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Giovedì 11
giugno accompagnai Ifigenia a Riccione, al Grand Hotel. C'era
un convegno sul teatro: in quell'albergo monumentale e cadente si stavano
riunendo attori, registi, giornalisti,
e una commissione giudicatrice
che la sera seguente doveva assegnare il trentacinquesimo
premio nazionale Riccione/Ater per il teatro. Partecipavo
al concorso cui avevo inviato, secondo la prescrizione del bando,
dieci copie dattiloscritte del mio pezzo teatrale. Poco prima di
partire, attraverso una telefonata, seppi di non essere stato selezionato
tra i quattro migliori. Ci rimasi male, ma non persi la convinzione
che il mio lavoro, sebbene breve, scritto in fretta, e didascalico,
fosse bello. Si vede che i drammi scelti erano ancora più
belli. Oppure la commissione non aveva giudicato secondo il criterio
della bellezza, ed era corrotta come la scuola descritta nella mia tragedia,
come quasi tutto allora e oggi non meno, anzi. Comunque ho trascritta la pièce in questo romanzo, e sarai tu a
giudicare se vale qualcosa,
lettore. Ifigenia fu
comprensiva e gentile quando, prima di passare da lei per portarla a Riccione, le telefonai per
dirle che non ero entrato
nella rosa dei selezionati. "Non
dubitare di te” mi incoraggiò. “Il tuo lavoro è servito a farci capire che
sai scrivere bene, con forza. Ora però devi impiegarla in un'opera più
grande. Non perdere fiducia in te stesso". "No,
no - promisi - Anzi, sono sempre determinato a scrivere: voglio
rifarmi di questo insuccesso". "Un
insuccesso solo momentaneo, vedrai!" “Sì certo.
Ora vengo a prenderti". Erano le
cinque e mezzo di un pomeriggio afoso, umido e ventoso. Il cielo era
trascorso da una nuvolaglia bianchiccia, inquieta, eppure
monotona, come una persona nervosa e molesta. Il sole andava
e veniva. Partimmo da
casa sua intorno alle sei. Alle otto e mezzo alcuni allievi
attori già convenuti là, avrebbero recitato un dramma di Pirandello
in una sala del vecchio albergo. Ifigenia non partecipava, ma voleva vederli. Poi sarebbe rimasta tra loro, mentre io sarei
tornato a Bologna di notte poiché la mattina seguente avevo
lezione. Arrivammo
verso le sette. La cittadina non era ancora gremita di gente in
vacanza. Andammo a fare due passi sulla riva del mare. Mi vennero
in mente alcune frasi del libro che stavo leggendo: "Non eravamo in un
angolo dell'arcipelago greco, non c'erano glauche onde carezzevoli, isole e
rocce, né una spiaggia fiorita con un magico panorama in lontananza e
l'invito del sole morente" 1. Né avevo la bicicletta. L'acqua
incalzata dal vento era agitata e torbida, come una donna
isterica, dalle intenzioni non chiare. Ci sedemmo a
un tavolino del corso. Ordinammo due coni. Ifigenia
parlava poco e di malavoglia. Niente di interessante e vivo diceva.
Io non sapevo che cosa rispondere. Per
lo più tacevamo. Leccavamo
due gelati grossi, non buoni, e guardavamo il passeggio
nella celebre via percorsa dal
turistame che mi rattristava e infastidiva, come sempre. Sorbivamo la
poltiglia fredda e dolciastra adagio, per fare passare il tempo. Mi sentivo
un anziano messo in pensione. Nell'aria salata e appiccicosa c'era una
stanchezza mortale, un'afa di putrefazione. Non avevamo più idee,
sentimenti né interessi comuni. Ifigenia
voleva inserirsi nell'ambiente dei convenuti a "Le Grand
Hotel", e io le pesavo; lo capivo, mi sentivo a disagio e, nell'imminenza
della catastrofe pur necessaria, avevo paura. Come succede
prima di un'operazione chirurgica, anche se sai, o speri, che ti
ridarà la salute. Di questo però non si poteva parlare, poiché lei
dissimulava. Se le avessi fatto notare qualcosa del nostro disagio,
avrebbe detto: "Gianni, io ti amo tanto, tanto. Hai capito?" Lo disse
difatti qualche ora più tardi, mentre il suo comportamento manifestava
tutt'altro che amore. Eravamo
sempre seduti sulla strada famosa percorsa da turisti precoci in
una passeggiata macabra. La via più famosa di Riccione finisce in “ini”, ma non lo scrivo intero
poiché mi disturbano gli imbecilli che, per farsi considerare uomini di
mondo, di vita allegra e
ricca, sfoggiano la conoscenza toponomastica di tali località
sacre per loro, Gerusalemme o Mecche delle vacanze, posti
squallidi generalmente, frequentati da gente ordinaria, dozzinale, e pure peggiore. L’auge fu battezzata da
Mussolini.
Beninteso io
scrivo male di Riccione anche perché vi ho subito
una delle più grosse frustrazioni della mia vita. Restammo lì
fissi fino alle otto e qualche minuto. Poi finalmente arrivò l'ora
di muoversi per vedere la recita. Del resto fu una cosa noiosa.
Finita questa, Ifigenia andò a congratularsi con i compagni e
rimase a parlare con loro. Li osservavo da qualche metro e ne
ascoltavo i discorsi, naturalmente giovanili, sebbene alcuni si
dessero toni da persone già vissute e un poco bruciate. La mia compagna
era agitata: faceva battute nel loro gergo di zingari dionisiaci, chiedeva
quale fosse il programma dei giorni seguenti, voleva sapere chi
sarebbe arrivato tra gli attori famosi in odore di frequentare l'ambiente
del premio. Mi sentivo
sempre più a disagio, e di impiccio per lei. Rimasi dieci
minuti, poi mi scostai senza dire niente, né salutare, in quanto
nessuno badava a me, come giusto. Però, altrettanto giustamente,
ero pentito di essere andato a Riccione. Volevo tornare a
Bologna quanto prima. A casa mia, ai miei libri, ai bambini di
quarta ginnasio. Era tutto più autentico.
Uscii.
Camminai per dieci minuti nel buio del vasto giardino. L'albergo
visto da fuori e da sotto sembrava più malandato che mai:
incrinato quasi, e prossimo a crollare lì sulla ghiaia grigia dei viali.
Come la casa degli Usher. Sul pensiero
confortante che era l'inizio dell'estate, prevaleva il presentimento
terrificante che finiva un'era per me, quella di Ifigenia la
bella; che dovevo cambiare vita ancora una volta, restare solo
per chissà quanto tempo. Dovevo affrontare un'altra morte per arrivare
a una nuova nascita. La morte, anche se vi si giunge soltanto
quando si è esauriti e stremati, è sempre una cosa inquietante,
anzi la più inquietante di tutte - deinovnaton -
giacché nell'ora estrema non possiamo sapere cosa saremo dopo la nuova
genesi. Se pure ci sarà. Nel giardino
semibuio c'erano altre rappresentazioni poco seguite. Tra fiochi
fasci di luce andavano e venivano alcune persone. Mi tornò in
mente l'affaccendarsi di quelli che bazzicavano il festival del Cinema
Nuovo di Pesaro negli anni Sessanta. Chi voleva farsi credere addetto ai lavori, accreditato, inserito, si aggirava fra il Teatro
sperimentale o il cinema Astra, dove proiettavano i film, il bar Capobianchi
e la sala stampa tenendo sottobraccio fasci di giornali e riviste specializzate;
si mostrava attivo; ogni tanto si avvicinava a qualche
personaggio e lo salutava chiamandolo per nome. Il famoso non
rispondeva, o rispondeva distrattamente. Ma l'indaffarato, se riceveva
anche solo un cenno del nume, esultava, poiché aveva fatto la
parte di quello che conosce chi conta, e conta a sua volta qualcosa.
Negli anni Ottanta questo culto dell'apparenza e dell'intrallazzo
stava crescendo in maniera ipertrofica. I più si recavano in
tali ambienti non per imparare, ma per curiosare, cercare
incontri utili o piacevoli, farsi vedere. Ci andavano
e vi si fermavano apposta. Ifigenia, se
voleva, poteva riuscire piacevole a uno che le sarebbe
stato utile, se avesse ritenuto quel piacere degno di iterazione e
meritevole di contraccambio. A me quel mondo appariva
senza cuore e senza spirito. Pensavo che la mia donna,
giovane e bella com'era, se fosse stata anche disposta a compiacere
chi veramente contava, e lo avesse fatto con intelligenza
machiavellica, ossia senza morale ma con la comprensione
di quanto realmente le conveniva, si sarebbe trovata in vantaggio
rispetto alle persone meno dotate di lei fisicamente, eppure ugualmente
bramose di inserirsi in quel giro spietato. Già presoffrivo
la fine della nostra storia. Del resto sapevo che i dolori possono
essere occasioni per capire e migliorare, sicché non recalcitravo al destino. Poco prima
di mezzanotte, Ifigenia si ricordò di me: venne a cercarmi, e,
come mi vide, si accorse che non ero a mio agio. Avvicinatasi,
disse: "Non avere paura. Io ti amo tanto, ma ora devo stare con i
compagni della mia scuola . Lo capisci, vero?" "Certo.
Anzi adesso torno a Bologna, perché domani devo alzarmi alle
sette". "Non ce
l'hai con me, vero Gianni?" domandò ancora. Poi ripeté: "Non
avere paura: io ti amo, ti amo tanto, e voglio stare con te". “No, non ce
l'ho con te Ifigenia - risposi - Sono solo stanco: è da questa
mattina a buon’ora che sto in piedi. Voglio tornare a casa, andare a
dormire. Poi qui in effetti non ho niente da fare. Tu sì. Restaci e
non temere: io mi fido di te, ti amo e ti voglio bene”. Non volevo
darle pretesti per odiarmi. Tuttavia osai rivolgerle una domanda
rischiosa, per chi la pone, in circostanze del genere a una donna del
genere. "Domani
che cosa farai?" "La
mattina andrò in spiaggia per abbronzarmi, nel pomeriggio tornerò qua
a vedere se ci sono lavori interessanti, ad ascoltare qualche
esperto che fa lezione. A proposito, mi hanno detto che domani
dovrebbe venire a parlare il grande attore di cui sai, il mio mito e modello
in fatto di recitazione".
Questa
notizia inopinata, tuttavia non mi sgomentò né mi diede fastidio;
anzi pensai che il celebre istrione avrebbe portato se non altro una
nota di vivacità mondana tra quei giovani provinciali.
E Ifigenia avrebbe avuto qualche cosa da raccontarmi.
Ma forse in cuor mio desideravo che sarebbe accaduto
quanto stava per accadere. Sentivo che
la catastrofe era destino e
sapevo che recalcitrare al destino è un errore. La fine tra noi era
inevitabile e imminente, ma avvenendo in maniera tragica, non con un
piagnisteo, bensì con uno schianto 2 e per mezzo di quell'uomo
fatale, preannunciato due anni e mezzo prima sia da uccelli
profetici sia da altri presagi, sarebbe stata anche drammatica o
romanzesca, comunque adatta a provocare, per reazione, la
nascita dell'opera letteraria che pensavo di dovere a me stesso e
all'umanità. D'altra
parte Ifigenia aveva appena affermato che voleva stare con me. E
quando aveva voluto piantarmi, il 15 marzo, lo aveva detto
direttamente e tosto fatto, lasciandomi solo nello studio che biancheggiava
di luna primaverile. La notte
dell'11 giugno invece disse: "Ti telefonerò domani alle due e ci metteremo
d'accordo sull'ora. Tu verrai qua, prenderemo una camera,
faremo l'amore tante volte, dormiremo un poco, e dopo domani
andremo a Pesaro. Domenica sera torneremo a Bologna, e lunedì mi
farai lezione. Va bene?" "Sì
cocca, faremo l'amore, andremo al mare di Pesaro, poi ti farò
lezione", risposi. "Davvero ti va il mio programma?" ripeté con un ammiccamento che voleva
simulare la voglia erotica e
dissimulare la preoccupazione
reale: quella che non andassi via subito. "Sì,
certo", ribadii, ma poi, non volendo nascondere tutta la diffidenza
insorta davanti al desiderio troppo ostentato di stare con me,
aggiunsi: "A me va benissimo; tu piuttosto non fare complimenti:
domani, se vedi o prevedi di avere qualche impegno che non mi
riguarda, dimmelo chiaramente al telefono. Capirò: io quando ho
del lavoro da fare, non ammetto distrazioni. Non mi sentirò
offeso se dirai di non avere tempo per me. Invece mi spiacerebbe tornare
qua per niente. Tanto più che domani pomeriggio
dovrò preparare lo scrutinio". "Va
bene - fece - restiamo d'accordo così". Poi aggiunse: "Ti dispiace se
non ti accompagno alla macchina? I miei amici mi aspettano". La bianca
Volkwagen era parcheggiata sul lungomare, a settanta metri dal luogo dove
stavamo parlando. Questo
egoismo ingrato, volgare, mi disturbò, e glielo dissi: "Se hai fretta
vai pure, ma non mi sembra cosa ben fatta, né di buon gusto, dopo
che ti ho portata qui da Bologna, non accompagnarmi all'auto
parcheggiata a due passi. Mi dispiace rinfacciartelo, ma tu mi
costringi". "Hai
ragione, scusa", rispose, contrariata a sua volta, e mi seguì fino
all'automobile, di malavoglia. Non vedeva l'ora che mi togliessi
dai piedi. A quel punto anche io volevo restare solo per non vedere
più la faccia, divenuta odiosa, della spudorata egoista con la quale
avevo vissuto l'amore più grande della mia vita. Così credevo
allora. Col senno di oggi penso che siano stati più belli e autentici gli
amori con le due Elene, la praghese e la finnica augusta, e perfino l’innamoramento non
contraccambiato del bravo scolaro Giannetto per la brava scolara Marisa nella
scuola media Lucio Accio di Pesaro. Mentre mi
seguiva con riluttanza, Ifigenia aveva il volto teso, e acceso da un'ira che mandava bagliori sinistri;
come se le si riverberasse in faccia il fosco bagliore di un fuoco infernale. L'aveva contrariata
assai essere stata scoperta e sgridata subito dopo la commedia di
benevolenza recitata male. Insomma era un pessimo
segno per la sua capacità e carriera di attrice. Ci salutammo
senza dire altro. Arrivai a
Bologna verso l'una. Quando fui entrato nella cucina sconvolta,
tirai fuori dal congelatore quattro budini di cioccolata, duri e
pesanti come mattoni. Li ammorbidii uno per uno con la fiamma
bluastra del gas, poi li mangiai con avidità angosciosa rabbrividendo
e allegandomi i denti. “Una così è
meglio perderla che averla trovata”, sentenziai.
Villa
Fastiggi, 27 luglio 2025 ore 9, 50 giovanni ghiselli
p. s.
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Oggi molti
“vacanzieri” sono su strade e autostrade. Qualcuno mi legge tuttavia. In
questi 6 mesi quasi conclusi del 2025 ho già avuto qualcuno più di centomila
lettori. Credo potere di arrivare a 2
miloni entro l’anno prossimo, se mi rimetto in gamba e in forma. Se Dio
vorrà. Credo che lo vorrà se le mie parole potranno giovare a qualcuno oltre
che a me. Il mio catechismo vuole ricordare, rammentare e onorare la kalokajgaqiva, la bellezza associata alla bontà. Senza
penalizzare l’istinto.
Note 1 Cfr. I Demoni di Dostoevskij, trad. it. Garzanti, Milano, 1973, p.453. 2 Cfr. viceversa Not with a bang but a whimper“ , T. S. Eliot, The hollow man, ultimo verso.
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