Lunedì nove
marzo c'era un gran sole, caldo, luminoso, sicuro. Ci trovammo a colazione
pieni di buonumore. Durante la notte avevo deciso che da quell’ amante
squilibrata e pure splendida non dovevo aspettarmi più di quanto voleva darmi:
nient’altro che la fruizione del suo corpo oramai, comunque un dono non un
piccolo che avrei utilizzato al meglio per procedere metodicamente sulla
mia strada da solo. Anche Ifigenia era
tranquilla: probabilmente aveva pensato di prendermi quanto poteva,
senza fare storie e lagne prive di qualsiasi costrutto. Così armonizzati e
contenti come possono esserlo due amanti ex innamorati che hanno deciso
di cogliere tutto l’utile possibile l’uno dall’altro, salimmo con la
funivia al rifugio Le cune dove ci fermammo ad abbronzarci,
quasi in silenzio.
Sul
mezzogiorno, per cambiare posizione e visuale, scendemmo in un rifugio più
basso e riparato, dove era più forte il calore della fiamma celeste che
dona e nutre la vita. Appena scesi dalla seggiovia, ci togliemmo le
giacche a vento e arrotolammo le maniche delle camicie. L'umore era
allegro. A un tratto notai una casetta di legno in mezzo alla neve:
distava circa un chilometro in direzione di Bellamonte sulla strada
del passo Rolle, e tutt’intorno, per ampio tratto, non si vedevano orme. Doveva
essere disabitata.
Dissi:
"Creatura, guarda quel casinetto: è nostro (27). Andiamo là ad abbronzarci anche i
corpi". Desideravo fare l'amore
all'aria aperta, tra il sole e la neve che lo potenziava, ma
conservavo parte della cautela che mi ero imposta la sera prima. Però
Ifigenia mi fece capire che potevo, anzi dovevo essere franco.
"Dai –
disse – andiamoci e facciamo l'amore!".
"Come ai bei tempi - pensai - Stai a vedere che questa è rinsavita,
e Mi vuole di
nuovo!". Le feci un sorriso di riconoscenza, poi ci incamminammo semiabbracciati. Qua e là
affondavamo fino alle ginocchia e oltre, in qualche buco pieno
di acqua per il disgelo. Prendevamo tutto con allegria. "Poi ci
spogliamo e asciughiamo ai raggi caldi, corroborati da questo
biancore" dicevo.
E lei:
"Sì, e facciamo zazzì tante volte quante ci va".
“Non ti
vergogni?” domandavo per scherzo
"Io no.
E tu?”
“Nemmeno per
sogno!”
Eravamo
eccitati e felici. Finalmente giungemmo alla baita. Era proprio isolata.
Salimmo sulla terrazza non alta che la cingeva, afferrandone il bordo e
tirandoci su. Poi scavalcammo il parapetto e ci stendemmo sul lato volto a
sud ovest, verso il passo Rolle. Si vedevano soltanto le montagne innevate
e la cascata di luce che le faceva brillare. Rimanemmo fermi e silenziosi
per alcuni minuti, osservando il paesaggio. Sembrava un pomeriggio estivo:
il cielo era così luminoso e l'aria tanto calda che non rabbrividivo
all'idea di spogliarmi per fare l'amore con una ragazza di cui non mi
fidavo. Alcune grosse mosche iridate volavano e
il ronzio delle loro
canzoncine aleggiava senza parole vicino a
noi. Davanti agli occhi avevamo le pale di San Martino, bianche, lontane,
e illuminate così ardentemente da sembrare tre opliti giganti levatisi al
sole con le armature candide per riverberarne i dardi di fuoco. I lati
settentrionali, i fianchi destri degli smisurati guerrieri, dall'ombra che
eternamente li copre, mandavano bagliori azzurrini, gradevolmente freschi
in quella illusione d'estate. Ci spogliammo entrambi, del tutto.
Stendemmo i vestiti a far da giaciglio, ma le mutande le appesi ad un filo
teso sopra le nostre teste con delle mollette; per potere riprendere
subito in caso di necessità, le mie e quelle della mia ragazza, odorose
del sesso suo, della carne viva, stillante "fragranza e rugiada"
(28).
Quando
eravamo a Bologna, nel grande letto, e dovevamo alzarci in fretta e furia
poiché il tempo del suo permesso era scaduto, talvolta non riuscivamo a
scovarle che dopo lunghe ricerche. A dire il vero mentre ficcavo la testa
gonfia di sangue sotto il letto, e allungavo una mano, affannato,
respirando la polvere del pavimento, pensavo in dialetto pesarese: "Se
quest è un accident, che Dio ne manda cent ". In effetti me
ne mandati tanti il buon Dio di tali accidenti, mai deprecati. Negli
ultimi tempi avevo ripreso l'abitudine, imparata dalla
grande madre, Elena augusta, di metterle sotto il cuscino, ma
anche da lì talora sparivano, diabolicamente. Le care, profumate
mutande delle mie amanti amate. Quando ripenso alle mie donne e al
tempo migliore con ciascuna di loro, come quando ricordo i giovani
cui ho insegnato ad amare la vita, non credo che il vivere mio sia
stato soltanto il sogno di un'ombra (29), né una tragedia
totale, né un fallimento completo. Una bella opportunità è stata la vita
per me, e non l'ho sprecata, anzi, mi sono avvalso delle
occasioni che mi ha dato per fare del bene, e non solo a me stesso. Lo constato
ancora oggi da quanti mi leggono.
Così, stesi
su quella terrazza di legno, scaldati e abbronzati dal sole di primavera,
compenetrati a vicenda, riversi e fusi l'uno nell'altro, sorvolati da
mosche ronzanti musiche primaverili, ci scambiammo piacere illudendoci di
avere ritrovato il tempo felice di quando eravamo innamorati e avevamo
sempre voglia di unirci: in pizzeria, al cinema, sulla spiaggia di Pesaro
nel luglio del 1979, quando prendevamo un moscone e lo remavamo
velocemente, a turno, finché si giungeva al largo, lontani da ogni
presenza umana; allora, sul fondo ligneo della piccola imbarcazione,
abbacinati dal sole, sorvolati da bianche farfalle disperse sulla grande
pianura d'acqua azzurra e salata, ci toglievamo i costumi, li
mettevamo sopra la panca del rematore e facevamo l'amore tante volte da
arrivare a sentire la gioia dionisiaca della fusione con la luce, con il
mare, con l'intero universo che ci sorrideva. Allora i preti maligni, le
zie pretificate e imperiose, la madre furente, la nonna gelosa e tiranna
con il marito e crudele con la “servaccia” mezza vecchia presunta amante del
vecchio, il padre vacante, i colleghi furfanti, i presidi tangheri, erano
confutati, messi a tacere, sconfitti.
Il 9 marzo
del 1981 in mezzo a quei monti antropomorfi vicini al disgelo riuscimmo a
fonderci ancora una volta con la stessa panica ebbrezza. Allorché
fummo sazi di baci e carezze, ci rivestimmo. Il sole intanto si era
avvicinato alle montagne: molto più lunghe e fredde oramai cadevano le ombre
dai dossi rotondi e dalle rocce appuntite. Bisognava tornare verso la
seggiovia prima che chiudessero le piste e fermassero gli impianti,
lasciandoci in mezzo alla neve tutta la notte, quando sarebbe stato non
piacevole bello e festoso, ma raccapricciante e rabbrividente, forse anche
letale, rimanere distesi sotto il cielo, sia pure abbracciati e vestiti, guardando
le stelle. Eravamo ancora contenti, anzi quasi felici. Ifigenia disse
che l'amore fatto all'aperto era un segno di ritrovata intesa dopo
due anni di smarrimento e confusione. Mentre tornavamo in paese
con l'ultima corsa, tanto che la cabina pullulava di inservienti rubizzi
e giulivi, osservavo il sole declinare tra le rupi aguzze:
sembrava uno splendido uccello di fuoco calato sul nido di pietra dove
aveva appoggiato gli artigli, mentre raccoglieva le ali e piegava il
collo, arrotondandosi sotto le piume vermiglie.
"Lì non
si scorgono del sole le rapide membra; in tal modo nel serrato segreto
dell'armonia si è è resa compatta la sfera circolare tripudiante della
beata unicità" (30). Era
l’immagine visibile della Mente dell’Universo, era Dio stesso che ci salutava e
benediceva mentre andava a dormire (31). Pensai
a quante preghiere gli avevo rivolto dovunque l'avessi visto quando
si annidava tra i monti dopo un volo in mezzo alla luce, o si tuffava nel
mare, oppure si stendeva, come un vagabondo, in un giaciglio di foglie tra gli
alberi delle colline, o scendeva su grandi pianure, in mezzo a corone di
rondini e di piccole nubi purpuree. Dovunque gli avevo rivolto preghiere,
sempre esaudite se buone e proficue non soltanto per me. Ogni volta gli
avevo reso ringraziamenti pieni di riconoscenza, e lo feci anche quel giorno di
marzo, poiché con la sua fiamma amorosa aveva ravvivato la fiaccola
nostra, già vacillante, languida e vicina a morire. Ero grato pure a
Ifigenia, siccome aveva assecondato i progetti del dio che da noi si
aspettava le cose egregie cui ci aveva predestinati da sempre.
Io avrei scritto un capolavoro, lei sarebbe diventata una
grande attrice e ci saremmo amati senza più screzi. Glielo dissi e le feci
piacere. Così, confidando in destini buoni, tornammo alla Campagnola e
cenammo.
Bologna primo
luglio 2025 ore 11, 21
giovanni
ghiselli
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Note
27 Cfr.
Don Giovanni di Mozart. Da Ponte: “Quel casinetto è mio: saliremo, /e
là gioiello mio, ci sposeremo” (I, 9).
28 Cfr. J. Joyce, Dedalus, trad. it. Adelphi, Milano,
1976, p.285.
29 Cfr.
Pindaro, Pitica VIII, 95-96: skia'"
o[nar a[nqrwpo", sogno di
un'ombra è l'uomo.
30 Cfr. Empedocle, Poema fisico, fr.30
Diels-Kranz.
31“Nulla sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che’l sole. Lo sole tutte le cose col suo calore unifica” (Dante, Convivio, III, 12).
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