogiorno un documento fondamentale da cui trarre conseguenze sul futuro per noi, in un momento politico dove la battaglia per i Diritti Civili appare in seria retrocessione di fronte agli attacchi alla Democrazia che per ironia della Storia provengono proprio dalle due parti contrapposte in quella guerra fredda.
Giuseppe Moscatt
Bibliografia
Bibliografia
- Una biografia di Arthur Koestler, aggiornata e completa non esiste in lingua italiana. Tuttavia, merita attenzione la raccolta di saggi di FILIPPO LA PORTA, Maestri irregolari. Una lezione per il nostro presente, ed. Bollati Boringhieri, ad vocem, 2007.
- In lingua inglese, vd. GEORGE MIKES, The Story of a Friendship, 1983.
- Sul rapporto d'amicizia con George Orwell, vd. La raccolta di molti suoi saggi di critica letteraria, ivi compreso il saggio del 1946 su Koestler, Nel ventre della balena, ed. Bompiani, Milano, 2013, a cura di SILVIO PERRELLA. Vd. anche Orwell, di STEFANO MANFELLOTTI, ed. La nuova Italia, 1979, pagg. 71 e ss.
- In merito alle discussione sul romanzo Buio a mezzogiorno, vd. per i profili storici e politici, ENZO TRAVERSO, Il totalitarismo, ed. B. Mondadori, Milano, 2002, pagg. 91 e ss. Per quelli di natura letteraria e sull'ultimo Koestler, cfr. ROBERTO PERTICI, È inutile avere ragione. La cultura antitotalitaria nell'Italia della prima Repubblica, ed. Viella, Roma, 2021 pagg. 209 e ss., nonché per il pensiero di Elio Vittorini, vd. Il dibattito sull'arte contemporanea ed. di Comunità, 1954, pagg. 159 e ss.

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