La mattina, verso le nove, andai a chiamare Ifigenia che era già pronta; quindi scendemmo insieme nella sala della colazione. Avevo voluto evitarle l'imbarazzo di salutare da sola Margherita e i suoi amici. Questi stavano finendo di nutrirsi; come ci videro entrare, si alzarono in piedi, ci applaudirono e fecero dei gran complimenti. In effetti la ragazza era bella assai e imbelliva anche me. Poco dopo le dieci, salimmo sulla pista del Lusia. Ifigenia si era procurata sci e scarponi, ma non volle provarli; "forse domani" disse. Cosa era to; katevcon [1] ciò che la tratteneva? La paura di fare una figuraccia o perfino di farsi male. Quando furono le undici anzi, accusò un forte male di stomaco e volle rientrare in albergo per stendersi nel letto. Sarebbe tornata più tardi. Sciando, pensavo a lei che mi aveva accompagnato per soffrire e farmi soffrire: non sciava, non parlava, non osservava il paesaggio, aborriva il gruppo di mia sorella, nemmeno del sole e dell'abbronzatura si curava. Era venuta sulle Dolomiti per chiudersi in una stanza e lamentarsi. “Meglio contentarsi che lamentarsi”[2] ricordai. Fulvio mi fece passare questo vizio quando lo conobbi nel 1966 minacciando di bastonarmi se non la smettevo. Aveva in mano un bastone. Mi parve uno scettro e diedi retta. Mai una minaccia fu tanto benefica per me: mi tolse il vizio di essere querulo. Ifigenia dunque era un peso gravoso nella mia vacanza moenese. Mi venne in mente un compagno di scuola di quinta ginnasio, Maurizio Sessi, che nella gita scolastica del 1960, proprio a Moena, durante una colazione, chiese un panino. Siccome non glielo portarono, si lagnava: "Boia di un Giuda, ho fatto spendere quindici mila lire a mio padre per non mangiare un panino? Sa ’sti quattré! Do’ i’ ho i sold? E tu Ghiselli, perché mi hai detto che questi posti dove ci affamano sono bellissimi? Era meglio se restavo a casina mia, e quei bei baiocchi me li tenevo in saccoccia, boia miseria!". Vecchio, compagno di scuola, tutto istinto. Mi venne in mente per converso l’icona sacra di Marisa e la gita scolastica delle nostre due terze medie a Venezia nel 1958. Era sempre sorridente e mite, una fanciulla dalla bellezza benigna e vestita di umiltà. Fu e rimase un modello di persona amabile. Invece Ifigenia come Sessi era tutto istinto, nemmeno benevolo nei miei confronti, ed era meglio se non veniva a Moena. Rimuginavo fastidiosi pensieri e ricordi letterari mescolati e temperati con buffonate e solecismi della mia adolescenza pesarese. Alle tre cercai di telefonarle. Una voce rispose che la signorina non era in albergo. "Cosa? - pensai - E' uscita?" Cominciavo a sentire il morso vipereo della gelosia, quando la vidi apparire con la faccia pallida, immersa nel bavero rialzato del montone nuovo, quasi bianco anche lui. Era più attraente del solito. Come Päivi quando mi accolse all’aeroporto di Helsinki e già covava la morte della nostra bambina. Donne in fuga da me. Meno male penso oggi. Se non fossero fuggite sarebbe andata peggio. "Stai meglio?" le domandai. La madre mia quando le davo fastidio invece chiedeva: stai peggio?”. Intendeva mentalmente. "No, sto ancora male. Sono tornata perché in camera da sola avevo paura. Ti aspettavo, ma tu non arrivavi mai. Non hai nemmeno telefonato. Speravo tanto che lo facessi". Contraccambiai la cortesia. "Infatti, stavo per farlo in questo momento, tesoro. Sarei venuto adesso, se tu mi avessi detto o fatto capire che gradisci la mia presenza. Prima non ti ho chiamata perché pensavo che stessi dormendo. Davvero non ti è passato il male?" "No, gianni, sto molto peggio di prima". "Moena, o cara, noi lasceremo,/ la vita uniti trascorreremo:/de' corsi affanni compenso avrai,/la tua salute rifiorirà" (6), canticchiai quasi senza ironia. Traviata era lei pure. Si vedeva che non stava bene, il pallore tendeva al verde, ma la sua venustà era inattaccabile, integrale era: anche se mutava colore non cambiava sostanza. "Cosa pensi che sia, cocca?", le domandai. Mi venne in mente Helena, e la sera di un luglio lontano, eravamo nel 1971, quando alla stessa domanda rispose: "ho male al ventre: potrei essere incinta, ma potrebbe anche essere un cancro" (7). Quando mi chiedeva aiuto Helena suscitava il mio istinto paterno nonostante fossimo coetanei. "Non lo so - fece Ifigenia - sento dolori forti sotto lo stomaco, a destra. Forse è il fegato. "Bellina - pensai - le tue vene tremano senza tregua, come cespugli di rose" (8). "Ti accompagno in albergo, poi rimango là - dissi - ho sciato anche troppo".
Note [1] Paolo, Seconda lettera ai tessalonicesi, II, 6 [2] G. Verga, I Malavoglia (del 1881), p. 203.
6 Cfr. La traviata, F. M. Piave-G. Verdi, III,6. 7 Cfr G. Ghiselli, Tre amori a Debrecen. Non compratelo: potete trovarlo in prestito nella libreria Ginzburg di Bologna. 8 Cfr. József Attila, Ode, 4. Bologna 23 gennaio 2025 ore giovanni ghiselli
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Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
domenica 6 luglio 2025
Ifigenia CCXXXI. La ragazza sta peggio.
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