Prima del dolore però veniva la bellezza, quella corporea che ai miei occhi preponderava su tutto il resto nella compagna di viaggio.
Arrivati a Senigallia, facemmo una breve sosta in un bar dove negli anni futuri mi sarei fermato decine di volte andando poi tornando dall’Ellade con gli amici o da solo. Alcuni luoghi, certi fatti la prima volta insignifìcanti, se ripetuti con il volgere delle stagioni, diventano ricchi di molti segni e assumono un’importanza storica pur nella nostra vita mortale.
Breve Excursus: La bettola di Abony
Ricordo, caro lettore, l’osteria di Abony a metà strada tra Budapest e Debrecen e la prima vota che ci entrai, desolato come un mendicante nel luglio del 1966. Ero invecchiato anzi tempo e uscito dalla mia scassata Seicento Fiat, barcollavo, quasi brancolavo come un cieco, tanto che un ubriaco, forse un tedesco, uscendo da quella taverna si avvicinò e mi domandò: “bist du Homerus?”.
Per vincere almeno il sonno, entrai nella bettola. Volevo bere un caffè e domandare se procedevo sulla via giusta. Non ne ero sicuro. Tanto meno prevedevo che in quel locale avrei fatto una fermata trionfale, più volte tornando dall’Università estiva di Debrecen, ogni volta con una donna diversa, ma sempre bella, fine e innamorata di me.
Quelle soste sarebbero diventate riti celebrativi di altrettanti trionfi dell’amore.
Sperarlo quella prima volta sarebbe stata follia.
Questo è il mio mito di Abony.
Il passato gioioso, ma anche quello doloroso vanno conservati come forza vivente che si è trasformata nell’avvenire e seguita a crescere sempre[1].
Fine dell’ excursus ungherese
La colazione a Senigallia in tanti degli anni seguenti adesso significa non tanto l’amore di Ifigenia, ma la breve sosta rituale, anche religiosa, con i tre migliori amici della mia vita: Fulvio oggi amico celeste, Maddalena e Alessandro presente, vivo, e benefico, durante la pedalata ciclistica dell’estate scorsa. Spero che non sia stata l’ultima. Per questo luglio avevamo già in programma, anche con Maddalena, Delfi, il Parnaso, il Citerone e Atene. Avremmo fatto di sicuro un’altra sosta a Senigallia. Ma il fato, la parola di Dio non ha voluto e ora questi due amici carissimi vengono a trovarmi nel sanatorio delle ossa rotte a Villa Fastiggi di Pesaro dove sostano accanto al mio letto. Del resto pensiamo già al viaggio ciclistico dell’anno prossimo, se Dio vorrà.
Dopo il caffè riprendemmo le biciclette. Pregai Ifigenia di starmi davanti. Non volevo tanto risparmiare energie sfruttando la sua scia, quanto esaminare una per una le sue belle membra in movimento, per coglierne l’esemplarità, per sottrarle alla rovina del tempo irremeabile, alle offese crudeli degli uomini, delle malattie, dei fallimenti, e, dopo tutto questo, all’annientamento della morte, l’unico evento del tutto sicuro e inesorabile della nostra vita scoscesa.
Osservavo i movimenti che distendevano e riaccostavano le parti del corpo nel pedalare la bici. Quindi consideravo una per una le membra dove nei primi mesi del nostro amore avevo visto l’idea del bello e quella del bene incarnate: un somatizzarsi della luce del Sole che è nel visibile quello che è Dio nell’ intellegibile.
Ifigenia mi aveva dato una spinta sovrumana verso l’amore e l’arte. Poi quello splendore si era offuscato e l’immagine sua di forza e dignità fidìaca era diventata meno pulsante di grazia, di gioia, di vita, anche se materialmente era rimasta quasi perfetta.
La piccola testa, incorniciata dai capelli ondulati, sorretta dal collo lungo e sottile, oscillava sulle spalle forti e rotonde; gli occhi scuri e grandi, incastonati tra gli zigomi in rilievo, ogni tanto si volgevano indietro per vedere se tenevo il ritmo delle giovani gambe che spingevano i pedali. Quegli occhi interrogativi, circondati dai folti capelli nerissimi, sembravano laghi montani circondati da una cupa foresta, densi di inquietanti misteri. I seni cospicui fendevano l’aria come prue fornite di aplustri e assecondavano i movimenti del busto agile senza perdere la loro compattezza armoniosa.
Avrei voluto succhiarli per trarne la forza di parlare alla magnifica donna con il suo stesso linguaggio che non capivo più da quando nuovi incontri, dai quali non aveva ottenuto quanto sperava, le avevano torto la mente con la favella.
Tuttavia continuavo ad ammirarla.
La vita sottile, connettendo con la sua snellezza le superbe sporgenze superiori e inferiori, le metteva in risalto; le natiche tornite e sode poggiate sullo stretto sellino di cuoio, non si schiacciavano né deformavano; quando Ifigenia si rizzava sopra i pedali per superare le brevi salite dei ponti, la carne dei glutei, parzialmente visibili sotto i calzoncini succinti, non faceva una piega. Come tornava a pedalare seduta, usava soprattutto la forza delle cosce per imprimere un’energica spinta al veicolo: allora la carne fiorita e lievitata copiosamente sopra le ossa sottili si tendeva con vigore abbronzandosi al sole già alto nel cielo; il piccolo disco delle ginocchia connetteva e armonizzava la tensione della coscia robusta con il turgore del forte polpaccio in deciso rilievo sopra la caviglia snella. Questa trasmetteva la spinta di tutta la muscolatura complessa ai piccoli piedi calzati di scarpette rosse.
Avvertenza: il blog contiene una nota
Villa Fastiggi, 29 luglio 2025 ore 11, giovanni ghiselli
p. s
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1 1Racconto questo viaggio nel mio romanzo Tre amori a Debrecen. non compratelo: si può chiedere in prestito alla biblioteca Ginzburg di Bologna.
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