La compagna di viaggio sonnecchiava sebbene non fosse tragicamente tardi. Di sua iniziativa non diceva parola, e, quando le domandavo qualcosa, rispondeva, or sì or no, a monosillabi. Alla lunga mi diede fastidio, e un poco alla volta i sentimenti amorosi si dileguarono lasciando posto al risentimento. Mi venne in mente un altro viaggio, fatto in tempi meno malsani: allora la ragazza mi aveva raccontato che sua madre, durante le ore di guida del marito sui lunghi percorsi autostradali, invece di aiutarlo a vincere il sonno nemico parlando con lui, dormiva, o fingeva di farlo, poiché non aveva niente da dirgli. La stessa scappatoia prendeva la madre mia quando mio padre, cui piaceva parlare, protendeva un braccio con fare elocutorio. Al pensiero che i dissapori parentali si ripetessero tra noi, mi venne l'angoscia. Volli provare se tale pena fosse scaturita solo dagli antichi dolori miei, o se avesse una causa nella realtà che stavamo vivendo.
Domandai a bassa voce: "Dormi tesoro?" "No - rispose con aria stanchissima e pigra - ma ho tanto sonno". "Ho sonno anche io - ribattei, quasi polemicamente - ci facciamo compagnia per un poco?". "No: ho troppo sonno. Ti prego, lasciami dormire". Non le chiesi altro; avevo già provato a me stesso che la mia angoscia era stata causata dal solito suo atteggiamento da parassita egoista: se eravamo entrambi assonnati, non capivo perché io dovessi vegliare per riportarci a casa e lei dormire, o fingere di dormire. La bella ragazza, la necessaria Musa, davanti a me si toglieva ancora le mutande odorose, grazie a Dio, però con me non voleva parlare più, poiché non era punto disposta a collaborare.
Questo pensiero, dopo le radiose speranze del pomeriggio, mi rodeva di nuovo. "E' il suo egoismo colossale, schifoso, a guastarmi l'umore, a darmi l'angoscia, a corrompere ogni gioia mia che non condivide, come non vuole collaborare a niente di serio e impegnativo". Ero pieno di risentimento. Alla stazione Affi, lago di Garda sud, mi fermai e scesi per un caffè, senza invitarla. Quando fui tornato ed ebbi ripreso a guidare, quella doveva avere capito qualche cosa del mio stato d'animo, preoccupandosene, per sé naturalmente; fatto sta che alzò la testa e mi chiese: "Allora di cosa vuoi che parliamo?" "Del mio capolavoro", dissi con tono secco e astioso. Poi tacqui. Ma dopo qualche secondo, siccome la Musa nemica non sembrava intenzionata a fare altre domande, aggiunsi una provocazione che era anche una mezza dichiarazione di guerra. "Voglio scrivere un'opera d'arte sulla nostra storia; così quando sarà finita del tutto ne resterà il ricordo". A questo punto la ragazza si svegliò completamente e domandò irritata: "Ebbene? Cosa dovrei fare io?". Allora, per bilanciare i toni della conversazione che speravo continuasse almeno fino a Mantova est, con voce addolcita risposi: "tu potresti leggere gli appunti di questi ultimi due anni, non sono molti, e sottolinearne, magari commentarne le parti degne di entrare, rielaborate, nel nostro capolavoro". Speravo in una risposta conciliante, invece avevo scatenato anche il risentimento suo, e il demone funesto della nostra competizione cattiva - e[ri~ kakh v(34 bis) - Infatti rispose: "Se avrò tempo, li leggerò dopo il mio esame. Fino a tutto luglio non posso: devo pensare ai compiti verso me stessa, prima di assecondare la tua volontà di successo". "Senti come ha imparato la parte della Nora di Ibsen (32)", pensai. "Ho capito", risposi, e non le rivolsi più la parola. Mi ripugnava il suo parassitismo metodico nei miei confronti , il recitare evidente e continuo, la volontà di sfruttarmi da parte di tale rettile velenoso rivestito del corpo di Venere. Da me aveva appreso, preteso e preso tutto quanto le era stato possibile, e in cambio non voleva darmi più niente. Eppure anche dai suoi rifiuti potevo imparare, almeno finché la sofferenza del precipitare retrogrado, non fosse diventata inutilmente deleteria. Allora mi sarei fatto lasciare e avrei cominciato a scrivere.
Arrivati a Bologna, la scaricai davanti al cancello, senza aiutarla a portare i bagagli davanti all’ingresso del suo covo equivoco: la salutai freddamente dall'automobile. Imparare soffrendo, sì; ma farsi calpestare, no, nemmeno dall'aurea Afrodite. La odiavo. Tornai a casa mia dove sentii di essere solo nel mondo. Ma non mi dispiaceva dato il mio fatalismo. Avevo capito che la rovina del nostro rapporto, la sua tragica fine imminente e l’inizio del mio capolavoro erano due eventi confatali – confatalia (33) suneimarmevna (34) - e, dato il mio amor fati, dovevo collaborare con entrambi. Lo stratego del mio agire doveva essere sempre il destino. Il mio destino che amavo siccome mi identificavo con lui.
Pesaro primo luglio 2025 ore 18, 37 minuti
giovanni ghiselli
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Note
32 Cfr. Casa di bambola, ultima scena.
33 Cfr. Cicerone, De fato, 30.
34 Cfr. Plutarco, Peri; eijmarmevnh~ 569F
34 bis Cf.r.
Sofocle, Edipo a Colono, 372 a proposito della brutta competizione
per il potere tra Eteocle e Polinice
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