martedì 1 luglio 2025

Ifigenia CCXVI. Le Pale di San Martino quali opliti giganti.

Lunedì nove marzo c'era un gran sole, caldo, luminoso, sicuro. Ci trovammo a colazione pieni di buonumore. Durante la notte avevo deciso che da quell’ amante squilibrata e pure splendida non dovevo aspettarmi più di quanto voleva darmi: nient’altro che la fruizione del suo corpo oramai, comunque un dono non un piccolo che avrei utilizzato al meglio per procedere metodicamente sulla mia strada da solo. Anche Ifigenia era tranquilla:  probabilmente aveva pensato di prendermi quanto poteva, senza fare storie e lagne prive di qualsiasi costrutto. Così armonizzati e contenti come possono esserlo due amanti ex innamorati che hanno deciso di  cogliere tutto l’utile possibile l’uno dall’altro, salimmo con la funivia al rifugio Le cune dove ci fermammo ad abbronzarci, quasi in silenzio.

Sul mezzogiorno, per cambiare posizione e visuale, scendemmo in un rifugio più basso e riparato, dove era più forte il calore della fiamma celeste che dona e nutre la vita. Appena scesi dalla seggiovia, ci togliemmo le giacche a vento e arrotolammo le maniche delle camicie. L'umore era allegro. A un tratto notai una casetta di legno in mezzo alla neve: distava circa un chilometro in direzione di Bellamonte sulla strada del passo Rolle, e tutt’intorno, per ampio tratto, non si vedevano orme. Doveva essere disabitata. 

Dissi: "Creatura, guarda quel casinetto: è nostro (27).  Andiamo là ad abbronzarci anche i corpi". Desideravo fare l'amore all'aria aperta, tra il sole e la neve che lo potenziava, ma conservavo parte della cautela che mi ero imposta la sera prima. Però Ifigenia mi fece capire che potevo, anzi dovevo essere franco.

"Dai – disse – andiamoci e facciamo l'amore!".

"Come ai bei tempi - pensai - Stai a vedere che questa è rinsavita, e Mi vuole di nuovo!". Le feci un sorriso di riconoscenza, poi ci incamminammo semiabbracciati. Qua e là affondavamo fino alle ginocchia e oltre, in qualche buco pieno di acqua per il disgelo. Prendevamo tutto con allegria. "Poi ci spogliamo e asciughiamo ai raggi caldi, corroborati da questo biancore" dicevo.

E lei: "Sì, e facciamo zazzì tante volte quante ci va".

“Non ti vergogni?” domandavo per scherzo

"Io no. E tu?”

“Nemmeno per sogno!”

Eravamo eccitati e felici. Finalmente giungemmo alla baita. Era proprio isolata. Salimmo sulla terrazza non alta che la cingeva, afferrandone il bordo e tirandoci su. Poi scavalcammo il parapetto e ci stendemmo sul lato volto a sud ovest, verso il passo Rolle. Si vedevano soltanto le montagne innevate e la cascata di luce che le faceva brillare. Rimanemmo fermi e silenziosi per alcuni minuti, osservando il paesaggio. Sembrava un pomeriggio estivo: il cielo era così luminoso e l'aria tanto calda che non rabbrividivo all'idea di spogliarmi per fare l'amore con una ragazza di cui non mi fidavo. Alcune grosse mosche iridate volavano e il  ronzio  delle loro canzoncine  aleggiava  senza parole vicino a noi. Davanti agli occhi avevamo le pale di San Martino, bianche, lontane, e illuminate così ardentemente da sembrare tre opliti giganti levatisi al sole con le armature candide per riverberarne i dardi di fuoco. I lati settentrionali, i fianchi destri degli smisurati guerrieri, dall'ombra che eternamente li copre, mandavano bagliori azzurrini, gradevolmente freschi in quella illusione d'estate. Ci spogliammo entrambi, del tutto. Stendemmo i vestiti a far da giaciglio, ma le mutande le appesi ad un filo teso sopra le nostre teste con delle mollette; per potere riprendere subito in caso di necessità, le mie e quelle della mia ragazza, odorose del sesso suo, della carne viva, stillante "fragranza e rugiada" (28).

Quando eravamo a Bologna, nel grande letto, e dovevamo alzarci in fretta e furia poiché il tempo del suo permesso era scaduto, talvolta non riuscivamo a scovarle che dopo lunghe ricerche. A dire il vero mentre ficcavo la testa gonfia di sangue sotto il letto, e allungavo una mano, affannato, respirando la polvere del pavimento, pensavo in dialetto pesarese: "Se quest è un accident, che Dio ne manda cent ". In effetti me ne mandati tanti il buon Dio di tali accidenti, mai deprecati. Negli ultimi tempi avevo ripreso l'abitudine, imparata dalla grande madre, Elena augusta, di metterle sotto il cuscino, ma anche da lì talora sparivano, diabolicamente. Le care, profumate mutande delle mie amanti amate. Quando ripenso alle mie donne e al tempo migliore con ciascuna di loro, come quando ricordo i giovani cui ho insegnato ad amare la vita, non credo che il vivere mio sia stato soltanto il sogno di un'ombra (29), né una tragedia totale, né un fallimento completo. Una bella opportunità è stata la vita per me, e  non l'ho sprecata, anzi, mi sono avvalso delle occasioni che mi ha dato per fare del bene, e non solo a me stesso. Lo constato ancora oggi da quanti mi leggono.

Così, stesi su quella terrazza di legno, scaldati e abbronzati dal sole di primavera, compenetrati a vicenda, riversi e fusi l'uno nell'altro, sorvolati da mosche ronzanti musiche primaverili, ci scambiammo piacere illudendoci di avere ritrovato il tempo felice di quando eravamo innamorati e avevamo sempre voglia di unirci: in pizzeria, al cinema, sulla spiaggia di Pesaro nel luglio del 1979, quando prendevamo un moscone e lo remavamo velocemente, a turno, finché si giungeva al largo, lontani da ogni presenza umana; allora, sul fondo ligneo della piccola imbarcazione, abbacinati dal sole, sorvolati da bianche farfalle disperse sulla grande pianura d'acqua azzurra e salata, ci toglievamo i costumi, li mettevamo sopra la panca del rematore e facevamo l'amore tante volte da arrivare a sentire la gioia dionisiaca della fusione con la luce, con il mare, con l'intero universo che ci sorrideva. Allora i preti maligni, le zie pretificate e imperiose, la madre furente, la nonna gelosa e tiranna con il marito e crudele con la “servaccia” mezza vecchia presunta amante del vecchio, il padre vacante, i colleghi furfanti, i presidi tangheri, erano confutati, messi a tacere, sconfitti.

Il 9 marzo del 1981 in mezzo a quei monti antropomorfi vicini al disgelo riuscimmo a fonderci ancora una volta con la stessa panica ebbrezza. Allorché fummo sazi di baci e carezze, ci rivestimmo. Il sole intanto si era avvicinato alle montagne: molto più lunghe e fredde oramai cadevano le ombre dai dossi rotondi e dalle rocce appuntite. Bisognava tornare verso la seggiovia prima che chiudessero le piste e fermassero gli impianti, lasciandoci in mezzo alla neve tutta la notte, quando sarebbe stato non piacevole bello e festoso, ma raccapricciante e rabbrividente, forse anche letale, rimanere distesi sotto il cielo, sia pure abbracciati e vestiti, guardando le stelle. Eravamo ancora contenti, anzi quasi felici. Ifigenia disse che l'amore fatto all'aperto era un segno di ritrovata intesa dopo due anni di smarrimento e confusione. Mentre tornavamo in paese con l'ultima corsa, tanto che la cabina pullulava di inservienti rubizzi e giulivi, osservavo il sole declinare tra le rupi aguzze: sembrava uno splendido uccello di fuoco calato sul nido di pietra dove aveva appoggiato gli artigli, mentre raccoglieva le ali e piegava il collo, arrotondandosi sotto le piume vermiglie.

"Lì non si scorgono del sole le rapide membra; in tal modo nel serrato segreto dell'armonia si è è resa compatta la sfera circolare tripudiante della beata unicità" (30). Era l’immagine visibile della Mente dell’Universo, era Dio stesso che ci salutava e benediceva mentre andava a dormire (31). Pensai a quante preghiere gli avevo rivolto dovunque l'avessi visto quando si annidava tra i monti dopo un volo in mezzo alla luce, o si tuffava nel mare, oppure si stendeva, come un vagabondo, in un giaciglio di foglie tra gli alberi delle colline, o scendeva su grandi pianure, in mezzo a corone di rondini e di piccole nubi purpuree. Dovunque gli avevo rivolto preghiere, sempre esaudite se buone e proficue non soltanto per me. Ogni volta gli avevo reso ringraziamenti pieni di riconoscenza, e lo feci anche quel giorno di marzo, poiché con la sua fiamma amorosa aveva ravvivato la fiaccola nostra, già vacillante, languida e vicina a morire. Ero grato pure a Ifigenia, siccome aveva assecondato i progetti del dio che da noi si aspettava le cose egregie cui ci aveva predestinati da sempre. Io  avrei scritto un capolavoro, lei sarebbe diventata una grande attrice e ci saremmo amati senza più screzi. Glielo dissi e le feci piacere. Così, confidando in destini buoni, tornammo alla Campagnola e cenammo.

 

Bologna  primo luglio 2025 ore 11, 21 

giovanni ghiselli


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Note

27 Cfr. Don Giovanni di Mozart. Da Ponte: “Quel casinetto è mio: saliremo, /e là gioiello mio, ci sposeremo” (I, 9).  

28 Cfr. J. Joyce, Dedalus, trad. it. Adelphi, Milano, 1976, p.285. 

29 Cfr. Pindaro, Pitica VIII, 95-96: skia'" o[nar a[nqrwpo"sogno di un'ombra è l'uomo.

30 Cfr. Empedocle, Poema fisico, fr.30 Diels-Kranz. 

31“Nulla sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che’l sole. Lo sole tutte le cose col suo calore unifica” (Dante, Convivio, III, 12).

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